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il foglio del weekend

Stregati dallo streaming

Andrea Minuz

Dopo vent’anni di Grande Fratello, quindici di YouTube, dieci di Facebook, ecco l’esplosione dello spettacolo che c’è e non c’è. La cultura è tutta sul nostro schermo e resterà lì anche quando riapriranno cinema e teatri

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Per tutti gli anni Dieci, mentre i social media e le piattaforme di streaming prendevano sempre più spazio nelle nostre vite, ci siamo raccontati che la cultura on demand non avrebbe mai sostituito, ma “affiancato” le modalità tradizionali di consumo. Il 2020 ha in gran parte smentito questa teoria. L’evento pop più caciarone dell’anno appena finito è stato il concerto di Capodanno dei Kiss in “live streaming” da un resort di lusso a Dubai. I clienti dell’“Atlantis The Palm” potevano acquistare il pacchetto “suite club con terrazza e vista concerto Kiss”, godendosi la band a distanza, affacciati alla finestra o appollaiati sulle ringhiere coi loro congiunti e i bibitoni di gel igienizzante a portata di mano. I più facoltosi avevano un tavolino vip a bordo piscina, dove, dopo aver sradicato settantasette palme, era stata allestita l’area concerto. Questi pochi spettatori erano più o meno quel che resta della nostra cara vecchia idea di concerto. Tutti gli altri hanno potuto vedere i Kiss grazie al servizio di streaming di Tixr, la più grande piattaforma di rivendita di biglietti per eventi live, prenotando un posto davanti al computer da 50 dollari in su. “Kiss 2020 Goodbye” è stato un concerto di Capodanno senza precedenti, anche per i suoi ottocentomila euro spesi in protezione anti-Covid, con una coreografia à la Leni Riefenstahl, fontane geyser che spruzzavano fumoni verdi, Paul Stanley appeso a una carrucola che vola nel cielo stellato di Dubai e intona “I was made for loving you”; il tutto preceduto da un lungo documentario coi Kiss che arrivano in aeroporto in mascherina e si fanno il tampone (al prossimo giro, si vaccinano sul palco). “Kiss 2020 Goodbye” è una delle tante cartoline di un futuro compresso e rilasciato tutto insieme in un anno tragico e assurdo. Un futuro che è diventato il nostro vissuto quotidiano, scandito da dirette streaming e piattaforme. Un paesaggio sempre più frastagliato, frammentato, diffuso, cui da qualche settimana si è aggiunta anche la nuova piattaforma di Discovery Plus, lanciata negli Stati Uniti il 4 gennaio, specializzata per lo più nei contenuti “non-fiction” e “unscripted”, cioè un ampio catalogo di reality-show in tutte le salse. 

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Per tutti gli anni Dieci, mentre i social media e le piattaforme di streaming prendevano sempre più spazio nelle nostre vite, ci siamo raccontati che la cultura on demand non avrebbe mai sostituito, ma “affiancato” le modalità tradizionali di consumo. Il 2020 ha in gran parte smentito questa teoria. L’evento pop più caciarone dell’anno appena finito è stato il concerto di Capodanno dei Kiss in “live streaming” da un resort di lusso a Dubai. I clienti dell’“Atlantis The Palm” potevano acquistare il pacchetto “suite club con terrazza e vista concerto Kiss”, godendosi la band a distanza, affacciati alla finestra o appollaiati sulle ringhiere coi loro congiunti e i bibitoni di gel igienizzante a portata di mano. I più facoltosi avevano un tavolino vip a bordo piscina, dove, dopo aver sradicato settantasette palme, era stata allestita l’area concerto. Questi pochi spettatori erano più o meno quel che resta della nostra cara vecchia idea di concerto. Tutti gli altri hanno potuto vedere i Kiss grazie al servizio di streaming di Tixr, la più grande piattaforma di rivendita di biglietti per eventi live, prenotando un posto davanti al computer da 50 dollari in su. “Kiss 2020 Goodbye” è stato un concerto di Capodanno senza precedenti, anche per i suoi ottocentomila euro spesi in protezione anti-Covid, con una coreografia à la Leni Riefenstahl, fontane geyser che spruzzavano fumoni verdi, Paul Stanley appeso a una carrucola che vola nel cielo stellato di Dubai e intona “I was made for loving you”; il tutto preceduto da un lungo documentario coi Kiss che arrivano in aeroporto in mascherina e si fanno il tampone (al prossimo giro, si vaccinano sul palco). “Kiss 2020 Goodbye” è una delle tante cartoline di un futuro compresso e rilasciato tutto insieme in un anno tragico e assurdo. Un futuro che è diventato il nostro vissuto quotidiano, scandito da dirette streaming e piattaforme. Un paesaggio sempre più frastagliato, frammentato, diffuso, cui da qualche settimana si è aggiunta anche la nuova piattaforma di Discovery Plus, lanciata negli Stati Uniti il 4 gennaio, specializzata per lo più nei contenuti “non-fiction” e “unscripted”, cioè un ampio catalogo di reality-show in tutte le salse. 

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Con Netflix, Amazon Prime, Hulu, HboMax, Disney Plus, Espn, AppleTv, Discovery è l’ultimo “conglomerate media” in ordine di tempo a offrire il proprio servizio di streaming nell’offerta televisiva e cinematografica americana. In un contesto del genere, sembra sempre più difficile immaginare reali forme di convivenza pacifica tra l’on-demand e i vecchi luoghi dei consumi culturali. La forbice della diseguaglianza potrebbe qui disegnare un piccolo segmento di pubblico colto, raffinato, elitario, che continua a frequentare i teatri, l’opera e le piccole sale arthouse del centro delle grandi città, un po’ come i fan dei Kiss a bordo piscina a Dubai, mentre il resto, cioè la stragrande maggioranza, vedrà tutto in streaming. Considerare lo streaming solo come una tecnologia digitale è un po’ riduttivo. Come il 2020 ha improvvisamente reso chiaro a tutti, incluso il pubblico dell’opera lirica o della tv generalista, lo streaming è la forma culturale dominante di questo inizio di Ventunesimo secolo (per esempio, durante il pranzo di Natale, mia madre, una che col telecomando non si è mai spinta oltre Canale 5, mi ha parlato per tutto il tempo di “The Irishman”, il film di Martin “Scozzese” , come dice lei, che ha visto su Netflix; mentre lo scorso Natale tesseva le lodi di “Imma Tataranni – sostituto procuratore”, la Montalbano femmina di RaiUno che compie indagini su e giù per la Basilicata. Gli effetti del Covid sono anche questi). Con alle spalle un lungo training, fatto di vent’anni di “Grande Fratello”, quindici di YouTube, dieci di Facebook, Instagram, Twitter, cinque di Netflix, non ci siamo fatti trovare impreparati all’arrivo del nuovo mondo pandemico. Eravamo già ampiamente attrezzati, mancava solo l’ultimo passo. Per molti italiani, la familiarità con la “diretta streaming” comincia nel marzo del 2013. Un termine che sapeva di futuro, nuove tecnologie, Silicon Valley, veniva agganciato al rito più polveroso, immobile, stantio che potesse venire in mente: le consultazioni di Bersani per formare il governo. In quel momento lo “streaming” era soprattutto il simbolo della trasparenza assoluta, l’incarnazione della “democrazia del web”, la liberazione dagli inciuci del “Palazzo”. Era l’arrembaggio del “popolo della rete” a Palazzo Chigi, l’ora fatale della disintermediazione della politica, quella cosa che a Trump e i suoi supporter giunti a Capitol Hill è un po’ sfuggita di mano. Rivisto oggi, con ancora negli occhi le scintillanti dirette di Conte su Instagram, lo streaming di Bersani pare un filmato dei fratelli Lumière. Si prova invero anche molta tenerezza: lui incredulo davanti a Crimi e Lombardi che dicono “noi non rappresentiamo le parti sociali, noi SIAMO le parti sociali”, lo sforzo di sembrare moderno, aggiornato, iperconnesso, come quando dice “ragazzi qui non siamo mica a ‘Ballarò’, questa qui è una cosa seria”, a marcare un nuovo confine tra il “vero” (lo streaming, la diretta) e il “finto” (la televisione, i talk-show). Sette anni dopo, “Ballarò” non c’è più, Floris conduce la sua trasmissione in uno studio vuoto e le decisioni del governo vengono tutte comunicate in diretta sui social. Nel 2020 abbiamo soltanto accelerato e reso più visibili e traumatici processi in corso da tempo. Ma dopo un anno di lockdown in ordine sparso cominciamo a non ricordare più molto bene com’era andare al cinema, a teatro, in un museo, a un concerto o anche solo in ufficio. Gran parte della cultura ha traslocato online e l’idea o la paura diffusa è che il modello di prima non tornerà più, anche quando cinema e teatri riapriranno. Lo streaming e la costruzione digitale degli eventi appaiono ormai inevitabili.

   

Se all’inizio del lockdown erano l’unica possibilità di salvezza, adesso hanno rivelato possibilità di sfruttamento forse impensabili nel mondo di prima. Quest’anno il Salone del Libro di Torino ha organizzato vari eventi online e centinaia di incontri in streaming. La versione invernale è stata seguita da oltre ottocentomila persone tra Facebook e YouTube. Per l’edizione 2021 punta a un modello integrato, un po’ dal vivo, un po’ in streaming, correndo il rischio però che per molti partecipanti possa essere molto più comodo restarsene a casa davanti al pc (di quanti spostamenti e riunioni inutili fosse fatta la nostra vita lo abbiamo scoperto solo grazie al Covid). Nelle ultime due settimane, sui giornali e nella mia bolla social non si è fatto altro che discutere di “Sanpa”, il documentario di Netflix sulle vicende di San Patrignano. Era forse da “La Grande bellezza” che un film italiano non innescava un dibattito così ampio, tanto più che qui siamo di fronte a un documentario. C’è però da chiedersi in quanti l’avrebbero visto, quanti ne avrebbero parlato se fosse uscito in sala, dopo un’anteprima al Festival di Venezia. Presentazioni virtuali di libri, reading collettivi, festival, film, performance, la Messa del papa o il Salone del libro o la Milano Fashion Week: tutto vive ormai o si amplifica nell’orizzonte dello streaming. Anche la “Sagra del Marrone Segnino”, quella della “Zeppola” di Positano e del “carciofo di Cerda” quest’anno sono andate solo in “diretta streaming”. Il sindaco di Cerda ha così risolto il problema delle degustazioni in piazza: “Ognuno da casa propria posterà sul proprio profilo Facebook il piatto a base di carciofi usando gli hashtag #comunedicerda e #sagradelcarciofi… stavolta non sarà Cerda a ospitare turisti e visitatori, saremo noi a essere ospiti nelle vostre case”. A settembre invece si è svolto. “MacFruit Digital”, la “prima fiera del settore ortofrutticolo organizzata su piattaforma video”, con una formula “agile e veloce, senza tempi morti, per mettere i buyers nelle condizioni di andare dritti al proprio business”, perché anche il banco frutta vuole la sua disintermediazione. Per il teatro è più complicato. 

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Qualche settimana fa, Romeo Castellucci, tra i fondatori della compagnia teatrale “Socìetas Raffaello Sanzio”, e uno dei più importanti registi europei, ha detto che l’idea di portare il teatro su internet è una scemenza. “Possiamo fare del teatro documentato, ma rimangono documentari. Il teatro è per definizione ‘di presenza’. Se lo riprendi con una telecamera diventa un’altra cosa”. In un articolo del New Yorker sulle sfide che attendono il mondo del teatro (“How are audiences adapting to the age of virtual theatre”), Vinson Cunningham ha spiegato che il primo compito del futuro prossimo sarà ricostruire dalle fondamenta l’idea di spettatore, chiedendosi anzitutto qual è il suo ruolo, a cosa serve oltre pagare il biglietto, ovvero che cosa può significare essere parte di un pubblico “reale” e quali valori in più offre alla costrizione di un’esperienza artistica. Dario Franceschi ha detto che la scelta dell’Istituto nazionale del Dramma antico di Siracusa di sperimentare la diffusione in streaming degli spettacoli “di questa stagione speciale” ha sfatato un tabù del mondo del teatro. C’è del vero. Ma lo spostamento della cultura sulle piattaforme pone anche problemi che vanno al di là della sopravvivenza dei comparti professionali. Per esempio, nel caso del cinema si parla quasi esclusivamente della battaglia per la sopravvivenza delle sale minacciate dallo streaming, oppure, viceversa, del suo rilancio “anche” grazie allo streaming. Ma in un contesto dominato dalle piattaforme, con Dvd e Blu-Ray destinati a fare la fine dei vecchi vhs, si pone il problema della reperibilità dei vecchi film. Si pone il problema di un “canone” della storia del cinema riscritto da Netflix e Amazon. Da qualche mese su RaiPlay si possono vedere Bergman e Truffaut, ma in generale l’offerta di vecchi film in streaming è assai scarsa. Se metto insieme tutti i titoli antecedenti al 1970 offerti dalle grandi piattaforme ho meno titoli dei vhs dell’Unità di Veltroni.

  

La logica delle piattaforme incoraggia d’altro canto le produzioni originali e la visione di serie tv e film sempre nuovi, secondo un modello di consumo compulsivo più simile a quello della “slot machine” che all’home-cinema. Sono molto affezionato alla mia parete di Dvd e tremo in futuro all’idea di cercare un film di Billy Wilder o Lubitsch tra Netflix e Amazon (anche perché, come ha scritto Mariarosa Mancuso sulle pagine di questo giornale, non li troverei), mentre magari mi viene offerto l’ultimo film italiano uscito in sala. Mettendomi a scrivere questo pezzo, ho prima di tutto provato a googlare “vivere in streaming”, inteso come condizione esistenziale, convinto uscisse almeno un saggio di Andreoli o Recalcati sulle trasformazioni della nostra vita e l’impatto devastante del Covid sulla cultura. Si è aperta invece una schermata con varie opzioni per vedere “on demand”, “Vivere” film di Francesca Archibugi, con Micaela Ramazzotti e Massimo Ghini, passato a Venezia nel 2019. 

  
La grande paura del 2020, le questioni irrisolte che ha fatto esplodere nei settori della produzione culturale e dell’entertainment, ma allo stesso tempo la grande capacità di adattamento delle nostre abitudini, mi ha fatto tornare in mente le sigarette. Quando entrò in vigore la Legge Sirchia (10 gennaio 2005), la maggior parte dei miei amici tabagisti diceva che non avrebbe più messo piede in un ristorante. Vari fumatori incalliti annunciarono forme di “resistenza passiva”, i gestori dei locali optarono per il solito ricorso al Tar, Dino Zoff e Dario Fo, a capo dell’associazione “fumatori cortesi”, organizzarono una serata in un locale di Milano per accendersi tutti quanti insieme l’ultima sigaretta, un po’ come i condannati a morte. Fu così in varie altre città italiane. Era la fine di un mondo, l’inizio di una nuova era. Sembrava in effetti assai strano stare seduti al ristorante senza sigarette intorno, pacchetti sparsi sui tavoli, senza nuvole di fumo sopra le teste. Mancava qualcosa. I fumatori presero a socializzare al freddo, in piedi, intorno ai “funghi riscaldanti”, davanti l’ingresso dei locali. Dopo qualche anno, quasi tutti trovavamo abbastanza assurdo l’aver fumato al chiuso nei ristoranti per una vita intera. A ripensarci adesso pare quasi impossibile. E’ un po’ l’effetto che ci fanno oggi le immagini delle file davanti ai cinema o dei concerti affollati, documentate prima del Dpcm del 4/3/2020. Solo che rispetto ai ristoranti senza sigarette, abituarsi a vivere in streaming o a passare una giornata su Zoom è stato molto più rapido.

  

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