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l’autobiografia di walter pedullà

La letteratura, la politica e l’inguaribile euforia di un naufrago del Novecento

Alfonso Berardinelli

Umoristico e paradossale come il suo autore, "Il pallone di stoffa. Memorie di un nonagenario" ha la freschezza giovanile e la verve settecentesca senza la quale perfino il romanzo rischia di diventare un genere noioso

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Ogni volta che un critico letterario, superati i cinquant’anni, pubblica un romanzo, la mia stima per lui subisce un colpo. Mi chiedo subito: ma perché invece di inventare non ha scritto un’onesta e dettagliata autobiografia? Il critico, il saggista, chi tende a parlare dei libri e della vita degli altri, di solito matura lentamente, mette da parte sé stesso e si confessa per interposta persona. L’autobiografia di un critico resta a lungo implicita come quella degli attori, che indagano e rivelano sé stessi scegliendo i personaggi da interpretare. Eppure può arrivare il momento in cui l’autobiografia si impone in forma autonoma. Non c’è infatti vera e buona critica che non nasca da moventi personali, da ragioni generazionali e ambientali, da congiunture storiche. Dopo tanto leggere, il critico si accorge di sé stesso e si trova un caso interessante anche per gli altri. Ora è toccato a Walter Pedullà e la sua autobiografia Il pallone di stoffa. Memorie di un nonagenario (Rizzoli, 542 pp., 22 euro) ha la freschezza giovanile e la verve settecentesca senza la quale perfino il romanzo rischia di diventare un genere noioso. Ancora una volta, ma questa volta più liberamente, le sue già note qualità di saggista dialetticamente umoristico e paradossale sono impiegate senza risparmio.

 

Calabrese di origini modeste, trapiantato a Roma, socialista di sinistra, docente universitario, presidente per qualche tempo della Rai e del Teatro di Roma, Pedullà è stato soprattutto un critico letterario innamorato del Novecento italiano più funambolico e dissacrante (Palazzeschi e Savinio, Gadda e Stefano D’Arrigo, Pagliarani e Malerba). Quando fra il 1964 e il 1966 seguivo le lezioni sul romanzo del Novecento che Giacomo Debenedetti teneva alla facoltà di Lettere di Roma, Walter era il suo assistente e il suo più devoto allievo: era quindi per noi, ultimi arrivati alla scuola del grande lettore e critico di Proust e Saba, un tramite suggestivo e imprescindibile. Dopo un po’, prima di esserci laureati, propose a Franco Cordelli e a me di collaborare alle pagine-libri dell’Avanti!, che dirigeva; e devo a lui se ho preso l’abitudine o il vizio poco accademico di scrivere articoli invece che libri. Alla scuola di Debenedetti non si andava certo per fare carriera universitaria, ma per semplice passione giovanile; e quanto a passionalità letteraria Walter era un bell’atleta. Era stato contagiato dal suo geniale maestro mai gradito ai professori in cattedra, e a sua volta trasmetteva a noi studenti lo stesso contagio, secondo cui ci si occupa davvero di letteratura solo se si parte da quella contemporanea, perché è il presente la porta stretta da cui si accede ai classici più remoti misurandone la vera distanza e la vera prossimità.

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Avendo incontrato Walter quando avevo vent’anni e lui poco più di trenta, conosco la sua incontenibile, energetica generosità. Risparmiarsi non è mai stato nel suo carattere e nella sua etica. Forse per questo non siamo stati del tutto compatibili. Per me lui era troppo accogliente. Per lui io ero troppo selettivo. Io nella letteratura fiutavo troppo le possibili imposture. Lui diffidava del mio stare troppo sulla soglia, fra letteratura e qualcos’altro (non si sa bene che cosa). Ma oggi, a distanza di decenni, quello che potevamo essere lo siamo stati e ho letto la sua autobiografia con fraterna curiosità. Nel 1968 mi disse: “Tu non lo pensi, ma noi stiamo sulla stessa barca”. Non so se era vero, ma ora è più vero di prima: la barca del migliore Novecento culturale e di una sinistra credibile è andata a fondo, e noi siamo dei naufraghi: nel Duemila non si sa più con che letteratura e con che politica si ha a che fare. Il socialismo di Pedullà mi è sempre sembrato che includesse la letteratura: era una forma di fedeltà culturale a quel tipo di sinistra eclettica e flessibile che non prevede di far tacere gli intellettuali perché hanno meno potere dei politici.

 

Nel Partito socialista italiano il marxismo non era la Bibbia e i suoi intellettuali hanno sempre dimostrato una vivacità e libertà di pensiero che nel Partito comunista era difficile trovare. Molti credono che si fanno cose serie solo facendo la faccia seria: Walter ha sempre mostrato di fare sul serio scherzando. E’ facendo finta di scherzare che si possono dire più verità e verità sia tollerabili che tolleranti. La sua prosa è ritmicamente e dialetticamente ottimistica, trasmette al lettore l’inguaribile euforia del suo autore. Per questo, ogni volta che lo leggo capisco che devo giudicarlo più dal suo inconfondibile modo di scrivere che dalle sue idee. Le idee possono cambiare (“sono le mie concubine” disse Diderot) ma ciò che importa è che siano abbastanza vere nel momento in cui sono dette. L’idea che in Pedullà è meno cambiata credo che sia questa: in letteratura lo stile della commedia è più efficiente, è più liberamente adoperabile che lo stile della tragedia, se non altro perché la tragedia può essere imposta solo da uno stato di necessità, mentre la commedia è una scelta fra le altre, una buona scelta.

 

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