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Da Torino a Jalta

Togliatti val bene una fiction

Francesco Cundari

Nella vita del primo segretario del Pci c’è la rivoluzione, l’amore segreto, la spy story. Altro che centenario

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Sono passati cento anni dalla fondazione del Pci e trenta dalla fine del comunismo, ma basta fare un giro per una libreria o anche solo aprire Facebook in questi giorni per rendersi conto di quanto siano ancora presenti nell’immaginario di tanti italiani. Dunque è tempo di abbattere l’ultimo muro – chiamatela pure la “quarta parete” di Berlino – dando finalmente al paese quella fiction su Palmiro Togliatti che solo vecchi e ormai logori vincoli ideologici, “preamboli” culturali scaduti da decenni, pregiudizi senza più senso, hanno fin qui impedito di realizzare. Si potrebbe discutere a lungo delle ragioni per cui oggi sia più attuale e necessaria che mai, ma è una discussione che mi porterebbe troppo lontano, sviandomi dall’aspetto squisitamente tecnico della questione, che è invece quello che vorrei trattare qui. Per non lasciare nulla in sospeso, comunque, direi che proprio la straordinaria quantità di libri, articoli, tweet e post celebrativi o autocelebrativi per una ricorrenza obiettivamente singolare – la semplice fondazione di un partito, per di più defunto da trent’anni – testimoniano quanto la dimensione propria del fenomeno, oggi come oggi, sia proprio quella onirica, psicologica e letteraria. La fiction, insomma.

 

Non esiste nella storia d’Italia un personaggio pubblico che più di Togliatti abbia percorso e rappresentato le tragedie e le contraddizioni del Novecento, e la cui esperienza sia stata di fatto già sceneggiata, smontata e rimontata meglio della sua. C’è un mare di biografie, articoli, saggi e memorialistica varia in cui pescare. Una messe di aneddoti, leggende, note di regia e dialoghi semplicemente perfetti che bisogna solo copiare. Il motivo tecnico per cui una fiction su Togliatti non può non essere un capolavoro è che la sua vita contiene già in sé tutti i generi letterari (e televisivi) immaginabili: il romanzo storico, tra guerra e rivoluzioni (dal primo al secondo conflitto mondiale, dalla marcia su Roma alla rivoluzione russa), la spy story (dalla guerra di Spagna all’Urss di Stalin), la storia d’amore, con momenti drammatici ma anche scene da commedia romantica (il suo rapporto con Nilde Iotti, le notti vissute nascosto con lei all’ultimo piano di Botteghe Oscure, con la vigilanza ignara di tutto che una notte spara nel buio, fortunatamente senza colpirli, né scoprirli).

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L’inizio del racconto non può che essere una classica carrellata sulle goliardate del gruppo di amici inseparabili, i quattro moschettieri dell’Ordine nuovo, a Torino. Oltre al nostro eroe: Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Angelo Tasca. La macchina da presa li segue tra università, giornali e osterie, là dove, come raccontato nella biografia di Giorgio Bocca (una delle più ricche dal punto di vista che c’interessa: acquistarne subito i diritti), si svagano raccontando barzellette audaci, fondando “un’accademia di erotismo” e dove “il timido Palmi sbalordisce con il suo distintivo che sembra di un qualche club aviatorio, con quelle due ali, ma se volti il bavero scopri che è un fallo”. Un clima spensierato e allegro, nonostante le difficoltà economiche con cui già devono confrontarsi (specialmente Gramsci), presto investito dai grandi sconquassi della storia del mondo: la prima guerra mondiale e la rivoluzione sovietica. Quando cominciano la loro battaglia per la rivoluzione nelle file del Partito socialista, Gramsci ha ventisette anni, Tasca ventisei, Togliatti venticinque, Terracini ventitré. E ne hanno pochi di più nel 1921, quando partecipano alla scissione di Livorno da cui nasce il Partito comunista d’Italia. Ma saranno costretti a invecchiare presto, imparando a proprie spese le durezze della grande politica: chi, come Gramsci, rinchiuso nel carcere fascista, scoprendosi emarginato nel suo stesso partito; chi all’Hotel Lux di Mosca, come Togliatti.

 

Sono momenti difficili per tutti e anche il nostro protagonista, che pure ha fama di uomo gelido, ha all’inizio, com’è ovvio, le sue esitazioni e i suoi timori, quando a trent’anni deve scegliere la sua strada, tra l’impegno nel partito e una più tranquilla carriera universitaria, proprio dinanzi al dilagare della violenza fascista e all’affermarsi del regime. “Caro Palmiro – gli scrive Terracini nel 1923 – parleremo lungamente appena avremo la fortuna di rivederti. Non ti nascondo però fin da ora la nostra meraviglia per la tua condotta in questi momenti gravissimi…”. Lo sconcerto per l’improvvisa scomparsa di Togliatti è tale che lo stesso Terracini, poco dopo, fa pubblicare sull’Avanti un avviso: “Si invita il compagno Togliatti a rimettersi in rapporti diretti con il C.E. (comitato esecutivo, ndr) del partito”. Ad Andrea Viglongo che ancora sull’Avanti lo accusa di avere abbandonato la lotta nel momento più difficile, Togliatti risponde con parole nette, che hanno qualcosa di infantile: “Io personalmente me ne frego assai perché da quando sono entrato nel partito e non solo, ma in generale ho per principio di non tenere in nessun conto le opinioni che si hanno su di me. Soltanto io so se sono un mascalzone oppure no e nel giudizio degli altri non trovo motivi mai né di compiacimento né di dispiacere”.

 

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Alcuni biografi, per questo e altri episodi simili, lo hanno definito vile. Starà poi agli sceneggiatori scegliere quali episodi riportare – e a quali dar credito – ma certo per la fine della prima puntata non c’è migliore colpo di scena del’irruzione fascista nella redazione del Comunista, con gli squadristi che chiedono del direttore, Togliatti che si fa avanti come più alto in grado (era caporedattore), viene malmenato e messo al muro per un’esecuzione sommaria, ma riesce miracolosamente a fuggire dalla finestra, scapicollandosi sui tetti di Torino, e per il suo “atteggiamento veramente eroico” sarà elogiato da Amadeo Bordiga dalla tribuna del quarto congresso dell’Internazionale comunista (per questo e altri episodi è da tenere presente anche la biografia di Aldo Agosti). Del resto, dà prova di non minore sangue freddo anche in Spagna, quando un bombardamento coglie allo scoperto l’inviato dell’Internazionale, che si fa chiamare Alfredo, e il leggendario comandante Carlos cantato da Hemingway. All’anagrafe: Palmiro Togliatti e Vittorio Vidali. Non trovando altro riparo, i due sono costretti a gettarsi in una buca, e ad aspettare che passi. Il loro dialogo merita di essere riportato per esteso. Togliatti: “Cosa fai adesso?”. Vidali: “Cosa vuoi che faccia, controllo la paura, finché ci riesco”. Togliatti: “Voglio dire, che incarichi hai?”. Silenzio. Di nuovo Togliatti: “Fai troppe cose insieme tu, Carlos: ti occupi del sabotaggio, della propaganda, del soccorso ai profughi. Chi fa troppi lavori insieme li fa male tutti”. Vidali: “D’accordo, ne parleremo dopo”. Togliatti: “Ecco un’altra brutta abitudine, quella di rimandare a domani ciò che può essere fatto oggi”.

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Alla guerra di Spagna, che già ne è pesantemente condizionata, segue il lungo viaggio di Togliatti attraverso il Grande terrore staliniano, mentre compagni fino a un momento prima onorati come eroi spariscono nel nulla. Una stagione buia davvero, che si conclude con la fine della guerra, per lui senza dubbio il momento più luminoso. Nel tardo pomeriggio del 27 marzo 1944 sbarca infatti a Napoli Palmiro Togliatti, nome di battaglia Ercoli. “Anche prima di arrivare in vista delle coste – annota – un’enorme massa di fumo che si addensava sul mare per decine di chilometri annunciava l’Italia e il Vesuvio. Questo era in eruzione e una pioggia di cenere sottile vagava sul golfo, copriva i campi e le strade. La notte i bombardieri tedeschi si facevano guidare dai bagliori di fuoco del cratere. Il volto della Patria, di nuovo raggiunta dopo diciotto anni di esilio, aveva qualcosa di apocalittico”. Si apre la stagione gloriosa della svolta di Salerno e della Costituente, che si concluderà con le elezioni del 18 aprile 1948. E soprattutto, il 14 luglio, con l’attentato di Antonio Pallante. Quei colpi che rivelano all’opinione pubblica la relazione del segretario del Pci con Nilde Iotti, la “giovane deputata di Reggio Emilia” che lo accompagna e si getta su di lui, a terra, per proteggerlo. Togliatti resta per giorni tra la vita e la morte, mentre operai ed ex partigiani occupano fabbriche e municipi, e l’Italia sfiora una nuova guerra civile, che per fortuna non ci sarà. Verranno invece gli anni della Guerra fredda, carichi di altre tensioni, ma anche di momenti più distesi.

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Pochi episodi rendono meglio i vincoli e insieme lo spirito con cui il Partito comunista italiano vive il suo rapporto con l’Unione sovietica, in quella stagione e non solo, dello scambio tra Togliatti e Rossana Rossanda a proposito di un discorso sugli intellettuali del segretario del Pcus Nikita Krusciov. Discorso giudicato da Rossanda di “una stupidità sconfortante” (lo racconta nella sua autobiografia: “La ragazza del secolo scorso”). E Togliatti, che ne è ben consapevole, le chiede di commentarlo su Rinascita. “Guarda che è un brutto discorso”, obietta lei. “Appunto”, risponde il segretario. E così, l’indomani, Rossanda gli fa portare il pezzo in direzione. L’articolo comincia con queste parole: “Non siamo d’accordo con il compagno Krusciov”. Poco dopo i fogli tornano indietro con un diverso incipit, scritto con l’inconfondibile inchiostro verde: “L’interessante rapporto del compagno Krusciov pone alcuni problemi”. Rossanda glielo rimanda con un appunto: “No che non è interessante”. Dalla sala della direzione esce una nuova versione: “Il discorso del compagno Krusciov suscita in noi alcuni problemi”. Rossanda: “Ma quali problemi. Per favore”. Togliatti: “Suscita problemi e perplessità”. Rossanda: “Ma quale perplessità?”. Togliatti: “Chi è il segretario del Pci? Tu o io?”. Il pezzo uscirà con i problemi e le perplessità. Quanto è giusto, e utile, e possibile dire, e quanto è meglio di no.

 

Questo dilemma morale e politico attraversa l’intera storia del comunismo italiano e l’intera biografia di Togliatti, a partire dal rapporto con Gramsci, l’amico fraterno, il capo finito in carcere, che presto si convincerà di essere stato tradito proprio da Togliatti. All’origine di tutto, probabilmente, la lettera inviata da Gramsci nel 1926, a nome del partito italiano, sullo scontro interno al Partito comunista sovietico. Lettera in cui si schiera a favore della maggioranza Stalin-Bucharin, ma esortandola a non esagerare. Lettera che Togliatti decide di non inoltrare perché, spiega, nel frattempo le cose sono molto cambiate, e criticandola anche nel merito perché troppo equidistante. Ne nasce una discussione accesa tra i due, che l’arresto di Gramsci non permetterà più di chiarire. E anche questa è una sequenza memorabile per qualsiasi thriller: da un lato Gramsci, che è stato a Mosca ai tempi di Lenin, e che scrive senza potere ancora immaginare quello che sta succedendo nella patria della rivoluzione, dove proprio in quei giorni si sta affermando il potere di Stalin. Dall’altro lato Togliatti, che è lì e lo ha capito benissimo quello che sta succedendo. Sa che inoltrare una lettera in cui si invita la maggioranza staliniana a non esagerare contro i trotzkisti significa mettersi ai primi posti di una lista nera dalla quale non si esce vivi.

 

Il loro scambio epistolare è un dialogo tra sordi e al tempo stesso un tentativo di comunicare in codice che troppi ostacoli rendono impossibile. E’ un tema destinato a riemergere ciclicamente, fino agli ultimi momenti della vita di Togliatti, e in particolare in un dialogo con Davide Lajolo, da lui raccontato nel libro “Finestre aperte a Botteghe Oscure”. Il resoconto comincia così: “Stavo in piedi davanti alla sua scrivania. Togliatti era pallido. Faceva passare i fogli tra le mani. Credo soffrisse più di me”. I fogli che il segretario del Pci si passa tra le mani sono le bozze del primo e più forte atto d’accusa contro di lui: “Togliatti 1937”. Un libro pubblicato nel 1964 da Renato Mieli, poco dopo la sua uscita dal partito, che affronta di petto il silenzio del Pci sui crimini di Stalin e le responsabilità dello stesso Togliatti, allora dirigente del Comintern, nel Grande Terrore. In particolare nell’eliminazione del gruppo dirigente del Partito comunista polacco. Anche questo, come e forse più di tutti i precedenti, è un dialogo già scritto per la televisione. Lajolo: “E’ vero quello che racconta Mieli?”. Togliatti: “Sì”. Lajolo: “Come hai potuto farlo se conoscevi ed eri certo della lealtà politica di quei compagni?”. Togliatti: “Sarebbe necessario un lungo discorso per rifare la storia di quegli anni, ma se avessi tenuto un altro contegno, avrei subito la stessa sorte”. Lajolo: “Gramsci al tuo posto cosa avrebbe fatto?”. Togliatti: “Sarebbe morto”. E’ il 1964, Togliatti morirà pochi mesi dopo. Se si trattasse di un documentario o di un’opera di storia, il viaggio in Russia e il memoriale di Jalta, considerato da molti il suo testamento politico, non potrebbero mancare. Ma per il finale di una fiction non credo ci sia nulla di meglio di questo dialogo.

 

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