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il foglio del weekend

Bianca come Kamala

Le polemiche sulla copertina di Vogue e il colore della pelle della Harris che forse è stato modificato. Ma lo sbiancamento è una moda diffusa

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“Non sei nero, sei solo sporco”. Dicono in famiglia che da piccola piangessi disperata ogni volta che a Carosello appariva Calimero, il pulcino che tutti sfuggivano perché piccolo e nero fino a quando l’Olandesina lo buttava nel mastello e lo strofinava ben bene con il detersivo Ava “come lava”, trattamento dopo il quale riappariva bianco e splendente appunto perché, semplicemente, non si era lavato. “Eri politicamente corretta ante litteram e a tua insaputa”, ridacchiano, ma in realtà è probabile che singhiozzassi per la crudeltà bullista degli altri pulcini. Il fatto che Calimero venisse ostracizzato perché nero e che desiderasse essere bianco (attenzione: non sapeva di essere uguale agli altri, lo scopriva solo dopo il salto nel mastello), non mi sfiorava nemmeno: vivevo in un ambiente abbastanza multireligioso da poter festeggiare una sorta di “christmukkah” lungo tutto il mese di dicembre, luci prima e albero di Natale poi senza soluzione di continuità, ma in effetti la pelle scura nell’ambiente in cui vivevo era un non dato. Che tutti volessero essere bianchi era un’ovvietà.

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“Non sei nero, sei solo sporco”. Dicono in famiglia che da piccola piangessi disperata ogni volta che a Carosello appariva Calimero, il pulcino che tutti sfuggivano perché piccolo e nero fino a quando l’Olandesina lo buttava nel mastello e lo strofinava ben bene con il detersivo Ava “come lava”, trattamento dopo il quale riappariva bianco e splendente appunto perché, semplicemente, non si era lavato. “Eri politicamente corretta ante litteram e a tua insaputa”, ridacchiano, ma in realtà è probabile che singhiozzassi per la crudeltà bullista degli altri pulcini. Il fatto che Calimero venisse ostracizzato perché nero e che desiderasse essere bianco (attenzione: non sapeva di essere uguale agli altri, lo scopriva solo dopo il salto nel mastello), non mi sfiorava nemmeno: vivevo in un ambiente abbastanza multireligioso da poter festeggiare una sorta di “christmukkah” lungo tutto il mese di dicembre, luci prima e albero di Natale poi senza soluzione di continuità, ma in effetti la pelle scura nell’ambiente in cui vivevo era un non dato. Che tutti volessero essere bianchi era un’ovvietà.

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Nero era l’uomo del castigo, brutto e cupo: quello che mi sarebbe venuto a prendere se avessi continuato a tentare di sfogliare libri sotto le coperte la notte con la pila accesa. L’equiparazione fra il nero e il lutto, il buio, l’abisso della coscienza, la negazione di tutto (bellezza, vanità, successo mondano) era talmente radicato nella cultura, nell’etica e nella morale in cui ero, eravamo nati noi della penultima generazione del Novecento in Europa, che quella pubblicità poteva addirittura sembrarci tenera. Che pochi anni dopo Michael Jackson si sottoponesse a costosissimi, invasivi e pericolosi processi di sbiancamento della pelle del volto e delle mani, uscendone con il colorito di uno zombie del cinema, Thriller puro, era una scelta abbastanza folle ma dopotutto comprensibile: Hollywood pullulava di storie lacrimose di bianchi a metà che puntavano alla promozione sociale ripudiando la metà nera. Qualcuno, come Dorothy Dandridge, non ci era riuscito e aveva deciso di farla finita anche nella realtà: abuso di antidepressivi per errore o per volontà, non si capì mai. Morì nel 1965, a quarantatré anni. Anche adesso che l’ennesimo questuante per strada mi schernisce perché sono al cellulare e non ho modo di offrirgli l’obolo che chiede con insistenza (“hai ancora paura dell’uomo nero?”), in fondo so che l’accettazione del diverso, la multiculturalità, per me come per molti di noi è una conquista razionale. Cioè della volontà.

 

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Per questo, quando lunedì scorso è partito l’attacco (credo sia il secondo quest’anno) contro la direttrice di Vogue America Anna Wintour per aver fatto – forse – uniformare e sbiancare la tinta della pelle della neovicepresidente Kamala Harris a colpi di pixel sulla copertina del mensile che dirige da più di trent’anni, molte di noi si sono immedesimate nella sua difficoltà di gestire e intuire, nel suo caso addirittura da baby boomer inglese di nascita privilegiatissima, l’evoluzione di un mondo dove puoi essere accusato di “microaggressione a sfondo razziale” se chiedi alla ragazza seduta davanti a te a teatro con una cesta di treccine fulani in testa di legarsele perché non riesci a vedere lo spettacolo (l’episodio è raccontato con molta ironia e comprensione dall’attivista e cattedratica inglese Bernardine Evaristo in “Ragazza, donna, altro”, Man Booker Prize 2019, da poco tradotto in Italia, assolutamente da leggere). Contro Wintour, che già aveva fatto autodafé durante le proteste del Black Lives Matter per l’uccisione di George Floyd, ammettendo di aver intrapreso volontariamente un processo di rieducazione culturale a favore della diversità in redazione (questa non è un’impossibile eredità della Cina maoista, è ancora il codice di condotta dei padri fondatori che si fa sentire), si è innescata l’ormai consueta campagna di boicottaggio o, per essere più attuali, di “ban”, in italiano “bannare”, da bandito, banditismo, l’origine è la stessa. Via, basta, fuori dai piedi. Che l’esclusione sia la strada maestra per ottenere l’inclusione è uno dei tanti paradossi del momento; per un direttore di magazine è comunque peggio del rogo sulla pubblica piazza. Wintour è stata appena nominata chief content officer di tutte le edizioni Condé Nast: il rischio di un “social ban”, cioè l’ipotesi di una dis-iscrizione di massa dai social della rivista non ci voleva, esattamente come, all’opposto, la denuncia permanente è diventata la cifra del New York Times, la nuova gazzetta del Torquemada collettivo, da quando ha scoperto dove si possa arrivare con un’inchiesta per molestie ai danni di un ricco e famoso.

 

La copertina incriminata di Vogue America, attualmente in edicola, è di certo inferiore allo standard di eleganza del magazine, come hanno denunciato quelli a cui dell’epitelio di Harris interessa il giusto ma che avrebbero certamente preferito vederla acchittata in abito da sera e tiara presa in prestito come Hillary Clinton su una cover natalizia di qualche anno fa: a molti di noi, a me in particolare, al netto di quel tremendissimo drappo rosa da sfondo di dagherrotipo, in realtà non è dispiaciuta affatto, soprattutto per lo sguardo di sfida malandrina che la vicepresidente degli Stati Uniti, in pantaloni e sneaker Converse, sembrava lanciare all’indirizzo di chi su quella copertina l’aveva messa. Ci pare di ricordare che, nelle molte copertine che le ha dedicato il mensile della Condé Nast, Michelle Obama sia sempre stata rappresentata nella sua cromia effettiva, che ci capitò di verificare una volta, a Roma.

 

Il punto, però, è ovviamente un altro, ed è il cosiddetto reato di sbiancamento, il whitening shame che, non solo sulla stampa patinata, ma perfino sui nostri selfie, è un fatto controverso e difficile da provare. A non volerci prendere in giro – ne abbiamo scritto sul Foglio online qualche giorno fa – chiunque di noi abbia mai lavorato in riviste di immagine sa che le foto vengono non solo uniformate di default per cancellare ombre, macchie, rughe, cicatrici dell’esistenza (Naomi Campbell lo chiedeva per contratto, per esempio), ma che tutti lo facciamo costantemente, anche sul Samsung che l’opinionista del New York Times Wajahat Ali agita come il mezzo migliore per riprodurre la corretta realtà, ovvero la realtà corretta con il comando “uniformità” dai quali usciamo tutti perfettamente social e con dieci anni di meno. E poi non dimenticate la fallacia tecnologica. Per vedere quel che potrebbe essere, o magari niente affatto, può bastare un computer o una stampante appena mal calibrata su un colore primario, per esempio il giallo che è il più insidioso. In ogni caso è sufficiente osservare la stessa foto su due pc diversi per capire che nulla è più instabile della realtà vissuta da uno schermo, e se consideriamo che l’attacco a Wintour è partito su un’anticipazione social della copertina, non sulle copie effettivamente stampate, è palese che mr Ali volesse innanzitutto farsi un po’ di pubblicità su una sua connazionale che ha sfondato alla grandissima.

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La direttrice di Vogue America ha smentito di aver messo mano alla saturazione cromatica dell’immagine, Harris non ha ovviamente aperto bocca, e il caso specifico si è più o meno chiuso, almeno per il momento. La questione dello sbiancamento e della sua valenza socio-economica è invece ben più complesso e duraturo, perché intercetta da secoli il colossale mercato della bellezza e dei suoi molti addentellati e derivati, ma soprattutto in questi ultimi anni è diventato rilevante nel cinema, nei luoghi di lavoro e anche nei rapporti fra adolescenti e in genere nella costruzione dell’identità sociale. Questo accade anche in Italia dove, da settimane, si dibatte invece sulla “quota colore” degli attori di quel serial da ottundimento cognitivo che è “Bridgerton”, blockbuster di Netflix, in genere senza sapere che, se pure gli africani e gli afroamericani nell’Inghilterra aristocratica della Reggenza scarseggiassero (andatevi comunque a leggere la storia di Dido Belle Murray e di Joseph Bologne de Saint George, musicista sopraffino, nobile di etnia mista, che alla fine del Settecento sfidò a duello le chevalier d’Eon, il più famoso travestito dei tempi) non di meno la regina Charlotte di Meclemburgo Strelitz, moglie di Giorgio III Il pazzo, protagonista della serie, aveva molto probabilmente lontane ascendenze africane, attraverso una parentela con la casa reale del Portogallo. Qualche mese fa Olivette Otele, docente di Storia del colonialismo presso l’Università di Bristol e autrice di un libro propedeutico sui rapporti fra Europa e Africa nella storia, nella letteratura e nell’arte uscito alla fine del 2020, “African European: an untold history”, mi faceva osservare come la definizione di “negro” fosse entrata a far parte del lessico europeo a indicare dispregiativamente tutte le etnie non bianche abbastanza di recente, e come la stessa questione della “razza” sia del tutto assente nella storia antica, e inizi invece ad apparire nel Settecento, con la formazione dei primi stati nazionali e delle leggi dello sviluppo organico, poi trasferite all’antropologia e alla linguistica. E’ insomma improbabile che se il “Cantico dei Cantici” fosse stato scritto nel Diciottesimo secolo, la Regina di Saba sarebbe stata cantata come “bruna ma bella”. Al contrario, due anni fa, il padre di Beyoncé, Mathew Knowles, tycoon della musica mondiale, diceva in un’intervista radiofonica che sua figlia ha avuto maggior successo nell’industria dell’intrattenimento grazie alla pelle chiara, e che “praticamente nessuna popstar nera con la pelle più scura si è fatta strada negli ultimi dieci anni”.

 

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In Africa il tema è talmente sentito che il Ruanda e il Ghana hanno recentemente vietato l’uso di prodotti sbiancanti per la pelle, che nella maggior parte, come l’arsenico nelle biacche spalmate dai nobili in parrucca dell’Antico Regime, utilizzano ancora componenti nocivi come mercurio e steroidi ad alto dosaggio. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il 77 per cento delle donne in Nigeria utilizza prodotti schiarenti per la pelle, la percentuale più alta al mondo. Perché lo facciano, è chiaro: per aumentare le proprie opportunità nel lavoro e nella vita sociale. Se gli Stati Uniti bandiscono l’aggettivo e il sostantivo “fair” (un intero universo semantico che comprende il lucore della pelle, le favole, le fate, perfino la nozione di correttezza) dai prodotti di trattamento della pelle, e Bernard Arnault investe con costanza nella linea di prodotti di bellezza e di make up di Rihanna, Fenty Beauty (cento milioni di dollari di fatturato nei primi quaranta giorni di lancio, nel 2017, oltre quaranta diverse tonalità di fondotinta), proprio in Africa, dove le donne dalla pelle chiara sono considerate più belle e quindi hanno maggiori probabilità di avere successo nella moda e nel cinema, vi sono i problemi maggiori.

 

Un servizio della Cnn di epoca immediatamente pre-pandemica mostrava come l’uso di prodotti cosmetici schiarenti (iniziato sostanzialmente in tutto il mondo nel Cinquecento, cioè con l’affermazione dell’Europa in Cina, in India e naturalmente nelle nuove Americhe) fosse ritenuto utile per ottenere vantaggi economici e di qualificazione nel mondo del lavoro ben prima che estetici. In India, tuttora, il brand di cosmetici Fair&Lovely (sì, chiara, bella e amabile, vedete quanto spesso il nodo della questione sia semantico) si promuove garantendo un incremento della mobilità sociale in chi li usa. Lo sbiancamento della pelle, un dato culturale e storico semplicemente curioso per chi non lo viva come dirimente, è stato denunciato di recente, sempre in Inghilterra, da Edward Ademolu, PhD presso l’Università di Manchester, che ha definito il “colorismo come una gerarchia intrarazziale basata sulla carnagione, che spesso offre privilegi sociali, culturali, economici e favoritismi nei confronti delle persone dalla pelle più chiara e discriminazione nei confronti di quelle con carnagione più scura”.

 

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