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“L’indignazione è la nostra nuova religione"

Giulio Meotti

Intervista al filosofo tedesco Alexander Grau, autore del libro "Hypermoral". “Il moralismo è l’ideologia ideale della nostra società narcisistica e impaurita”

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Alexander Grau è impegnato a consegnare un nuovo testo al settimanale tedesco Der Spiegel. “Gli occidentali hanno paura. Paura del coronavirus,  delle pandemie, dei cambiamenti climatici, della criminalità e del terrorismo. Come mosche che cercano di liberarsi dalla tela di un ragno, lottiamo nella prigione appiccicosa delle nostre fobie. Il sospetto che la modernità possa fallire a causa della sua promessa di sicurezza ne colpisce il nucleo ideologico e la mette in discussione”. Dovevamo creare “un paradiso senza paura” attraverso la ricchezza, il progresso, la tecnologia e la scienza. Ma un cittadino tedesco su quattro sperimenta un’ansia patologica. “Allacciato e con un casco, il ricco cittadino è vaccinato, sorvegliato nella salute e senza fumo, dietro airbag che ha installato tra sé e la vita, ma trema di paura”. Il risultato dei nostri sforzi per rendere la vita più  prevedibile è la società post-eroica. “Eroismo significa rischiare la vita per qualcosa di più grande, ma nella nostra società post-eroica, la vita stessa è il valore più alto” spiega Alexander Grau al Foglio. “E questa assolutizzazione dell’umanesimo ci conduce all’umanitarismo e all’ipermoralismo. Le persone stanno diventando sempre più sensibili. E’ il terreno fertile per l’ipermoralismo”. 

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Alexander Grau è impegnato a consegnare un nuovo testo al settimanale tedesco Der Spiegel. “Gli occidentali hanno paura. Paura del coronavirus,  delle pandemie, dei cambiamenti climatici, della criminalità e del terrorismo. Come mosche che cercano di liberarsi dalla tela di un ragno, lottiamo nella prigione appiccicosa delle nostre fobie. Il sospetto che la modernità possa fallire a causa della sua promessa di sicurezza ne colpisce il nucleo ideologico e la mette in discussione”. Dovevamo creare “un paradiso senza paura” attraverso la ricchezza, il progresso, la tecnologia e la scienza. Ma un cittadino tedesco su quattro sperimenta un’ansia patologica. “Allacciato e con un casco, il ricco cittadino è vaccinato, sorvegliato nella salute e senza fumo, dietro airbag che ha installato tra sé e la vita, ma trema di paura”. Il risultato dei nostri sforzi per rendere la vita più  prevedibile è la società post-eroica. “Eroismo significa rischiare la vita per qualcosa di più grande, ma nella nostra società post-eroica, la vita stessa è il valore più alto” spiega Alexander Grau al Foglio. “E questa assolutizzazione dell’umanesimo ci conduce all’umanitarismo e all’ipermoralismo. Le persone stanno diventando sempre più sensibili. E’ il terreno fertile per l’ipermoralismo”. 

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Quest’ipermoralismo è al centro del libro di Grau, “Hypermoral”, pubblicato da Claudius Verlag. Sottotitolo: “La nuova sete di indignazione”. Nell’era post-ideologica, la religione ha perso il suo posto ed è stata sostituita dalla moralità, diventata un’ideologia a sé stante. La spirale dell’indignazione gira velocemente. La moralizzazione impedisce ogni dibattito. Non c’è  dissenso. Grau tasta il polso di questo tempo soddisfatto di sé. E’ un animale raro nella cultura tedesca, Grau, dove essere conservatori significa essere “sospetti” a causa di una storia cupa. “Quando ero all’università c’erano ancora studiosi di scienze umanistiche di stampo conservatore: Ernst Nolte, Odo Marquard, Hermann Lübbe che ha 95 anni, Peter Furth. Oggi Peter Sloterdijk a volte flirta con posizioni conservatrici. Ci sono autori come Rüdiger Safranski e ovviamente Botho Strauß. E poi ci sono gli ‘intoccabili’, con cui non parli se sei politicamente corretto, come il magazine Tumult di Frank Böckelmann, un vecchio sessantottino che ha cambiato squadra. E, infine, ci sono autori che appartenevano al mainstream ma che negli ultimi anni sono diventati ‘sospetti’, come Uwe Tellkamp e Monika Maron”. Poi c’è questo filosofo e saggista che per la rivista Cicero cura la rubrica “Grauzone”. 

 
“Nella ‘Gaia scienza’, Nietzsche afferma che Dio è morto e che lo abbiamo ucciso”, prosegue Grau al Foglio. “E poi chiede: ‘Come ci consoliamo? La dimensione dell’atto non è troppo grande per noi?’. Forse Nietzsche ha ragione. Forse questa azione era troppo grande per noi. La maggior parte delle persone ha bisogno di significato e di un’ideologia che racconti qualcosa di più grande: una religione, l’arte, la cultura, la nazione, i diritti umani, la natura, qualunque cosa. Sotto la macina del progresso tecnico, il cristianesimo, ma anche le religioni sostitutive del XIX secolo – nazione, arte, cultura – sono state polverizzate. E si aggrappa alla moralità come l’ultima religione”. 

 
Siamo in piena ipermoralità. “Indipendentemente dal fatto che si tratti di immigrazione, clima, economia e  istruzione, ogni argomento viene immediatamente tradotto in un gergo di vivace moralità. E’ buono ciò che è sociale, sostenibile, amante della pace e giusto. L’ideale è la società colorata, multiculturale, eco-social-pacifista. Chiunque contraddica questi ideali è considerato sospetto o, peggio ancora, condannato”. 

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Si crea un divario colmato dalla moralità stessa. La moralità è l’ideologia stessa. E soddisfa i bisogni narcisistici. “Nella moralità, parlando di diritti umani e dignità umana, l’uomo adora se stesso. E’ una autoliturgia, un rituale di auto-deificazione. E questo culto di sé si inserisce in una società in cui l’emancipazione è il valore più alto. La moralità è la religione di una società narcisistica. La funzione dei mass media non risiede solo nell’informazione, ma nell’intrattenimento e in tutto ciò che è oltraggioso. I media hanno alimentato la tendenza alla moralizzazione e ai confronti semplicistici di ‘buoni’ e ‘cattivi’”. C’è del malessere dietro la nostra empatia morale. “Le società occidentali, in particolare le  élite, creano l’impressione che i loro valori e modo di vivere siano il vero scopo della storia. La moralità consente una prospettiva storica di salvezza. E’ un progresso morale permanente i cui telos sono le società postmoderne, colorate, aperte ed egualitarie di stile occidentale. Si ritiene che anche tutte le altre culture in Asia e in Africa prima o poi si trasformeranno in una tale società. E il mondo sarà una grande New York e ci saranno ‘ufficiali della diversità’ a Kabul e a Teheran. Questa convinzione è raramente espressa chiaramente, ma è l’ideologia guida. Dietro questo – è questo il malessere di cui parli – c’è un universalismo, il cui successo dipende dal trionfo di una società ricca ed edonistica”. 

 
E’ dubbio, tuttavia, che questo modello prevarrà ovunque. “E’ più probabile che emerga un nuovo feudalesimo globale. Sopra, un’aristocrazia benestante internazionalista e cosmopolita e sotto le popolazioni che lottano per la propria identità culturale. David Goodhart ha coniato i termini ‘anywheres’ e ‘somewheres’. Penso che questa descrizione non sia sbagliata”. La modernità occidentale fallisce a causa delle proprie contraddizioni. “E ovviamente è giunto il momento in cui non può più esternare o nascondere queste contraddizioni. All’inizio del millennio, le società occidentali erano riuscite a creare l’impressione che migrazione e identità, ecologia ed economia, tradizione e progresso potessero essere riconciliati. Da vent’anni è stato dimostrato che questa è un’illusione. I costi ecologici di follow-up del nostro stile di vita sono esternalizzati. Poiché il sistema economico occidentale dipende anche dal concetto di continuo sviluppo tecnico, distrugge anche gli ultimi resti della cultura e dello stile di vita tradizionali. Il mondo deve diventare più globale, flessibile, dinamico. La resistenza  non sarà tollerata. E’ ‘reazionario’. E così si crea omogeneità, autoritarismo e intolleranza. Si celebra il diverso, flessibile, plurale. Tutto deve essere eccitante, super interessante e  buono. Chi non condivide questa affermazione di diversità viene emarginato come intollerante. Sorge un paradosso della diversità: dove tutti vogliono la diversità, il risultato è la monotonia. Il liberalismo rischia di fallire da solo, non perché gli islamisti prenderanno il potere domani, come nel romanzo ‘Soumission’ di Michel Houellebecq”. 

 
C’è un nuovo piacere nell’indignazione. “L’opera più antica della letteratura occidentale inizia così: ‘Cantami, o diva, del Pelìde Achille l’ira funesta…’. Nelle società borghesi del XIX e del XX secolo c’era indignazione per la violazione della decenza e della morale. La morale borghese era una morale della rinuncia, dell’ascetismo: non essere eccessivo, vivi sessualmente monogamo, non ubriacarti. Questa moralità dell’ascetismo borghese era incompatibile con un sistema economico capitalista, che ha bisogno di mercati e di edonismo di massa: consuma, realizza te stesso, divertiti! Una tale società dionisiaca sposta la moralità dal privato al politico. Vivere moralmente non significa essere astinenti, ma per i diritti umani, la pace nel mondo, la diversità. E’ estremamente conveniente. Puoi vivere edonisticamente e moralmente allo stesso tempo! Un fenomeno unico nella storia”. Arnold Gehlen fece una simile prognosi sull’umanitarismo negli anni Sessanta. “L’analisi di Gehlen  è brillante. Tuttavia, Vilfredo Pareto e Raymond Aron usano termini  simili. Un umanitarismo astratto viene sempre più utilizzato al posto di un umanesimo concreto. Non ci si preoccupa più del prossimo, ma si hanno i più grandi ideali riguardo all’umanità. La nonna la mandiamo alla casa di cura perché disturba la vita di tutti i giorni, ma domani andremo alla manifestazione per la giustizia globale. Questo zelante e astratto umanitarismo divenne per la prima volta un fenomeno di massa sulla scia del Sessantotto. Non si è più impegnati nei confronti dei lavoratori e dei salariati europei, ma dei popoli oppressi dal colonialismo e delle minoranze”. 

 
Q   ualsiasi posizione che rivendichi una forte moralità sulla vita umana, l’identità, la religione, è condannata al silenzio. “Non è un paradosso. Tradizioni culturali, idee religiose, divieto dell’aborto e dell’eutanasia, sono valori ostili all’emancipazione. Non servono a niente in una società capitalista di autorealizzazione. L’ipermoralismo si riferisce sempre a valori generali che non limitano la propria vita privata”. 

 
Un esempio è l’ideologia transgender. “Il corpo biologico è visto come un ostacolo alla libera scelta della personalità. Ho il diritto di non essere determinato sul sesso biologico. Nelle società iper-morali, il metro per le trasgressioni morali è il sentimento soggettivo. Si chiama consapevolezza”. Il nucleo di questa società è un egualitarismo radicale. “E’ un sacrilegio identificare le differenze. Tutti vogliono essere diversi, ma  nessuno vuole essere chiamato in modo diverso. L’idiosincrasia è diventata un diritto umano. Chiunque metta in dubbio l’autorealizzazione radicale è colpevole di discriminazione. La società si trasforma in uno ‘spazio sicuro’ in cui l’individuo narcisista è liberato da ogni microaggressione. Una società di controllo sociale. L’anticonformismo sarà punito. Sarà una società in cui tutti si sentono liberi, ma nessuno è libero. Sarà una società degli ultimi popoli, come l’ha definita Nietzsche: ‘Nessun pastore è un solo gregge. Ognuno vuole la stessa cosa, ognuno è uguale: chi sente in modo diverso, entra spontaneamente in manicomio’”. 

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Neanche lo straniero esiste più. “Ognuno è solo umano. La minaccia qui è duplice: stiamo distruggendo la diversità di culture in nome della diversità. Allo stesso tempo, stiamo dissolvendo la nostra stessa tradizione nel bagno di un’ideologia universalista e privandoci delle nostre radici”. In un altro libro, Grau ha tessuto l’elogio del pessimismo culturale per resistere a questa tendenza. “È importante sopportare il declino con dignità. Non credo che questo declino possa essere fermato. Il treno è passato molto tempo fa. Si è affermata una forma di modernità che interpreta il declino culturale come progresso. In questa prospettiva, il suicidio dell’Europa diventa la realizzazione culturale, sua la missione. Il pessimista culturale sa, tuttavia, che il valore dell’Europa risiede nel suo grande passato culturale e non nella sua auto-dissoluzione”. 

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Nella crisi del coronavirus abbiamo sperimentato entrambe, indignazione per i morti ed egoismo edonistico. “Paragonata ad altri disastri, il Covid è una crisi relativamente innocua. Le società europee potrebbero sopportare difficoltà permanenti? Quanto è resiliente la società del divertimento del XXI secolo? Non prendiamoci in giro: viviamo su un’isola di prosperità in un mare di povertà, guerra e sovrappopolazione. Siamo in uno stato d’assedio. Le società occidentali, tuttavia, non hanno la capacità mentale di resistere ai conflitti che ne derivano. Siamo mentalmente indifesi. Non a caso si parla di società post-eroiche. Le società europee hanno la possibilità di garantire la propria prosperità solo se riescono a creare prosperità e sicurezza nelle regioni limitrofe del Nord Africa e del Levante. Dobbiamo esportare la nostra decadenza per sopravvivere”. 

 
La domanda sarà se abbiamo ancora la forza per farlo. “In effetti, vedo solo due spiacevoli alternative: o l’Europa emergerà dalla scena mondiale impoverita e tecnicamente arretrata e altre regioni determineranno come sarà il mondo globalizzato del XXII secolo. Oppure riusciremo a portare le altre culture al nostro livello di decadenza e ad esportare la nostra iper-moralità. Sarà la profanazione del mondo. Avrebbe una certa dimensione tragica”. 

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Un essere umano universale che manifesta  contro le diseguaglianze e per il diritto dei popoli a emigrare,  che dice “no all’odio”, ibrido, multilaterale, metasessuale e transreligioso. E Babilonia, diceva Philippe Muray, si trasformerà in Babyland.

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