PUBBLICITÁ

il foglio del weekend

Arte e malinconia

Ugo Nespolo

E’ la bile nera tra follia e genialità, tra riflessione e filosofia. Da Albrecht Dürer a Van Gogh, analisi di un sentimento nobile

PUBBLICITÁ

“Ah! veramente non so cosa più triste
che non più essere triste”.

Guido Gozzano

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


“Ah! veramente non so cosa più triste
che non più essere triste”.

Guido Gozzano

PUBBLICITÁ


Soggetto vibrante e vanamente definibile, la malinconia ha forma e figura di un’evanescente sostanza dell’anima, da pensare quasi come un corpo plastico capace di avvolgere e intimamente turbare, come ha fatto nel corso dei secoli, artisti, filosofi, scrittori e poeti, medici e psichiatri. Letterariamente declinata e tinta di sfumature che la raccontano come accidia medievale in qualità di torpore malinconico e inerzia o tedium vitae leopardiano o ancora spleen romantico e decadente tutto angoscia esistenziale, nausea sartriana, è capace persino di mutarsi in depressione o nevrastenia e – per quanto considerata sostanza attiva e creativa dello stato di genialità – è intesa sovente come corpo vivo della sofferenza sino al turbine incontrollato della follia. Melancholia latina, termine nato dall’insieme del greco mélas, mélanos (nero) e kholḗ (bile), pensata e vissuta come uno dei quattro umori che, secondo la medicina greca e romana, hanno il potere di formare e gestire stati d’animo e persino il carattere degli individui. Da Ippocrate in poi si è potuto sostenere che i tipi umani, i loro comportamenti e azioni altro non dovessero essere che il frutto delle possibili combinazioni dei quattro umori di base e del loro equilibrio. Bile nera, bile gialla, flegma e sangue come umore rosso. Legati al ciclo del creato e all’alternarsi delle stagioni, sanno produrre stati d’animo in grado di forgiare caratteri profondamente diversi: melanconico, flegmatico, sanguigno e collerico. Prevalenza di bile nera, come disequilibrio e discrasìa che sono stati nel tempo sposati a profonde venature di cupezza, dolore, stasi e inattività, punto dolente nel corpo e nello spirito. Dante, nelle Rime del tempo della “Vita Nuova”, scrive: “Un dì si venne a me Malinconia e disse: Io voglio un poco stare teco; e parve a me ch’ella menasse seco Dolore e Ira per sua compagnia”. Melanconia come “amore lento”, cattiva volontà, incuria palese nell’esercizio delle virtù e nei rapporti col Divino e con gli uomini.


Non per tutti e da sempre la malinconia è stata considerata sostanza e corpo di una situazione, critica, drammatica, cupo riflesso di statico e languido immobilismo. 
Già nel capitolo XXX dei “Problemata pseudoaristotelici”, “composti nella metà del Terzo secolo avanti Cristo e oggi solitamente attribuita a Teofrasto di Ereso” (Claudia Wedepohl), l’autore tenta di spiegarsi e s’interroga sulla ragione evidente per la quale tutti gli uomini di eccezione in arte, letteratura, filosofia, gente di pensiero insomma, mostrino con una certa evidenza un carattere malinconico. Non difficile allora accostare malinconia a riflessione, volontà ponderata e azione derivata, ambizioni meditate di produrre opere e gesti degni di essere ricordati.

PUBBLICITÁ


Già all’inizio del Ventesimo secolo lo storico dell’arte Karl Giehlow fu in grado di studiare e portare alla luce i contenuti del problema XXX e la lapidaria iconografia della “Melencolia I” di Albrecht Dürer, di certo la più profonda, entusiasmante e criptica composizione incisa all’acquaforte dall’artista nel 1514.


Il lavoro pioneristico di Giehlow aveva portato alla convinzione che il capolavoro di Dürer dovesse aver trovato una ricca fonte di ispirazione nell’ambito umanistico sito nella cerchia dei consiglieri dell’imperatore Massimiliano I, e in particolare intorno all’opera in tre libri del “De Vita” di Marsilio Ficino, composti tra il 1482 e  il 1489, in cui l’autore si era occupato degli effetti della bile nera tra follia e genialità, tra Malinconia e Saturno. 


Non si può certo fare a meno di fare riferimento al testo fondamentale di Raymond Klibansky, Erwin Panofsky e Fritz Saxl, “Saturno e la melanconia”, che, insuperato, sviscera un tema tanto affascinante e complesso trasformandolo in un corpo interconnesso fatto di studi di storia, filosofia naturale, religione ed arte. L’analisi dell’incisione di Dürer lavora intorno all’idea che sta dietro alla poliedrica figurazione come il tema della Geometria che si abbandona alla melanconia, o quella della Melanconia con la passione della geometria, precisando però che non può trattarsi soltanto della giustapposizione di due temi apparentemente distanti. Quando Dürer combina la raffigurazione di un’ars geometrica con quella di homo melancholicus inaugura piuttosto la possibilità del raggiungimento di un significato del tutto nuovo e autonomo. L’artista osa fare interagire le attitudini logiche di un’arte liberale (geometria, che sarà poi prospettiva, divina proporzione) con la fatica di una condizione dello spirito e delle sconfitte umane e parallelamente, esprimendo con tutta la forza possibile il coraggio di sollevare “un temperamento triste terrestre” al livello di un’autentica lotta concettuale e  intellettuale. Quella che gli studiosi considerano una sorta di Officina della Geometria fatta di utensili ordinati e come pronti a un uso quasi razionale, fatti brillare in un caos di oggetti inutili, tendono a rappresentare quasi una sorta di stato di gelida indifferenza psicologica. Intanto la Malinconia, considerata lo stato dell’essere indolente e inattivo, si carica di un significato energico proprio dell’individuo che si fa cosciente e ipersensibile. Si legge l’attitudine di Dürer nella proposta chiara di un mutamento di significato che conferisce al genio alato la capacità di combinare la Malinconia come “eccellenza intellettuale di un’arte liberale” (Geometria) alla “sofferenza di un’anima umana”. I particolari iconografici raccontano l’attitudine intellettuale di Dürer nel mettere in scena e conferire un significato chiaramente teorico alla composizione tutta. La mano chiusa su cui poggia la testa dell’uomo alato indica con chiarezza il rapporto con l’attitudine al pensiero.


Mano sinistra chiusa in netto contrasto con la destra “indolentemente abbandonata” è la mano di un essere totalmente ragionevole “intento al lavoro creativo”. Quel pugno serrato, da sempre considerato segno di malattia, impotenza, tende qui a simboleggiare invece la lotta faticosa di chi combatte per dar soluzione a un problema che già prefigura e non dispera di risolvere. Gli occhi poi non son più quelli vacui del figlio di Saturno, ma paiono “fissi nel regno dell’invisibile con la stessa intensità con cui la sua mano stringe l’impalpabile”. C’è poi lo sguardo non più bloccato verso la contemplazione dello spazio vuoto, come sempre considerato legato all’iconografia del malinconico saturnino. Adesso gli occhi indagano intensamente – senza fissare nulla di preciso – lo spazio intorno con la forza di chi pensa e forse progetta con energia, mentre il bianco brillante spicca su quel “viso scuro” come per indicare la strada verso un’iconografia totalmente rinnovata. 


Il cane dormitans più che dormiens, avvolto nella sua cupa tristezza, contrasta con quella del putto che scrive sereno non ancora cosciente delle tribolazioni dell’età adulta.

PUBBLICITÁ


Tutto in Dürer, anche gli elementi in apparenza banali, hanno un preciso significato allegorico. “E’ assai probabile che i motivi caratteristici dell’Incisione si debbano spiegare come simboli di Saturno (o della Melanconia), o come simboli della Geometria”. E’ proprio l’intricato ambito delle arti figurative lo specchio abbagliante, il riverbero forse più acuto fatto di atteggiamenti malinconici sovente dominati da sussulti razionali e altrettanto sovente travolti da forze saturnine distruttive e paralizzanti.

PUBBLICITÁ


Nel 1878 Vincent van Gogh prende la decisione, dopo aver frequentato un corso di studi teologici e un trimestre di scuola preparatoria per i predicatori di Laken, di trasferirsi nella miserevole zona mineraria del Borinage. Pronto a donare tutto sé stesso a diseredati e sfruttati al motto di “il povero è amico del povero”, pronto quindi anche sostenere e curare malati, consolare afflitti, guarire ustionati usando persino come fasce le proprie camicie fatte a pezzi. Ma il suo sforzo non viene compreso e appezzato dalle autorità ecclesiastiche, che non gli rinnovano l’incarico. Fallimento e delusione trapelano in una lettera al fratello Theo, con parole che dicono il suo tormento interiore, parole lucide e premonitrici: “Invece di cedere alla disperazione ho preso la via della malinconia attiva, in altri termini ho preferito la malinconia che spera, che aspira e che cerca a quella che, cupa e stagnante, dispera”. Sono consolazioni, aspirazioni e speranza che Vincent ricerca incessantemente nella sua irresistibile passione per i libri: “Ho bisogno di studiare proprio come ho bisogno di mangiare il mio pezzo di pane”. E’ la “Storia” di Jules Michelet, sono i libri di Hugo e di Dickens, Shakespeare e Beecher Stowe, libri che può leggere in quattro lingue diverse a dargli forza e coraggio, ad accompagnarlo per sempre.


Nei libri Van Gogh ricerca impegno etico, la dirittura morale e come scrive nel suo straordinario saggio “I libri di Vincent”  Mariella Guzzoni: “Anche nei momenti più avversi, quando tutti i pazienti intorno a lui, (recluso volontariamente nella casa di cura di Saint-Rémy) sono lasciati vegetare in un ozio orribile senza neppure un libro, egli rimane ben saldo e fiducioso nel suo credo di sempre: ‘Se non studio, se non cerco più, allora sono perduto’”.

PUBBLICITÁ


Il 16 maggio 1890 Vincent raggiunge Parigi per incontrare il fratello Theo e la famiglia e pochi giorni dopo raggiunge Auvers-sur-Oise, a pochi chilometri dalla capitale, per incontrare il dottor Paul Ferdinand Gachet, psichiatra e pittore dilettante, medico raccomandato da Camille Pissarro.


S’installa in una modesta locanda, l’Auberge Ravoux dove incontra il dottore che subito darà l’impressione di un individuo iperattivo, poco ortodosso nelle idee mediche, come anche in quelle sociali. Ma Van Gogh percepisce anche in lui il tratto profondamente melanconico che li accomuna e ne fa presto un motivo di identificazione. Gli pare di leggere in Gachet una sorta di scoramento di fondo da essere “aussi decouragé dans son metier de Médecin de campagne que moi de ma peinture”. Scopre, invertendo quasi i ruoli, in lui un “male nervoso almeno tanto grave quanto il mio”. Quella figura dai capelli rossi, irrigidita dalla malinconia, si trasforma  nel suo doppio.


Vincent considera presto  il dottor Gachet un vero amico, qualcosa come un nuovo fratello al quale sente anche di somigliare fisicamente e moralmente; nervoso e bizzarro anch’egli, il personaggio ideale per un ritratto di quelli che “alla gente di un secolo più tardi abbia la forza di un’apparizione”, un ritratto in cui “io non cerco la somiglianza fotografica ma l’espressione appassionata”. In una lettera del giugno 1890 alla sorella Wilhelmina Vincent scrive: “Ho fatto il ritratto del signor Gachet con un’espressione di malinconia che spesso a chi guarderà il quadro potrà sembrare una smorfia. Eppure è così che bisognerebbe dipingere perché solo in questo modo ci si può rendere conto come in confronto ai ritratti calmi degli antichi, i nostri attuali abbiamo l’espressione della passione e come dell’attesa, come di un grido. Triste ma dolce, chiaro e intelligente, così bisognerebbe fare l’espressione dei ritratti”.


Jean Starobinski nel suo saggio “Une mélancolie moderne: Portrait du docteur Gachet par Van Gogh” parla di una lettera incompiuta trovata nelle carte di Vincent e indirizzata a Gauguin: “Ora ho un ritratto del dottor Gachet con l’espressione desolata dei nostri tempi, qualcosa come il vostro Cristo nell’Orto degli ulivi, non destinata ad essere compresa”.


Varrà la pena ricordare che il dottor Gachet aveva lavorato all’ospedale Salpȇtrière sotto l’ala del grande psichiatra Jean-Pierre Falret e la sua tesi di Medicina, sostenuta a Montpellier, portava per titolo “Etude sur la mélancolie”. In una sorta di visione fantasmatica che ha da fare con la cosmologia del Rinascimento, Gachet considerava la malinconia come un principio sparso nella natura intera: “Ci sono animali, vegetali, le stesse pietre sono melanconiche”.


La sua postura nel ritratto di Van Gogh è quella da sempre attribuita all’homo melancholicus, a Saturno patron dei melanconici o alle figure femminili che impersonificano allegoricamente la Melanconia. Una lotta di colori antagonisti, tavolo rosso, libri gialli, i blu, gli azzurri, il verde della digitale sono puri valori simbolici in un ritratto dipinto “con la velocità di un lampo” per provare a fissare per sempre “un non so che di eterno”.


“Il fuoco del ritratto”, scrive Cynthia Saltzman, i puntini blu sono gli occhi dell’uomo seduto, “è decentrato. Il suo sguardo desolato e scettico, che una volta era diretto al pittore e ora a noi, racchiude in sé dolore e accettazione”.


Dopo quel colpo di pistola il 29 luglio 1890 Gachet avrà di certo sofferto per la propria inettitudine nel tentare di contrastare motivi e gesto della fine di Vincent van Gogh. Quella morte non merita certo le ingiurie di Antonin Artaud quando scrive nel suo “Van Gogh, il suicidato della società”: “Non a causa di sé stesso, a causa del male della propria pazzia che Van Gogh ha lasciato la vita. Fu sotto la pressione di quello spirito malvagio che, a due giorni dalla morte si chiamò il dottor Gachet”.
 “Mélancolie, génie et folie en Occident” è il titolo di un’insuperata mostra messa in scenda da Jean Clair a Parigi al Grand Palais nel 2005. Nel turbine dei saggi in catalogo filosofi, semiologi, storici dell’arte, artisti ci conducono in un dotto, lungo e tortuoso viaggio nutrito di abbandono, vaghezza d’animo, rapporti anima-corpo, spirito-materia, natura-sovranatura ma dove sempre riverbera un profondo rivolo aureo la cui forza creatrice rammenta quella che Marsilio Ficino aveva definito malinconia generosa, capace di dare sostanza viva a opere e pensieri nel corso del tempo.


E’ proprio Clair a ricordarci come la malinconia moderna sia davvero una malinconia radicale e che oggi nessuna mathesis universalis può rimettere insieme le disjecta membra del reale.


In arte è come se ciascuna opera, poetica, ciascun artista non sappia e possa vivere ed esprimersi se non come corpo separato e solitario e che nessuna legge oggi possa essere in grado – uscendo dal proprio vuoto semantico – di dare corpo e senso a un progetto corale per restituirgli rilevanza e vivificante presenza.

 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ