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OLTRE IL NICHILISMO

Quando Nietzsche si fece annunciatore di un Dio più credibile di quello ucciso

Sergio Belardinelli

“Proprio colui che ha tratto, implacabilmente, tutte le più severe conseguenze dalla fine del ‘pensiero cristiano’, ha intravisto una possibile luce nella quale trascendenza e immanenza non sono più contrapposte". Il nuovo libro di Massimo De Angelis

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Leggere Nietzsche è sempre un’avventura eccitante, una scossa di adrenalina anche per le menti più addormentate. Ma scriverci sopra è un’altra cosa; richiede non soltanto intelligenza e sensibilità, ma anche una buona dose d’incoscienza e, soprattutto, un grande dispendio emotivo, la disponibilità a farsi coinvolgere in un mondo che assomiglia più al “groviglio originario” di cui parlava Hoelderlin che a quello che solitamente abitiamo. Anche per questo mi avvicino sempre con una certa diffidenza ai libri su Nietzsche. La sua radicalità filosofica, spesso vestita con la lucentezza abbagliante della poesia, rende alto il rischio che, parlandone, se ne faccia semplicemente, come paventava lui stesso, “una canzone da organetto”, diciamo pure, una stantia ripetizione di formule rituali, incuranti del fuoco che gli bruciava dentro. Quando, però, qualcuno trova il registro giusto, come ha fatto Massimo De Angelis nel suo libro Serve ancora Dio? La via di Nietzsche oltre il nichilismo (Castelvecchi 2020), la diffidenza lascia il posto al compiacimento e a un profondo senso di gratitudine. “Una volta ‘Ella mi ha scritto che la musica mi dirige’, rammenta Nietzsche a Wagner in una lettera del 21 maggio 1870. In entrambi la musica è natura. Natura che dall’oscurità erompe: ‘Radice di un’arte inconscia’. Un’aurora della vita, un primo conatus, ‘l’impulso primaverile che sboccia prepotente… tutto si riporta all’istinto più profondo. Physis. Espressione dell’inconscio, istinto di vita. Questo è il nucleo originario che Nietzsche rintraccia nella musica e allo stesso modo nella tragedia antica. Nel lirico musica e inconscio sono ‘una cosa sola con l’uno originario, col suo dolore e la sua contraddizione’: in lui l’uno originario si esprime come musica. L’‘io’ del lirico risuona dall’‘abisso dell’essere’. E d’un tratto compare Dioniso”. Questo l’incipit del libro, anzi, il “preludio: lento, poi mosso, infine calmo” (bellissima trovata quella di sottotitolare ogni capitolo con l’indicazione di un movimento della musica): poche righe dove vengono sapientemente squadernati pressoché tutti gli elementi coi quali Nietzsche costruisce il suo “esplosivo”.

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Leggere Nietzsche è sempre un’avventura eccitante, una scossa di adrenalina anche per le menti più addormentate. Ma scriverci sopra è un’altra cosa; richiede non soltanto intelligenza e sensibilità, ma anche una buona dose d’incoscienza e, soprattutto, un grande dispendio emotivo, la disponibilità a farsi coinvolgere in un mondo che assomiglia più al “groviglio originario” di cui parlava Hoelderlin che a quello che solitamente abitiamo. Anche per questo mi avvicino sempre con una certa diffidenza ai libri su Nietzsche. La sua radicalità filosofica, spesso vestita con la lucentezza abbagliante della poesia, rende alto il rischio che, parlandone, se ne faccia semplicemente, come paventava lui stesso, “una canzone da organetto”, diciamo pure, una stantia ripetizione di formule rituali, incuranti del fuoco che gli bruciava dentro. Quando, però, qualcuno trova il registro giusto, come ha fatto Massimo De Angelis nel suo libro Serve ancora Dio? La via di Nietzsche oltre il nichilismo (Castelvecchi 2020), la diffidenza lascia il posto al compiacimento e a un profondo senso di gratitudine. “Una volta ‘Ella mi ha scritto che la musica mi dirige’, rammenta Nietzsche a Wagner in una lettera del 21 maggio 1870. In entrambi la musica è natura. Natura che dall’oscurità erompe: ‘Radice di un’arte inconscia’. Un’aurora della vita, un primo conatus, ‘l’impulso primaverile che sboccia prepotente… tutto si riporta all’istinto più profondo. Physis. Espressione dell’inconscio, istinto di vita. Questo è il nucleo originario che Nietzsche rintraccia nella musica e allo stesso modo nella tragedia antica. Nel lirico musica e inconscio sono ‘una cosa sola con l’uno originario, col suo dolore e la sua contraddizione’: in lui l’uno originario si esprime come musica. L’‘io’ del lirico risuona dall’‘abisso dell’essere’. E d’un tratto compare Dioniso”. Questo l’incipit del libro, anzi, il “preludio: lento, poi mosso, infine calmo” (bellissima trovata quella di sottotitolare ogni capitolo con l’indicazione di un movimento della musica): poche righe dove vengono sapientemente squadernati pressoché tutti gli elementi coi quali Nietzsche costruisce il suo “esplosivo”.

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Dioniso soprattutto: il Dio delle tenebre e della perdita di sé nell’orgia del tutto, il Dio che ha bisogno delle illusioni di Apollo, l’ordine e la bellezza, per scatenare la propria ebbrezza disindividualizzante, ma con essa anche l’orrore che genera di nuovo il bisogno di una forma. La tragedia greca è per Nietzsche il campo di battaglia di questi due dèi, bisognosi quasi l’uno all’altro: l’uno, Dioniso, che trascina giù verso l’abisso (il buio, il dolore, la necessità, “il carattere totale della vita”) e l’altro, Apollo, che invece tiene ferma la forma, l’individuo, impedendogli di risolversi in pura animalità. Ma la tragedia finirà tragicamente, secondo Nietzsche. Troppo doloroso tenere gli occhi fissi sull’abisso della vita, sul puro scorrere del tempo e delle cose. Di qui Socrate, il bisogno di fare chiarezza, di rendere comprensibile l’insensatezza dell’esistenza, separando l’apollineo dal dionisiaco; di qui Platone e la scissione del mondo delle idee dal mondo reale; di qui il dualismo tra ragione e istinti, la supremazia della logica sulla vita; di qui il cristianesimo e la sua “malattia” morale; di qui la volontà di potenza degli “ultimi uomini”; di qui il nichilismo destinato a segnare tutta la storia dell’occidente. L’opera di Nietzsche è una sorta di lotta all’ultimo sangue con questi problemi, aggrappandosi ora all’apollineo/dionisiaco, ora alla necessità (ananke), ora alla volontà dell’“oltreuomo”, nel tentativo di rimuovere ogni forma di normatività (sta qui forse il nodo inestricabile che lo tormenterà fino alla follia) e salvare così, come dice Massimo De Angelis, “il divenire nella sua innocenza”.

 

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Ma allora serve ancora Dio? Possibile che l’autore che più forte ha proclamato l’annuncio della definitiva “morte di Dio” e l’avvento degli “ultimi uomini” che si fanno beffe dell’“amore”, della “creazione”, della “nostalgia” e della “stella”, occupati come sono soltanto dietro ai loro piccoli piaceri, divenga l’annunciatore di un Dio più credibile di quello che abbiamo ucciso? La risposta di De Angelis è netta e inequivocabile: sì, è possibile. “Nietzsche ha fatto i conti, nel corso di tutta la sua vita, con il cristianesimo, lottando con un’idea e una pratica di cristianesimo ridotto a morale e coperto d’ipocrisia”, diciamo pure, con “un Dio ingabbiato, antropomorfizzato, reso umano troppo umano”. Ebbene è questo il Dio che è morto. Ma non è questa l’ultima parola nietzscheana su Dio, né sono gli “ultimi uomini” ad avere l’ultima parola. La famosa visione di Silvaplana, quella dell’eterno ritorno e dell’oltreuomo, ci dice infatti che Nietzsche ha intravisto un’altra possibilità: non più la volontà della “bestia bionda”, né quella volta ai piccoli piaceri degli ultimi uomini, bensì una volontà che, diventando pura contemplazione, riesce a far nuove tutte le cose, salvando anche quelle passate. Significa che Nietzsche è approdato finalmente al Dio di Abramo e di Gesù Cristo dopo aver ucciso il Dio dei filosofi? Non saprei. Di certo, però, secondo De Angelis, gli apre di nuovo la strada. Così le laceranti ambivalenze del pensiero nietzscheano vengono illuminate (e quasi mitigate) proprio facendole convergere in questa nuova possibilità: nella “verità vera della vita” che appare a Nietzsche nella passeggiata di Silvaplana. In un confronto serrato con le interpretazioni di Heidegger, Jaspers, Severino, Fink, Guardini e Sestov, tanto per fare qualche nome, De Angelis ci dice insomma che “proprio colui che ha tratto, implacabilmente, tutte le più severe conseguenze dalla fine del ‘pensiero cristiano’, della metafisica occidentale, ma anche dell’egologia del Soggetto cartesiano, ha intravisto una possibile luce nella quale trascendenza e immanenza non sono più contrapposte, come non lo sono corpo e spirito, terra e cielo, tempo ed eternità”. Mi sembra persino superfluo sottolineare la portata teologica di tutto questo. D’altra parte, e concludo, pochi altri come Nietzsche hanno attraversato “sino in fondo le terre del nichilismo” nel quale ci tocca di vivere. Come scrive Massimo De Angelis, “la sua esperienza è probabilmente imprescindibile per chi, vivendo autenticamente e senza false certezze il proprio tempo (il nostro tempo) voglia ritrovare e ritornare a Dio. Ritrovare Dio in noi”. Sì, anche in questo, Nietzsche è stato un pensatore postumo.

 

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