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il foglio del weekend

Potenza o bellezza

Nicoletta Tiliacos

L’omaggio di Giacomo Leopardi a quei montanari marchigiani che fecero la resistenza contro le truppe di Napoleone. Un romanzo

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Nel febbraio del 1797, il giovane comandante in capo dell’armata francese in Italia, Napoleone Bonaparte, passò a cavallo con i suoi soldati sotto le finestre del municipio di Recanati, reduce dalla conquista di Faenza, Forlì, Cesena, Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona, Macerata e Tolentino. A Loreto, le sue truppe si erano impossessate dell’immenso tesoro votivo del santuario mariano per spedirlo a Parigi, così come era accaduto ai beni dei Monti di pietà e delle chiese delle città sottomesse dai transalpini – o liberate da borbonici e papalini, a seconda dei punti di vista. Il ventunenne conte Monaldo Leopardi, amministratore di Recanati, decise di non affacciarsi al passaggio del generale, che neppure aveva risposto all’invito a pranzo fattogli recapitare qualche giorno prima. Preoccupato per l’incolumità della città e desideroso di dimostrarne la neutralità, il giovane conte aveva procurato pane in abbondanza per le truppe francesi, ricoveri adeguati per gli ufficiali, perfino una lussuosa carrozza pretesa da uno dei comandanti, rimettendoci del suo. Lo sgarbo ricevuto finì per disgustarlo: “Io non lo vidi perché, quantunque stassi (sic) sul suo passaggio nel Palazzo comunale, non volli affacciarmi alla fenestra giudicando non doversi a quel tristo l’onore che un galantuomo si alzasse per vederlo”. Così, nella sua autobiografia, il conte Monaldo rivendicava, trent’anni dopo, un dispetto di cui il futuro imperatore non seppe mai nulla. 

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Nel febbraio del 1797, il giovane comandante in capo dell’armata francese in Italia, Napoleone Bonaparte, passò a cavallo con i suoi soldati sotto le finestre del municipio di Recanati, reduce dalla conquista di Faenza, Forlì, Cesena, Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona, Macerata e Tolentino. A Loreto, le sue truppe si erano impossessate dell’immenso tesoro votivo del santuario mariano per spedirlo a Parigi, così come era accaduto ai beni dei Monti di pietà e delle chiese delle città sottomesse dai transalpini – o liberate da borbonici e papalini, a seconda dei punti di vista. Il ventunenne conte Monaldo Leopardi, amministratore di Recanati, decise di non affacciarsi al passaggio del generale, che neppure aveva risposto all’invito a pranzo fattogli recapitare qualche giorno prima. Preoccupato per l’incolumità della città e desideroso di dimostrarne la neutralità, il giovane conte aveva procurato pane in abbondanza per le truppe francesi, ricoveri adeguati per gli ufficiali, perfino una lussuosa carrozza pretesa da uno dei comandanti, rimettendoci del suo. Lo sgarbo ricevuto finì per disgustarlo: “Io non lo vidi perché, quantunque stassi (sic) sul suo passaggio nel Palazzo comunale, non volli affacciarmi alla fenestra giudicando non doversi a quel tristo l’onore che un galantuomo si alzasse per vederlo”. Così, nella sua autobiografia, il conte Monaldo rivendicava, trent’anni dopo, un dispetto di cui il futuro imperatore non seppe mai nulla. 

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Il mancato incontro tra Napoleone e il futuro padre di Giacomo Leopardi è uno degli episodi, minuti o epocali, rievocati dall’editore Elido Fazi nel suo quarto romanzo, ora in libreria con il titolo “Potenza e Bellezza. Cronache da Roma e Parigi (1796-1819)” (438 pagine, 20 euro). 

   
Sullo sfondo della guerra tra napoleonici e bande di montanari piceni filo-pontifici (spesso più papalini del Papa) vediamo intrecciarsi fatti privati e pubbliche imprese di Bonaparte e del conte Leopardi; di Costantino, detto “Sciabolone”, comandante degli insorgenti della Marca picena, e di Gioacchino Murat, cognato e campione d’armi di Napoleone; di Giacomo, poeta contadino, figlio di Sciabolone, e di Giacomino, poeta immenso, primogenito di Monaldo nato nel giugno del 1797, quattro mesi dopo il passaggio dei francesi a Recanati. Personaggi reali e immaginari si mescolano con grazia e verosimiglianza, perché anche quelli rielaborati hanno i loro modelli realmente esistiti. Davvero imperversò nella Marca picena uno “Sciabolone” che guidò truppe di montanari contro i napoleonici, intraprendendo una lunga guerriglia (già allora qualcuno li chiamava così, “guerrilleros”) nella valle del Tronto, tra Ascoli, Acquasanta, Quintodecimo, Arquata. Terre che nel Medioevo erano state liberi comuni e da secoli appartenevano allo Stato Pontificio. Terre povere, che però non avevano mai conosciuto l’umiliazione delle imposte assurdamente esose, delle requisizioni arbitrarie e della leva obbligatoria, infelici corollari della libertà napoleonica. Terre quiete ma strategiche, al confine con il Regno di Napoli. Da lì, attraverso le gole dell’antica Salaria, prima o poi sarebbe stato necessario passare per portare l’attacco finale a Roma e al Papa, obiettivo non troppo nascosto di Bonaparte. 

  
Nella realtà, Sciabolone si chiamò Giuseppe Costantini, nativo di Lisciano, fabbricante di utensili e armi, malinconico, taciturno e “freddo come un falco”. Nel Piceno si sono tramandate le sue gesta valorose e spietate, a cominciare dal primo scontro vittorioso con un centinaio di transalpini messi in fuga a Ponte d’Arli, mentre si incamminavano per una spedizione punitiva in un villaggio sospettato di ospitare gli insorgenti. Sciabolone fu protagonista anche della cruenta riconquista di Ascoli, che si era in fretta adeguata ai nuovi padroni, innalzando il suo “albero della libertà” giacobino a piazza del Popolo, al posto della cinquecentesca statua in bronzo di papa Gregorio XIII, abbattuta e fusa dai napoleonici al loro arrivo in città. A proposito di questi alberi della libertà incoccardati con il tricolore francese, ecco ciò che Monaldo scrive di quelli spuntati a Recanati: “L’albero della libertà formava le delizie dei repubblicani, e si voleva che gli venisse prestato un culto quasi idolatrico. Nei paesi più riscaldati si eressero alberi sontuosi, e si fecero feste pazze nell’innalzarli. Qui se ne collocò uno di costruzione umile assai al fondo della piazza lunga, e nell’atto della erezione si gettò denaro all’intorno perché il popolo facesse plauso. Il popolo pigliò i quattrini, e tacque. In seguito altri due alberi levati dalla campagna si collocarono nella piazza Colonna, e nella piazza Carradori, ma questi, come il primo, servirono ordinariamente di comodo a chi aveva bisogno di orinare. La coccarda tricolorata era un’altra pazzia di quel tempo. Tutti indistintamente dovevano portarla sotto pene gravissime, e si vedevano i Capuccini con la coccarda attaccata al mantello. Era bianca, rossa e turchina. Intento quel Governo a sradicare ogni idea religiosa dal cuore e dalle abitudini del popolo aveva formato quel suo calendario decadario ridicolissimo, in cui non si trovavano più i giorni della settimana, e alla Domenica era sostituito il giorno Decade”.

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All’inizio del libro, Fazi immagina Costantino detto Sciabolone a Bologna, ingaggiato come sensale di matrimonio dal diciottenne Monaldo, da poco diventato capofamiglia e in cerca di moglie tra le figlie dei nobili della città. Circostanza veritiera, quest’ultima, come sappiamo dallo stesso Monaldo, anche se il vero Sciabolone non fu mai sensale e tantomeno di Monaldo, il quale si districò a fatica da un’incauta promessa di nozze bolognesi e si sposò per amore con Adelaide Antici, recanatese come lui. Anche un Giacomo figlio di Sciabolone è esistito. Ma se davvero, come leggiamo nel romanzo, poetò in onore della Bellezza dei Monti della Laga e dei Sibillini, e giudicò folli i francesi che inseguivano sogni di Potenza lontano dalla loro patria, non è dato saperlo. 

  
Si capisce però che ai suoi due personaggi “quasi veri” Fazi presta i propri pensieri, le proprie passioni e la propria visione del mondo. Una visione che ha un nume tutelare preciso. La contrapposizione tra Potenza e Bellezza – parole sempre scritte così, maiuscole – è l’ispirazione molto leopardiana del libro, dichiarata fin dal titolo. La Potenza dei giochi politici e dinastici messi in moto dal grande parvenu còrso sullo scenario geopolitico europeo, l’onnipresente Bellezza di un’Italia contesa e sottomessa, mentre, avrebbe scritto il giovane Giacomo Leopardi, solo su di essa avrebbe dovuto fondarsi la felicità degli italiani. 

  
Forzato della Potenza ci appare Napoleone, posseduto da un’idea di conquista illimitata e perseguita con ogni mezzo militare, matrimoniale o diplomatico, con l’inganno e con il coraggio, con furore e azzardo, con astuzia e disperazione. L’alfiere della libertà repubblicana si rivela il più schiavo di tutti, e la stessa libertà repubblicana è moneta contraffatta, il cui valore nominale non corrisponde mai a quello effettivo, mentre la vicenda napoleonica diventa l’ennesima conferma del destino che fa del liberatore di oggi il tiranno di domani. 

  
Per inciso, l’anno appena cominciato è quello del bicentenario della morte di Napoleone, avvenuta nell’isoletta di Sant’Elena il 5 maggio del 1821, come ogni studente italiano sa, grazie all’ode manzoniana. In Francia, Napoleone è protagonista di molte nuove uscite in libreria e di diverse esposizioni, per ora solo programmate (ad aprile, pandemia permettendo, sarebbe bello visitare l’allettante mostra “Joséphine & Napoléon, une histoire (extra)ordinaire”). Per l’esatta ricorrenza della dipartita dell’“uom fatale” è inoltre annunciata una solenne cerimonia a Parigi, in aggiunta a quella che, ogni anno da duecento anni, si tiene a Sant’Elena. Nell’attesa, i più piccini possono scaricare dalla pagina Facebook della Fondation Napoléon cinque disegni da colorare con i pastelli, raffiguranti l’imperatore, Joséphine (la prima moglie creola e seduttrice, assoluta trionfatrice, nella cultura pop, sulla seconda, Maria Luisa d’Austria), oltre a un paio di ussari e a un mamelucco della Guardia imperiale.  

  
Anche Elido Fazi, nel suo romanzo, colora il suo personale disegno di Napoleone. Lo fa con tinte a volte cupe e spesso inquietanti, ma mai ingenerose. Tutta la sua (e la nostra) simpatia, però, non può che andare agli insorgenti marchigiani. Sentimento comprensibile, visto che alcuni dei montanari in lotta contro i francesi furono suoi antenati, vissuti a Quintodecimo, libero comune la cui autonomia non era mai stata messa in discussione nemmeno dal Papa re. Alcune delle pagine più riuscite sono proprio quelle che descrivono la battaglia avvenuta in quella contrada, il 30 giugno del 1809. Due compagnie, partite da Ascoli per fare pulizia di montanari ribelli nell’alta valle del Tronto, caddero nell’imboscata tesa da Giacomo, succeduto alla morte del padre Sciabolone alla testa degli insorgenti. I napoleonici furono uccisi a decine, mentre tra gli uomini di Giacomo si contarono pochissime perdite. Di lì a poco, “la notizia della sconfitta dei francesi da parte di una banda di montanari fa il giro del mondo. Ne parlano i giornali di Madrid, Parigi, Londra, San Pietroburgo e Vienna”. Napoleone scrive una lettera irritata al cognato Gioacchino Murat e al figliastro Eugenio Beauharnais, i suoi fedelissimi, nella quale chiede che siano tacitati “i fogli periodici su tali argomenti che, comunque presentati, additano chiaramente i danni che ne risultano per le nostre truppe e possono servire da esempio contagioso agli altri popoli, che solo la forza trattiene sotto il nostro dominio”.

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Ma come fu possibile che popolazioni sostanzialmente pacifiche, suddite fin troppo miti di quello Stato pontificio inetto alla belligeranza – a cui mancavano in toto, scrisse Monaldo, “l’impianto, il tuono, e le idee della guerra”, tanto che “allora i papalini alla guerra erano come gli ussari ungaresi a pontificare la Messa” – si ribellassero con tanta veemenza, a volte con ferocia, a chi era assai più forte di loro? Qualche risposta la troviamo proprio nelle storie raccontate da Fazi in “Potenza e Bellezza”. In breve, tremende furono le angherie inflitte ai danni di montanari e contadini, che aggravarono condizioni di vita già precarie, rendendole miserabili come non mai. Soprattutto a loro furono requisiti viveri e furono dedicate tasse e dazi supplementari, senza nulla in cambio. +

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Le insorgenze marchigiane e abruzzesi avrebbero messo radici, e anche dopo la caduta di Napoleone si sarebbero luttuosamente protratte fino all’unità d’Italia. Ma prima di allora, nel 1815, il diciassettenne Giacomo Leopardi, incoraggiato dal padre, subito dopo il ritorno del Papa a Roma compose una “Orazione per la Liberazione del Piceno”, indirizzata “Agl’Italiani”. Si tratta di un componimento non molto conosciuto e spesso equivocato, sia da chi ha preteso di vederci un anticipo di spirito risorgimentale, sia da chi lo ha liquidato come frutto di un ingenuo conservatorismo. 

  
Né l’una né l’altra cosa. Lo ha ben capito Elido Fazi, che si è innamorato di quel precoce testo leopardiano, stupefacente per maturità e lucidità, nel quale si ripercorrono tre lustri di guerre napoleoniche. L’Orazione leopardiana è un commovente omaggio all’Italia, al suo genio e alla sua Bellezza, antidoto agli inganni della Potenza. Se l’Italia fosse potente, si chiede Giacomo, “sarebbe perciò felice? Per asserirlo, converrebbe supporre che la felicità della nazione consista nella forza delle armi, nell’esser terribile allo straniero, nel poter con vantaggio cominciare una guerra e continuarla senza cedere, nel possedere tutto ciò che fa d’uopo per esser temuta e che è necessario per non temere, nell’abbondanza dei mezzi per sostenere la gloria dei propri eserciti e la fortuna delle proprie armi. Ma se la vera felicità dei popoli è riposta nella pace necessaria alle arti utili, alle lettere, alle scienze, nella prosperità del commercio e dell’agricoltura, fonti della ricchezza delle nazioni, nell’amministrazione paterna di Sovrani amati e legittimi; possiam dirlo con verità, non v’ha popolo più felice dell’italiano”. Quando la Potenza abitava l’Italia, con i Romani, “tutto si sottomise al nostro impero, tutto cedè al nostro valore, e noi fummo i signori del mondo. Fummo per questo felici? Le discordie civili, le guerre, le vittorie stesse non ci lasciavano un’ora di quella pace che tutto il mondo sospira. Il tempio di Giano sempre aperto vomitava disordini e sventure. Padroni dell’universo, noi non lo eravamo di noi stessi”. Agli italiani nulla manca, dice Leopardi, se non la pace, e per essa varrà la pena combattere, sapendo che non è la Potenza il loro destino, ma la cura e il culto della Bellezza. 

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Le esortazioni appassionate di Giacomo arrivano al cuore non meno che alla ragione. Fazi ha immaginato il ragazzo, esile ed emozionato, mentre le declama di fronte agli accademici e agli studenti dell’Università di Macerata. Una scena che nella realtà non ebbe mai luogo, anche se ci sarebbe piaciuto di sì. 

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