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Le catene di San Patrignano

Annalena Benini

“SanPa” racconta una  frontiera sospesa tra la vita e la morte. Dove Vincenzo Muccioli salva i dannati dell’eroina. Anche legandoli per le mani e per i piedi. Storia estrema di un uomo estremo e di una  difficile comunità
 

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Tra le cose che è stato necessario tagliare dalle cinque puntate di “Sanpa”, c’è la descrizione dell’eroina. Il racconto preciso e profondo, dettagliato e sconvolgente, troppo pericoloso da ascoltare, della grandiosa felicità provocata da questo enorme e mortale maleficio. 

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Tra le cose che è stato necessario tagliare dalle cinque puntate di “Sanpa”, c’è la descrizione dell’eroina. Il racconto preciso e profondo, dettagliato e sconvolgente, troppo pericoloso da ascoltare, della grandiosa felicità provocata da questo enorme e mortale maleficio. 

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Uno degli ex ospiti di San Patrignano, Fabio Cantelli, il testimone più interessante per il suo rapporto stretto con Vincenzo Muccioli e per il suo tormento capace, anzi bisognoso, di tenere insieme la gratitudine e il risentimento, l’odio e l’amore, ha raccontato che gli piaceva moltissimo una ragazza, nel 1980, “una ragazza di cui era innamorato tutto il mio liceo”. Voleva andarci a letto, e anche lei a un certo punto ha voluto. Doveva essere quella la felicità massima, a diciott’anni al liceo con la ragazza più bella di tutte. E’ stata lei a iniettargli una dose di eroina, la prima. “Da quel momento, di fare l’amore con lei non mi importava più. Ero preso da questa estasi personale che non aveva bisogno d’altro”. Oltre non si può andare, ma credo sia questo il punto di partenza, e la ragione per cui le cinque ore di docuserie su Vincenzo Muccioli e sulla sua ascesa e caduta insieme alla comunità di San Patrignano sono un’immersione palpitante nelle frontiere dell’umano: tutto il male, tutto il bene, tutta la dannazione, tutta la salvezza, tutta la libertà, tutta la costrizione. 

 

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Il dolore delle madri che prende allo stomaco, le lacrime dei figli piegati mentre l’estasi li tira di nuovo a sé e li divora su una panchina al parco, a sedici anni. Le braccia aperte di Vincenzo Muccioli, i suoi schiaffoni, lui grassissimo e trionfante, lui emaciato e senza più forze. I sommersi e i salvati. 

 

     

Ci si muove di continuo tra estremi visibili e invisibili, e proprio mentre con buonsenso ci diciamo che allora non possiamo giudicare, che non ci può essere nettezza in tanta complessità, tiriamo fuori tutti questi estremi da un punto molto preciso che tocca ciascuno di noi e pesca nelle esperienze, nei ricordi e nelle ferite, ma anche, per chi è così giovane o inconsapevole da scoprire San Patrignano solo adesso, nella istintiva cognizione che si tratta della storia di ognuno di noi di fronte ai principi che regolano l’esistenza. I principi alla prova della realtà più estrema.

 

Chi ha visto Sanpa e sta vedendo Sanpa, in queste settimane, chi ne ha scritto appassionatamente, severamente, chi ha condannato moralmente Muccioli in base ai diritti civili che Muccioli ha calpestato “per salvarvi la vita”, oppure chi lo ha assolto ringraziandolo ancora una volta, ha messo quasi sempre in gioco qualcosa di sé, di molto vivo e dolorante, di atterrito o di profondamente arrabbiato. 

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Nessuno è rimasto distaccato, nessuno ha pensato di giudicare soltanto una serie tivù sul percorso di un uomo enormemente discusso nella comunità di recupero costruita a sua immagine, che quindi ha assecondato e assorbito anche le derive della sua personalità.

 

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La reazione è stata grande, perché il tema è grande e perché questa serie, diretta da Cosima Spender e ideata, scritta e prodotta da Gianluca Neri per Netflix, fornisce tutti gli strumenti per decifrare la complessità di una storia che non solo riguarda migliaia e migliaia di persone e di famiglie, con vittime e reduci, ma interroga e mostra l’ambizione e la megalomania di un uomo, il suo dono di sé che diventa presto un enorme potere a cui tutti vogliono avvicinarsi, l’imbarazzo dello Stato, la grandezza e i limiti di un’idea dentro la terra di nessuno in cui ci si gioca la vita e la morte. Puntata dopo puntata, permette di decidere dove sta la verità, e di cambiare idea, distruggere un pregiudizio, oppure rafforzare una convinzione. 

 

Comprendere, o almeno sfiorare, che cosa significa sentirsi Dio e che cosa significa essere in balia di qualcuno: volere allo stesso tempo restare per sempre e fuggire per sempre. 

 

Dove arriva la libertà, dove può arrivare il potere dell’uomo sull’uomo e a quante iniezioni di estrema realtà può resistere la legge morale dentro di noi prima di diventare immorale. Ognuno di noi avrà una risposta diversa, ma nessuno di noi può evitare di chiederselo.

 

Che cos’è davvero la compassione e che cos’è quella sbrindellata salvezza sempre sull’orlo di un’altra caduta. Che cosa si diventa, dopo aver esplorato quella frontiera. 

 

Dicono tutti che si tratti di una zona grigia e informe, ma a me sembra che si tratti delle estreme zone dell’umano, forse le meno grigie esistenti, quelle in cui davvero l’umanità e la dignità vengono messe a nudo. 

 

Chiudere una ragazza in astinenza o in fuga o bugiarda (o tutto questo insieme) dentro un tino per l’uva, al buio, per punirla, per salvarla, per esercitare il potere di Dio e mostrarlo agli altri, è accettabile o è inaccettabile, o è accettabile solo perché si tratta di una ragazza che ha già perso la dignità in ogni altro modo, e allora quella dignità si può calpestare ancora? 

 

Dentro San Patrignano, ma anche dentro le costose cliniche in Svizzera come dentro altre improvvisate comunità di recupero, è accaduto qualcosa di cui nemmeno i salvati potranno mai liberarsi: “Sono quello che sono grazie a Muccioli e nonostante Muccioli”, dice oggi Fabio Cantelli con gli occhi bassi e le guance scavate, a venticinque anni dalla morte di Muccioli, a quarantun anni dal primo buco. 

 

Le frontiere della vita non sono infatti soltanto l’incontro con l’uomo estremo che prometteva salvezza e mostrava le stimmate, preparava i maccheroni panna e salsiccia per centinaia di ragazzi e usava le catene, ma ancora prima sono l’incontro con la droga estrema, con l’estremo assoluto piacere, causa di estremo dolore vissuto e inflitto alle persone più amate: da quel dolore e da quell’estasi ci si può disintossicare, ma superarlo è di nuovo un’altra frontiera.

 

Tutto il tormento, tutti gli errori e gli impazzimenti e le esaltazioni, il bisogno di stare dentro il cerchio magico di Vincenzo Muccioli (a cui nessuna donna avrebbe potuto accedere, per la totale misoginia di quel piccolo mondo antico e campagnolo – e del resto gli apostoli sono tutti maschi) avvengono infatti dentro la vita bugiarda: gli sguardi e le bugie dei tossici che devono per forza fregarti per continuare a farsi, gli sguardi come pallottole e le bugie di Muccioli, ma anche il suo controllo sulle bugie degli altri, le bugie a cui i genitori disperati vogliono aggrapparsi e il grande e bugiardo sollievo dello Stato nell’affidarsi confusamente a un omaccione con faccia da Stalin e metodi simili (la comunità di San Patrignano è stata, e questa serie lo mostra con chiarezza di immagini e testimonianze, sia una comunità hippy e bucolica sia un regime autoritario e paranoico fondato sulla delazione e sul controllo), per dirgli, senza dirglielo: pensaci tu, io non posso.  

 

“Voi se ci entrate ci state, se volete andar via io non vi lascio andar via”, diceva Muccioli ai ragazzi che si accampavano sulle colline di San Patrignano per essere scelti da lui, abbracciati da lui, o che i genitori in lacrime avevano accompagnato, chiedendo raccomandazioni, invocando Muccioli come si invoca il santo dei santi. 

 

Voi se ci entrate ci state. Io non vi lascio andar via. Io vi salvo tenendovi qui. Si proponeva di fare da solo, “con iniezioni d’amore” e senza aiuto medico e psicologico, tutto quello che secondo lui, nato nel 1934, avrebbe dovuto fare un padre con un figlio: costringerlo, amarlo, punirlo, rinchiuderlo, farlo lavorare, isolarlo, perdonarlo, gratificarlo, accompagnarlo. 

 

I genitori stremati da anni di dipendenza, derubati, piegati, odiati, indeboliti, con la vita domestica diventata un inferno di rincorse ed errori (la voce registrata di Enrico Maria Salerno che augura “una dolce morte” a suo figlio, legata all’immagine di suo figlio sorridente e sopravvissuto accanto a Muccioli in tivù, fa paura), hanno visto in Muccioli quello che adesso, più di quarant’anni dopo, non possiamo non vedere anche noi spettatori: il padre che diventa Dio e che in cambio della salvezza ti prende la vita. E proviamo a tratti fascinazione, sospetto, ammirazione e orrore: nelle montagne russe dei nostri giudizi e pregiudizi e sentimenti.  Un padre che va a processo per te, va in prigione per te, mente per te, ruba per te, trionfa per te, picchia per te, forse anche uccide per te: a quel punto tutto diventava ammissibile. 

 

Il potere, il controllo, il culto della personalità, ma anche semplicemente l’impazzimento nel sentirsi non più amati da Vincenzo Muccioli e il desiderio che lui dalla sua jeep gettasse su di te, misero, uno sguardo benevolo e non uno sguardo deluso. Quello era un mondo e lui ne era il re: quello era il mondo variegato in cui gli abitanti si trovavano in piena giovinezza, e nella frontiera per niente grigia della vita e della morte. 

 

E poi, come una valanga, nella frontiera dell’Aids che ha travolto tutto.

 

Che cosa c’è di più umano di un virus che si trasmette con il sangue e con il sesso? Il sesso vietato da Muccioli tra gli ospiti di San Patrignano, il sesso che era già servito, a maschi e a femmine, per una dose, prima e dopo San Patrignano, il sesso nell’amore tra gli ospiti della comunità, a cui Muccioli era sempre contrario: ed era soprattutto intimamente contrario alle fidanzate, alle mogli, alla costruzione di qualcosa che portasse via da lì; forse considerava quegli amori un pericolo o forse era solo geloso di un amore diverso dal suo, più forte del suo. 

 

E quindi di nuovo la misoginia del negare le violenze sessuali sulle ragazze: Muccioli ride e dice che se vuoi fare entrare la matita in un anello, ma sposti l’anello, allora la matita non entra più. Ride ancora, con quel ghigno seduttivo e spaventoso. E’ il momento più basso, più rivelatorio, più insopportabile? Probabilmente no, c’è molto altro e ci sono molte umiliazioni. Ci sono molte cose che non sapremo mai o che non si possono dire.

 

Ma c’è anche questa folla di ragazzi che mangiano, cantano, camminano, di nuovo bellissimi, ridenti, pieni di speranza, con tutta la vita ancora davanti, la vita che un attimo prima era una poltiglia (lui diceva “era un zombi”, con la zeta romagnola, che rendeva perfino l’idea dello zombie qualcosa di semplice e superabile con una risata e un ceffone) e non si muovono da San Patrignano quando Muccioli viene arrestato, ma continuano a lavorare, a non bere caffè (se andavi a bere un caffè lui ti prendeva a schiaffi davanti a tutti), accudiscono gli animali, fanno i muratori, i macellai, dormono nei letti a castello e aspettano per più di un mese il ritorno del padre. Lo applaudono, si gettano fra le sue braccia, gridano: mi fido solo di te. Gli dicono anche: torno solo se tu mi prometti che starai sempre con me.

   

Vincenzo Muccioli si è nutrito di tutti loro, schiacciandoli, salvandoli, rendendoli per sempre paranoici, però ha anche dato la sua vita in pasto a tutti. E’ entrato di peso, a manate, con le guance rosse, in quelle frontiere della vita che ha pensato di poter semplificare e di trasformare in una semplice faccenda tra maschi, cioè tra padre e figlio. “Gli schiaffi che noi padri progressisti non sappiamo dare”, ha detto Paolo Villaggio in tribunale, testimoniando a favore di Muccioli. Quella è una frase a effetto, ma questa è molto più di una questione educativa: è qualcosa che ti strappa via da te stesso, e però sei ancora tu, sei sempre tu, che scappi e ritorni e prometti e ti aggrappi e spingi fino all’estremo e ti ritrovi in quella frontiera dell’umano per un minuto, per un anno o per sempre. Muccioli, con tutti gli errori e la presunzione, la vanità e la tortuosità delle sue semplificazioni, ha esplorato continuamente quegli estremi: ne è vissuto e ne è morto.

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