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Povero Dante, nelle mani di giornalisti incompetenti e pupazzetti televisivi

Alfonso Berardinelli

A sette secoli dalla sua morte, su Alighieri si è avidamente buttato chi sa fare affari, mentre i migliori italianisti e dantisti sono dimenticati

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Povero Dante! Lui ha senza dubbio meritato con il suo poema di vivere tutt’ora nell’oltretomba, scendendo ogni tanto dal Paradiso infine raggiunto per visitare e commiserare i disperati inquilini dell’Inferno e i poveri, volenterosi peccatori del Purgatorio. E dall’oltretomba gli toccherà di sopportare, in questo 2021, settimo centenario della sua morte, il fiume di noiosissime lodi e di pompose celebrazioni ufficiali che gli toccano e gli toccheranno fino al dicembre prossimo.
   

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Povero Dante! Lui ha senza dubbio meritato con il suo poema di vivere tutt’ora nell’oltretomba, scendendo ogni tanto dal Paradiso infine raggiunto per visitare e commiserare i disperati inquilini dell’Inferno e i poveri, volenterosi peccatori del Purgatorio. E dall’oltretomba gli toccherà di sopportare, in questo 2021, settimo centenario della sua morte, il fiume di noiosissime lodi e di pompose celebrazioni ufficiali che gli toccano e gli toccheranno fino al dicembre prossimo.
   

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Dante è indubbiamente italiano, ma con gli italiani e l’Italia di oggi ha non meno indubbiamente poco a che fare. Del nostro primo e maggiore poeta una cosa è certa più delle altre, che noi non lo leggiamo, leggerlo non ci è facile per diverse ragioni. Ho sentito un momento fa alla radio un professore dell’Accademia della Crusca, istituzione secolare che si dedica alla custodia della lingua italiana, rispondere a qualche domanda della conduttrice. Una di queste era: professore, la lingua di Dante è vicina o lontana? Risposta inevitabile: lontana e vicina nello stesso tempo. Vicina perché, come ha mostrato statisticamente il professor Tullio De Mauro, è altissima la percentuale delle parole usate oggi che si trovano già nella “Divina Commedia”. Ma anche lontana perché i neologismi (o più precisamente i prestiti) che si trovano in Dante, derivati per lo più dal francese antico e dal provenzale, noi non li capiamo più. 
   

Va naturalmente aggiunto il fatto che la cosa più difficile da capire è la cultura, la mentalità, le passioni morali e filosofiche di Dante. Riflettevo sul fatto che ormai il discorso sulla letteratura, più che fra i critici e gli storici della letteratura italiana, è trasferito nelle mani dei linguisti, che leggono la lingua letteraria, ma non leggono propriamente la letteratura per quello che dice e che vale. Per loro un autore vale l’altro: sono tutti depositi, magazzini, accumuli di materia linguistica da cui prelevare esempi lessicali, grammaticali, sintattici, semantici da mostrare come fenomeni a sé.
     

Povero Dante! Sono interessanti e memorabili le sue singole parole e locuzioni, non l’insieme del suo poema? Per prelevare campioni linguistici basta un computer; per leggere il poema ci vuole tempo, attenzione, passione, pazienza, comprensione, immedesimazione, sensibilità storica e morale nonché comparativa che misuri la distanza fra l’umanità di Dante e l’umanità attuale
   

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Riflettevo su questo, quando nella stessa trasmissione è emersa la voce di Roberto Benigni che anni fa si dedicò anima e corpo, più corpo che anima, a propagandare Dante ripetendo il più spesso possibile che è meraviglioso, è straordinario, è eccezionale, è unico, è il sommo scrittore non solo della letteratura italiana ma di tutte le letterature, di quelle moderne e anche di quelle antiche che lo hanno preceduto, da Omero a Sofocle, da Platone a Virgilio... Tutto questo non perché sia plausibile un tale furore valutativo, ma solo per ripetere: meraviglioso, unico, eccezionale, straordinario… Benigni, tra l’altro, leggeva malissimo la “Divina Commedia”. Enfatizzava, enfatizzava, enfaticamente commentava agitandosi e contorcendosi, come se l’espressività di Dante non fosse di per sé sufficiente e avesse sempre bisogno di condimenti, additivi, spezie, verbigerazioni di sostegno. 
   

Povero Dante! Dopo sette secoli dalla sua morte è finito nelle nostre mani. Quali mani? Quali di noi? Va bene l’Accademia della Crusca finché si parla di lingua, ma di Benigni era molto meglio Vittorio Sermonti, sia per la voce e l’intelligente capacità di lettura, sia per il suo commento parafrastico pubblicato con la supervisione di un critico e filologo come Gianfranco Contini. 

   

È naturale e anche giusto che i classici vengano fatti scendere dal piedistallo su cui li abbiamo monumentalizzati, allontanati, neutralizzati. È giusto strapazzarli un po’ leggendoli, come deve succedere, entro certi limiti, agli autori teatrali ogni volta che vengono di nuovo messi in scena. Ma anche fra chi legge Dante e ne parla ci sono ottimi o pessimi attori e registi. Comincio a notare che su Dante si sono avidamente buttati giornalisti incompetenti e pupazzetti televisivi per fare affari, mentre i migliori italianisti e dantisti latitano, sono dimenticati, non vengono intervistati. Il maggiore studioso di Dante è stato negli ultimi anni Marco Santagata, purtroppo scomparso qualche mese fa. La primavera scorsa è uscito l’originalissimo volume di Giulio Ferroni “L’Italia di Dante”. Su Dante ci sono libri recenti di Carlo Ossola e Enrico Malato. Di quello appena uscito dell’onnipresente Alessandro Barbero non mi fido molto, parla in tv di tutto, di Alessandro Magno, di Grande guerra, di Medioevo. Sa un sacco di cose e cosette, anche su Dante. Ma non bastano. Siamo all’altezza della “Divina Commedia”? Credo che siano più quelli che cercano notiziole in rete, che quelli che proveranno a leggere le sue pagine.
  

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