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un libro Neri Pozza

L’arte guardata con la mente e spiegata da quattro dialoghi fra Danto e Paparoni

Vanni Santoni

Da Warhol a Kapoor, “Arte e post-storia – conversazioni sulla fine dell’estetica e altro”, è un viaggio tra parole e immagini, filosofia e sculture, alla scoperta dell'irrisolto “nodo hegeliano”

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"Ciò che maggiormente apprezzo in Demetrio Paparoni è la capacità di celebrare, e persino esaltare, l’arte di cui si è occupato, la convinzione che si stia facendo un’arte della massima importanza”, scriveva il grande critico Arthur C. Danto, nella prefazione al saggio “L’Astrazione ridefinita”. Era il 1994, Paparoni, classe ’54, poteva essere considerato, per gli standard italiani, un “giovane critico” – o se vogliamo, arbasinianamente, una “brillante promessa”, mentre Danto, del ’24, era per ogni standard un “venerato maestro”. L’amicizia tra i due era tuttavia già nata, e vista la convergenza di interessi e visione molti furono i loro dialoghi, formali e informali. Dialoghi che avrebbero dovuto continuare, così da formare la prima base di un grande libro di riflessioni sull’arte in epoca post-moderna, dall’espressionismo astratto alla pop-art, dall’arte concettuale al minimalismo, sempre alla rincorsa delle domande, e delle possibili risposte, sorte all’avverarsi della predizione di Hegel, cioè che “la fruizione dell’opera, sempre più intrisa di filosofia, sarebbe stata affidata alla mente piuttosto che all’occhio”.

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"Ciò che maggiormente apprezzo in Demetrio Paparoni è la capacità di celebrare, e persino esaltare, l’arte di cui si è occupato, la convinzione che si stia facendo un’arte della massima importanza”, scriveva il grande critico Arthur C. Danto, nella prefazione al saggio “L’Astrazione ridefinita”. Era il 1994, Paparoni, classe ’54, poteva essere considerato, per gli standard italiani, un “giovane critico” – o se vogliamo, arbasinianamente, una “brillante promessa”, mentre Danto, del ’24, era per ogni standard un “venerato maestro”. L’amicizia tra i due era tuttavia già nata, e vista la convergenza di interessi e visione molti furono i loro dialoghi, formali e informali. Dialoghi che avrebbero dovuto continuare, così da formare la prima base di un grande libro di riflessioni sull’arte in epoca post-moderna, dall’espressionismo astratto alla pop-art, dall’arte concettuale al minimalismo, sempre alla rincorsa delle domande, e delle possibili risposte, sorte all’avverarsi della predizione di Hegel, cioè che “la fruizione dell’opera, sempre più intrisa di filosofia, sarebbe stata affidata alla mente piuttosto che all’occhio”.

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Una profezia avveratasi con l’avvento di Duchamp e coagulatasi con le “Brillo Box” di Warhol. Il progetto non poté essere portato a termine a causa della scomparsa di Danto, nel 2013, ma Neri Pozza ha raccolto oggi i dialoghi già avvenuti, dando vita a un libro che, per quanto piccolo – 111 pagine più 32 tavole illustrate –, non dà per niente l’idea di qualcosa di parziale. Oltre alla prefazione e a un piccolo saggio introduttivo, il libro, per il quale è stato scelto il titolo “Arte e post-storia – conversazioni sulla fine dell’estetica e altro”, include quattro dialoghi tra Danto e Paparoni, ormai non più così giovane e decisamente ascrivibile alla categoria dei maestri. Si tratta di “Storia e poststoria”, dialogo a cui partecipa anche l’artista Mimmo Paladino; “Stile, narrazione e poststoria”, in cui si riflette sullo sconfinamento postmoderno dell’arte nella filosofia, e che costituisce il cuore concettuale del volume; il breve dialogo sul rapporto tra cinema e videoarte “L’angelico contro il mostruoso; e infine Critica d’arte come filosofia analitica”, quasi un’intervista di Paparoni a Danto, dove la storia personale di quest’ultimo si interseca ai temi trattati nel testo e li illumina di ulteriori prospettive.

 

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Non è quindi un caso se la prima immagine del comparto iconografico, “Horseman II”, è una xilografia del 1958 dello stesso Danto, che cominciò come disegnatore e incisore. Seguono Lichtenstein, due Warhol, delle scatole Brillo di Mike Bidlo (titolo: “Not Warhol”), due Opalka, un Medardo Rosso, un Mimmo Paladino (non una scultura ma un quadro), tre fotografie di Hiroshi Sugimoto, due di Cindy Sherman, una di Woodman, una di Levine (la foto di una foto) e infine una scultura di Koons, in una prima selezione che già inquadra con forza il filo del ragionamento del duo Paparoni-Danto.

 

Quindici pagine più in là si ricomincia con un Koons, per continuare con due Reed, ben quattro Scully, anzi cinque visto che lo troviamo anche in copertina, a testimonianza della sua centralità nelle riflessioni dei due, un Lasker, un Halley, due grandi opere astratte del cinese Ding Yi e due figurative di Wang Guangyi (si parla molto, in questo libro, anche di influenze volontarie, involontarie e inesistenti – ma apparenti, in quanto frutto di convergenze che potremmo dire post-storicamente inevitabili), due sculture di Kapoor e in conclusione il Bruegel forse più inusuale, quella “Caduta di Icaro” dove, già nel 1558, senza sapere il titolo si sarebbe andati verso tutt’altra interpretazione dell’opera, essendo l’Icaro caduto minuscolo e sullo sfondo. Il risultato è un viaggio nella storia dell’arte valido anche a prescindere dagli specifici temi trattati, vista la qualità dei quattro occhi coinvolti, e quindi adatto tanto al neofita quanto all’esperto d’arte contemporanea che voglia invece approfondire il tuttora irrisolto “nodo hegeliano”.

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