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Il foglio del weekend

Il santo re di Napoli

Francesco Palmieri

Il trono, l’esilio, la devozione. Francesco II, ultimo sovrano delle Due Sicilie, presto potrebbe diventare beato

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Il suo precettore, il sacerdote scolopio Pompeo Vita che poi sarebbe uscito pazzo, aveva premonito – solo ai folli riesce – il destino del ragazzo, cui diede da tradurre un passo dell’Odissea magari non a caso pervenutoci: “O Ciclopo, tu domandi il mio nome? Io tel dirò, e aspetterò i doni ospitali che mi hai promesso. Niuno è il mio nome; la Madre, il Padre, e tutti i compagni mi chiamano Niuno”. Niuno: a quattordici anni aveva già perduto il proprio nome in famiglia. Non Francesco ma Lasa lo chiamavano, diminutivo di Lasagna, per l’amore che aveva manifestato verso quel piatto non appena fu svezzato. Spettò al padre, l’esuberante sovrano Ferdinando II di Borbone, inventarsi il nomignolo, e Lasa il bambino chiamava se stesso, così firmando le prove all’acquarello che gli assegnava il maestro di pittura Giacinto Gigante. Solo una minoranza, nei centosessant’anni dall’unità d’Italia, ha restituito il nome proprio all’ultimo sovrano delle Due Sicilie, perché quasi tutti – ammesso che lo citassero – lo hanno chiamato col diminutivo Franceschiello, spesso associato alla fama di un inglorioso esercito o di qualsivoglia struttura un po’ brancaleonesca.

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Il suo precettore, il sacerdote scolopio Pompeo Vita che poi sarebbe uscito pazzo, aveva premonito – solo ai folli riesce – il destino del ragazzo, cui diede da tradurre un passo dell’Odissea magari non a caso pervenutoci: “O Ciclopo, tu domandi il mio nome? Io tel dirò, e aspetterò i doni ospitali che mi hai promesso. Niuno è il mio nome; la Madre, il Padre, e tutti i compagni mi chiamano Niuno”. Niuno: a quattordici anni aveva già perduto il proprio nome in famiglia. Non Francesco ma Lasa lo chiamavano, diminutivo di Lasagna, per l’amore che aveva manifestato verso quel piatto non appena fu svezzato. Spettò al padre, l’esuberante sovrano Ferdinando II di Borbone, inventarsi il nomignolo, e Lasa il bambino chiamava se stesso, così firmando le prove all’acquarello che gli assegnava il maestro di pittura Giacinto Gigante. Solo una minoranza, nei centosessant’anni dall’unità d’Italia, ha restituito il nome proprio all’ultimo sovrano delle Due Sicilie, perché quasi tutti – ammesso che lo citassero – lo hanno chiamato col diminutivo Franceschiello, spesso associato alla fama di un inglorioso esercito o di qualsivoglia struttura un po’ brancaleonesca.

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Ora però, poiché la Storia non produce solo Nemesi ma in certi casi anche (inutile) Rivalsa, per Francesco II di Borbone si apre il lungo e imprevedibile percorso verso gli altari: nel dicembre scorso la Conferenza episcopale campana ha concesso il nulla osta “per l’apertura dell’istruttoria diocesana del processo di Beatificazione e Canonizzazione”, dopo il deposito della richiesta al Tribunale ecclesiastico napoletano avanzata dal postulatore, Nicola Giampaolo, per conto della Fondazione Francesco II delle Due Sicilie. ’O Rré, morto esule a cinquantott’anni per diabete nel 1894, segue il cammino della mamma, Maria Cristina di Savoia, proclamata beata nel 2014. Una madre che non conobbe mai, perché morì appena ventiquattrenne quindici giorni dopo averlo partorito. Trasse da lei, più che dalle gioviali complessioni dei Borbone, i tratti fisici e interiori, sicché il popolo napoletano si riferiva a quel bambino bruno, laconico e smunto come al “figlio della santa”. E così sarebbe stato visto anche quando gli s’aggiunse la copiosa nidiata di fratellastri e sorellastre che avrebbe generato il prolifico re Ferdinando, risposatosi con l’austriaca Maria Teresa d’Asburgo-Teschen. Ma anche il padre lo perse troppo presto: quarantanovenne, nel 1859, per una tremenda setticemia di cui le cause restano tuttora oscure e che esplose mentre accompagnava Francesco a Bari per ricevere Maria Sofia di Baviera, la leggiadra Wittelsbach che l’erede al trono aveva già sposato per procura.

 

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“Nel nascere, privato di mia Madre; nel prender moglie, privato di mio Padre”, avrebbe confidato a se stesso qualche anno dopo, esule a Roma, l’ultimo dei Borbone in uno dei diari sui taccuini inglesi in pelle nera che gli provvedeva un cartolaio di piazza Colonna, su cui la scrittura incerta di quell’esercitante sul “Niuno” sarebbe diventata negli anni sempre più fitta e minutissima, come a registrare il progressivo dissolvimento dell’autore dalla vita e dalla Storia. Non era uno stupido, ma un immaturo ventitreenne che non s’aspettava di ereditare il trono così presto, ’o Rré su cui si chiuse la trappola costruita dalle incomparabili volpi inglesi, francesi e piemontesi, dal mastermind Cavour, dal consumato guerrigliero Garibaldi, dalle vecchie faine di corte, dell’esercito e della marineria borbonica, che tutte avevano temuto – finché aveva ruggito – l’ingombrante leonina presenza di Ferdinando. Su quintali e quintali di carta è stata raccontata, e ancora lo sarà, la storia dell’unità d’Italia ovvero – a seconda dei punti di vista – dell’annessione di un regno a un altro regno, dell’epopea di un Risorgimento che sparse molto sangue di martiri idealisti ma anche di poveri “cafoni” insorgenti fedeli ai Borbone, un’epopea che asseverò sotto silenzio i roghi dei villaggi, le stragi e gli stupri di civili, le condanne con o senza sentenza eseguite dai bersaglieri piemontesi, la spoliazione delle finanze duosiciliane, la distruzione delle industrie meridionali sotto una bandiera imposta con un plebiscito farsesco svolto sotto la sorveglianza della camorra napoletana.

 

Più esile di un’ala di farfalla, di tutto questo non può né deve dire una pagina di giornale, dove piuttosto si richiama l’inesorabilità tipica del Fato quando esemplifica in un uomo – e se è un re fa più effetto – l’Uomo-che- perde-tutto. Perché sì, persino quando Francesco II si prese la sua fetta di gloria con l’epopea di Gaeta, la cittadella dove assediato resistette fino al 13 febbraio 1861, quell’ultima parentesi di luce gli fu sottratta dalla bella regina, “l’aquilotta bavara” cantata da D’Annunzio che affrontava le cannonate piemontesi con la pazzesca o pazza spavalderia dei Wittelsbach. Destinato a un’ombra persistente, a un arcobaleno di nulla, al torneo del meno, al passo indietro, ’o Rré nel settembre del ’60 aveva lasciato Napoli per evitare una strage in città con l’arrivo dei garibaldini, per contribuire “alla inviolabilità e alla incolumità della capitale”, per la salvaguardia, spiegò nel Proclama Reale, dei “suoi abitanti e le loro proprietà, i sacri templi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni di arte e tutto quello che forma il patrimonio della sua civiltà e della sua grandezza e che appartenendo alle generazioni future è superiore alle passioni di un momento”. Portò con sé – dite pure: che fesso! – non le riserve auree né le sostanze pubbliche e nemmeno il patrimonio liquido della famiglia, ma la sua intera collezione di reliquie sacre, di santi e santini. Certo, aveva ragione il principe di Salina quando lo definiva “un seminarista vestito da generale”.

 

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Certo, aveva ragione D’Annunzio, quando si domandò ne Le vergini delle rocce perché la Fortuna avesse imposto a “un debole agnello” la forza di un nome, un reame bellissimo, la giovinezza “che seduce e trascina”, una regina appassionata “le cui narici feline parevano respirare in un sogno eroico e palpitare di voluttà presentendo l’effluvio elettrico degli uragani”; certo, “mai sangue fu più timido in vene giovenili e mai sensualità fu più torpida”. Siano pure spietati i grandi scrittori, quando più taglienti di un presidente di Corte d’Assise e più intuitivi degli storici giudicano la Storia. Che lo sia Tomasi di Lampedusa, che lo sia D’Annunzio. Non lo sia – si parva licet – persino Paolo Guzzanti, inviato di Repubblica per la cerimonia di traslazione delle spoglie regali nella Basilica di Santa Chiara nel 1984: “Franceschiello era come un soldatino di piombo” (e incorniciò il verdetto nel contesto che fa sempre colore di vecchi e giovani nobili un pochino buffi, perché ci sono pezzi dove si vince facile senza essere Tomasi o D’Annunzio ma neppure Dino Risi, con l’indimenticabile tavolata dei monarchici sabaudi di Una vita difficile). Perse perché doveva perdere, “il seminarista”. Perse la madre nascendo, perse il padre, il suo Regno e l’amore della moglie se mai l’aveva avuto. Soltanto dopo morto, probabilmente, Maria Sofia lo amò o ne amò la memoria, come esibì in quell’intervista rilasciata da ancora bellissima vecchia a un giovane e ambizioso giornalista di talento: mostrò a Giovanni Ansaldo due vedutine ad acquarello del Vesuvio, come quelle che il ragazzino Lasa aveva eseguito per il compito di pittura: “‘Le dipinse il mio re. No, il mio re, tu lo vedi, non fu un imbecille…Come dicono’. E rise”.

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Lei a Roma lo aveva tradito con un ufficiale pontificio belga che le faceva da scorta nelle galoppate fuori porta, e la regina rimasta incinta fu costretta a fuggire in Baviera dove avrebbe partorito di nascosto due gemelle. Francesco seppe e perdonò e finalmente dal matrimonio sarebbe nata, nel Natale del ‘69, una prole: Maria Cristina Pia. Ma abbiamo detto il Fato e il Fato volle che, anche questa gioia, il re segnato dovesse perderla: sarebbe morta a tre mesi sfibrata dalle stranezze di una governante inglese, referenziata addirittura dai Rothschild, che somministrava alla neonata bagni freddi e cucchiaini di cognac per rafforzarne la tempra, fra l’orrore impotente della servitù napoletana. Perse, Francesco, anche l’esilio romano e la proprietà di Palazzo Farnese con la breccia di Porta Pia. I Savoia glielo avrebbero restituito a patto di una formale rinuncia ai suoi diritti al trono. Lui, l’uomo del meno, disse di no. E fu una vita di ancora maggiori ristrettezze se comparata alla dorata condizione di ogni esilio regale, per cui già a Roma aveva dovuto vendersi i cavalli, un servizio d’argenteria, certi preziosi brillanti tolti al castone delle decorazioni anche per ripianare i debiti del fratellastro Luigi, conte di Trani, spudorato e alcolista, che vendette di nascosto a re Vittorio Emanuele persino importanti documenti dell’archivio di Francesco prima di morire suicida nel lago di Zurigo. Vagò, ’o Rré, per l’Europa tra Vienna e la Baviera ma soprattutto Parigi, prendendo stabilmente il nome – un altro ancora – di conte di Castro, per cui aveva già optato a Roma dopo lo scioglimento dei ministeri e delle sue speranze di rivedere il trono.

 

Un desiderio che gli aveva pure stroncato in un incontro, con una delle sue profezie, san Giovanni Bosco, cui i Borbone non facevano alcuna simpatia. “E’ un piemontese” lo rassicurò Maria Sofia. Però il “figlio della santa” ci credette. Anche a Parigi lei, mentre Francesco trascorreva le giornate fra le devozioni religiose, l’aiuto ai napoletani che glielo avessero richiesto, o nella semplicità dei suoi interessi culturali, anche a Parigi Maria Sofia gli toglieva naturalmente la scena. Marcel Proust incontra gli esuli e descriverà “la regina-soldato”, l’eroina di Gaeta, nel volume della Recherche La prigioniera: “Sempre pronta a schierarsi cavallerescamente accanto ai deboli”, quella volta che a un ricevimento le parve “sola e trascurata” madame Verdurin, Maria Sofia cercò di fingere che “il centro della serata, il punto d’attrazione che l’aveva indotta a venire, fosse la signora Verdurin”. Sempre più malmesso, in via di sparizione come la sua lillipuziana grafia che abbisognava di sempre meno carta sui quaderni, Francesco cambia nuovamente nome o ne perde un altro. Ora è il signor Fabiani: così si fa registrare nell’albergo piuttosto modesto di Arco di Trento, dove in compagnia di qualche lontano parente Asburgo, l’arciduca Alberto, trascorre lunghi periodi e quasi nessuno sa chi sia davvero. Anche il suo aspetto è cambiato rispetto al giovane nella divisa degli ussari che sposò Maria Sofia, o a quello in tight fotografato a Roma con Pio IX, o al condottiero effimero che lascia la piazza capitolata di Gaeta, come racconta un testimone francese, “in tenuta da semplice ufficiale, la sciabola al lato, gli sproni agli stivali” sulle note della Marcia di Paisiello.

 

Così quando questo vecchio signore che non gli somiglia più, quando il signor Fabiani muore d’improvviso il 27 dicembre 1894, il Fato che è più attento della Storia e non si distrae punto, nemmeno allora lo lascia andare. Diverse e quasi clandestine saranno, vuoi per una ragione vuoi per un’altra, le peregrinazioni della salma. Sarà traslata dalla Chiesa della Collegiata ad Arco a quella di Trento durante la Prima guerra mondiale, nel 1915, per allontanarla dal fronte bellico; dopo la morte di Maria Sofia sarà portata a Roma, assieme ai resti della regina e della piccola Maria Cristina Pia, nella chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani in via Giulia, dove riposerà fino all’aprile del 1984 quando riceve definitiva sistemazione nel pantheon napoletano dei Borbone a Santa Chiara. E fu per ogni spostamento o un vagone ferroviario che procedeva nella notte o un camion telato dell’Esercito a evitare che qualche impeto neoborbonico esaltasse il transito del corpo del re destinato all’ombra, al meno, all’oblio. Da vivo e da morto. Se questo ne abbia fatto un santo, di Franceschiello o Lasa o conte di Castro o signor Fabiani o di Ciccillo – come pure i fratellastri chiamarono la Sua Maestà – noi non lo sapremo mai. Niuno lo saprà se non la Chiesa. E per la Chiesa, forse, un giorno lo sarà.

 

P.S. Luigi Magni, che studiò la figura di Francesco II di Borbone e ne trasse il film 'O Re' nel 1989, gli diede il volto di Giancarlo Giannini e così gli fece dire al maggiordomo Raffaele (Carlo Croccolo): “Stavo facendo un sogno spaventoso…Che ero ancora re di Napoli, Rafè. Un incubo!”. “E vabbè, non ci pensate più”. “E’ stata un’esperienza tremenda, e quando mi addormento, riaffiora”. “Ah sì?”. “Tu non te lo immagini nemmeno che cosa significa essere re. Hai presente un dramma elisabettiano?”. “Ah… io no!”. “Macbeth, Riccardo III, insomma…peggio. Molto peggio”. (Chissà, a conti fatti, che Sua Maestà non avesse ragione).

 

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