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Danzare sulla scacchiera

Marco Archetti

Ingmar Bergman è stato anche un grande scrittore, frontale e risoluto. Vale la pena riscoprirlo, oggi che la letteratura rischia di perdersi nell’orpello estetico

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C’è un dettaglio che non è un dettaglio, nascosto in una delle scene cinematografiche più celebri al mondo. Il film è “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman. Squassati da brividi di esultanza estetica, ripercorriamo il poderoso incipit di questo capolavoro: un cielo scuro gravido di foschia e nuvoloni da cui filtrano oblique proiezioni solari; un’aquila, immobile nell’aria, che in un silenzio impressionante contrasta il vento; poi una spiaggia di sassi, il profilo scuro di un versante che si getta nell’acqua e due cavalli che si abbeverano lungo la battigia sassosa. Il cavaliere Antonius Block – per tutti noi, Max Von Sydow – sta tornando a casa dopo una crociata in Terra Santa ed è sdraiato sulla spiaggia, sguardo perso e mano posata sull’elsa della spada. Jöns, il suo scudiero, giace poco lontano sprofondato nel sonno, supino a terra, braccia aperte e gambe di divaricate. Intorno ai due imperversano la peste, i più tremendi flagelli e gli arcinoti, tetri scenari. A un certo punto il cavaliere si alza e, con l’andatura ammaccata da giorni di sballottolìo lombosacrale, entra in acqua per rinfrescarsi. Poi si inginocchia a pregare. Quand’ecco che, immobile nella sua torva maestà, gli appare la Morte. Indossa una tunica che non lascia intuire alcuna conformazione fisica ed è avvolta in un mantello nero che la rende un essere minacciosamente ibrido. Ha il volto beffardo, infarinato di biacca, il naso aquilino e le labbra sottili. Una specie di clown raggelante. La Morte allunga il braccio destro. L’ala nera del suo mantello garrisce scossa dal vento: sta chiamando a sé il cavaliere. “Dammi ancora del tempo”, la implora il crociato. “Tutti lo vorrebbero”, incalza la Morte. “Tu giochi a scacchi, non è vero? L’ho visto nei quadri, lo dicono le leggende”. La Morte mette i puntini sulle i: “E non ho mai perduto un gioco”. Il cavaliere la sfida e chiede una partita, ma a un patto: fino al termine, la Morte non lo colpirà. La Morte accetta. I due si siedono l’uno di fronte all’altra mentre il mare ruggisce torvamente. Tra i loro volti, ripresi di profilo, stuoli di nuvole tagliate dai fendenti di una luce da finimondo. A questo punto la scena sfuma sui due giocatori che dispongono i pezzi sulla scacchiera.

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C’è un dettaglio che non è un dettaglio, nascosto in una delle scene cinematografiche più celebri al mondo. Il film è “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman. Squassati da brividi di esultanza estetica, ripercorriamo il poderoso incipit di questo capolavoro: un cielo scuro gravido di foschia e nuvoloni da cui filtrano oblique proiezioni solari; un’aquila, immobile nell’aria, che in un silenzio impressionante contrasta il vento; poi una spiaggia di sassi, il profilo scuro di un versante che si getta nell’acqua e due cavalli che si abbeverano lungo la battigia sassosa. Il cavaliere Antonius Block – per tutti noi, Max Von Sydow – sta tornando a casa dopo una crociata in Terra Santa ed è sdraiato sulla spiaggia, sguardo perso e mano posata sull’elsa della spada. Jöns, il suo scudiero, giace poco lontano sprofondato nel sonno, supino a terra, braccia aperte e gambe di divaricate. Intorno ai due imperversano la peste, i più tremendi flagelli e gli arcinoti, tetri scenari. A un certo punto il cavaliere si alza e, con l’andatura ammaccata da giorni di sballottolìo lombosacrale, entra in acqua per rinfrescarsi. Poi si inginocchia a pregare. Quand’ecco che, immobile nella sua torva maestà, gli appare la Morte. Indossa una tunica che non lascia intuire alcuna conformazione fisica ed è avvolta in un mantello nero che la rende un essere minacciosamente ibrido. Ha il volto beffardo, infarinato di biacca, il naso aquilino e le labbra sottili. Una specie di clown raggelante. La Morte allunga il braccio destro. L’ala nera del suo mantello garrisce scossa dal vento: sta chiamando a sé il cavaliere. “Dammi ancora del tempo”, la implora il crociato. “Tutti lo vorrebbero”, incalza la Morte. “Tu giochi a scacchi, non è vero? L’ho visto nei quadri, lo dicono le leggende”. La Morte mette i puntini sulle i: “E non ho mai perduto un gioco”. Il cavaliere la sfida e chiede una partita, ma a un patto: fino al termine, la Morte non lo colpirà. La Morte accetta. I due si siedono l’uno di fronte all’altra mentre il mare ruggisce torvamente. Tra i loro volti, ripresi di profilo, stuoli di nuvole tagliate dai fendenti di una luce da finimondo. A questo punto la scena sfuma sui due giocatori che dispongono i pezzi sulla scacchiera.

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In una recente pubblicazione della sceneggiatura di questo energumeno filmico – sceneggiatura uscita per Iperborea nel 2017 (96 pp., 15 euro) –  ecco che balza agli occhi un dettaglio tanto fondamentale che, in un solo gesto, riesce a concentrare tutto il mondo poetico di Bergman; dettaglio che, purtroppo, il montaggio ha estromesso. Il dettaglio che non è un dettaglio (al punto che il regista ha sentito il bisogno di esplicitarlo in scrittura) riguarda due mosse: quella di apertura del cavaliere e quella della Morte. Prendiamo in esame quel momento. Per farle scegliere il colore, il cavaliere chiude un pezzo bianco nel pugno di una mano e uno nero in quello dell’altra. Li tende alla Morte, che sfiora il pugno che nasconde il nero. “Hai scelto il nero”, dice il cavaliere, che dovrà dunque muovere per primo. Citazione letterale dalla sceneggiatura di Bergman: “Il cavalier Antonius Block, dopo qualche esitazione, muove il pedone davanti al Re”. E la Morte? “La Morte replica con la stessa mossa”.

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Una sola riga, e c’è di che riprendersi. Ma niente paura, i cultori del cinema di Bergman sono abituati a questi ganci al mento, perché se c’è una cosa che il regista svedese non ha mai smesso di dirci è che siamo pedinati: quali che siano le nostre scelte e le nostre azioni, siamo un gesto ininfluente. Un gesto che potrebbe essere quello o un altro, come in una partita a scacchi. Un gesto che – inevitabilmente – cova l’ombra, e non un’ombra qualsiasi, ma Lei, l’Ombra, quella di cui è impossibile sbarazzarsi. Tuttavia la partita la si gioca lo stesso, la sfida al significato è lanciata nostro malgrado. Però l’ineluttabilità di questa condizione non paralizza la ricerca costante, al contrario: mettendola allo specchio della parte oscura, la eccita e la sprona. Infatti ogni personaggio di Bergman è inesausto, chi barcolla procede lo stesso, la catastrofe esistenziale tende tranelli e precipizi ma tutti, forti di un’alleanza tra ragionevolezza e irragionevolezza, sono disposti ad affrontarli. Ogni personaggio si danna l’anima per scovare uno spiraglio in cui non smette di sperare anche contro logica, e graffia la porta con le unghie, picchia fino a sfinirsi per reclamare una risposta che pensa di trovare. Anche mentre dubita, non abbandona la scacchiera. Mentre crolla, cerca il significato di quel crollo. Insomma, contrariamente a ciò che potrebbe sembrare, la condizione terrena non è una condizione tramortita dal pur gravoso silenzio di Dio: è una condizione certamente inquieta, innegabilmente angosciosa, probabilmente monologante, ma dinamica, e pertanto, a suo modo, incredibilmente fertile. E benché ogni domanda porti in sé le stigmate di un sospetto d’impotenza, la centralità della ricerca è la condizione a cui, anche in assenza di risposta, l’uomo non può rinunciare. Per gli intimiditi dal grande maestro svedese, ci sono dunque buone notizie: al di qua di ogni tormentosa indagine sui massimi sistemi, esistono sistemi minimi che ne sono forse l’allusione e che, proprio per questo, non sono di minor valore. Nel film Un’estate d’amore la ballerina Marie, a un certo punto, dice: “Se mi interrogo a fondo, scopro che sono quasi felice”.

  
Si interrogano a fondo, nessuno escluso, anche i personaggi dei romanzi di Bergman. Meno frequentato del regista, c’è infatti un Ingmar Bergman scrittore che, con la penna in mano, riesce a indagare perfino più vertiginosamente le ossessioni che ben conosce chi ama il suo cinema. Potenza della parola scritta? Pagine che affondano il colpo, che scuoiano pulsioni e sentimenti. Pagine che arrivano a dichiarare l’inconfessabile, procedendo con la smagata sincerità del diario e il rigore di uno studio fenomenico. Pagine precipitose e profonde, capaci di inabissarsi nelle verità umane senza temere scoscendimenti. Non c’è burrone in cui Bergman non sia disposto a calarsi, con spericolatezza tale da costringerci – hic et nunc – a esser d’accordo con Goffredo Fofi: Ingmar Bergman è stato anche un grande scrittore. Uno che conosceva l’arte del racconto, che è l’arte di raccontare non le cose, ma l’aria intorno alle cose (nel cinema quell’aria è la luce – “la luce dolce, pericolosa, sognante, viva, morta, chiara, nebbiosa, calda, violenta, nuda, cupa, improvvisa, primaverile, verticale, obliqua, sensuale, velenosa, serena, luminosa: la luce”). Uno scrittore frontale e risoluto, che dubita mentre scrive e accetta di dubitare insieme al lettore. Uno scrittore che si prende spesso una pausa dall’incalzare dei fatti per domandarsi: “E’ possibile descrivere una cosa del genere? I personaggi e le persone hanno la possibilità di essere messe a parte della verità? Nessuno sa, tutti vedono”.

  
Insomma, a distanza di trent’anni dall’uscita italiana dell’autobiografia Lanterna magica val davvero la pena riscoprire la produzione letteraria di Bergman, e soprattutto in un momento come questo, in cui la letteratura rischia di svalorare nel capriccio esornativo, nell’orpello estetico, e di farsi braccio disarmato. Perché, al contrario, la narrativa di Bergman ci ricorda che capire la vita è una battaglia. E che ci sono momenti di sogno e di nostalgia, e frammenti di meraviglia irraccontabili che pur bisogna raccontare, ma è solo attraverso una lucidità efferata che possiamo cavarne qualcosa, fosse anche una confusione un po’ meno confusa. Ecco la parola chiave di tutta la narrativa bergmaniana: urgenza. Intesa non come generica necessità dell’ego, ma come impellenza morale di un uomo che ha usato il racconto fino alle estreme conseguenze e, quindi, anche contro se stesso. E che ha avuto il coraggio di dichiarar fallimento come punto di partenza finendo poi col non volersi rassegnare nemmeno ai propri presupposti: è questo racconto di sé nonostante sé che rende valorosa la sua traiettoria (anche) letteraria.

 
I tre grandi romanzi di Ingmar Bergman sono Con le migliori intenzioni, Nati di domenica e Conversazioni private, editi da Garzanti. Sono tutti diventati film per regie altrui ma non sono nati con l’intenzione di essere trasformati in copioni: sono, a pieno titolo, letteratura. 

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Con le migliori intenzioni racconta l’epica storia dei suoi genitori, cioè dell’incontro tra Heinrik, studente spiantato e poco dotato di Teologia, destinato a diventare pastore, e Anna, ragazza ricca, fatua, perniciosamente dotata di madre oppressiva. Matrimonio osteggiato a lungo ma che alla fine, sullo sfondo di una tetra Uppsala di inizio secolo, si farà eccome, e con tutte le benedizioni, eppure proseguirà tra le maledizioni di mille problemi e crudeltà psicologiche. Bergman racconta seguendo il filo di alcune fotografie ritrovate, poi ricorda e cuce. Laddove non sa, inventa, e segue strade che gli suggerisce il suo istinto di narratore a parziale conoscenza dei fatti.

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E siccome anche l’infanzia è un’invenzione, ecco un luminoso luglio degli anni Venti: con Nati di domenica Bergman racconta la vita di Pu, e reinventa se stesso bambino nell’amata e sgangherata dimora familiare in Dalecarlia, semibaracca in precarie condizioni eppure luogo di assolati incanti (poi un giorno qualcuno dovrà scrivere anche di questo Bergman: naturale, mozartiano, che racconta l’estate come nessuno e compone elegie spensierate per ruscelli, boschi e baie). Il racconto è una lanterna magica di impressioni e sinestesie, sentimenti disperati e gioie travolgenti, ed è quello in cui Bergman è letterariamente più mimetico nella ricostruzione dei ricordi, dei fantasmi e delle sensazioni di un’infanzia – la sua – insospettabilmente felice. “La fantasia e i sensi ricevevano nutrimento e io non ricordo di essermi mai annoiato. I giorni e le ore esplodevano di stranezze, scene inaspettate, istanti magici”. Al centro del romanzo, il viaggio col padre, pastore luterano, verso Grånäs per celebrare una messa solenne. Il viaggio, che comincia in bici e finisce in treno, renderà Pu un uomo, cioè un essere consapevole di essere annodato al mistero e alla complessità delle cose, compresa quella che condannerà il rapporto tra i suoi genitori. 

 
Rapporto centrale in Conversazioni private, capolavoro di scrittura e di esplorazione interiore che mescola stilemi letterari e teatrali. Si sviluppa in cinque conversazioni ed esplora la crisi esistenziale, sessuale e sentimentale dei genitori di Bergman attraverso le confessioni della madre Anna, che ama un giovane studente e tradisce il marito. Un testo come non se ne leggono quasi mai, che fa male fisicamente, affronta dilemmi morali fondamentali e sfida la forma e la sostanza di ciò che è stato e non è stato. Perché è letteratura di fantasmi, quella di Bergman, che scava per rinvenire, segnata dalla necessità di raccontare così come di immaginare. E’ letteratura di ipotesi, in cui le versioni si tentano e le risposte si trovano solo rimodulando di continuo le domande, provando a eludere, attraverso la partita narrativa, non solo lo scacco della Morte, ma lo scacco di tutte le morti che scontiamo nel confronto con le forze vive e terribili dell’esperienza, proprio mentre tentiamo di essere all’altezza di una morale.

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Cruciali, nei tre romanzi bergmaniani, sono sempre i confronti diretti. Un colpo mortale a testa: dialoghi secchi e fatali, oscillanti tra universale e particolare, tra aspra vicissitudine e limpida speculazione, tra l’io e il Tutto, tra determinazione e ipotesi, tra volontà e negazione. Ma non è tutto: è anche scrittore di personaggi, Bergman, raccontatore di allegre pletore parentali e divertito spettatore delle vite degli altri, dotato di impareggiabile ironia di tratto. In agguato, però, c’è sempre un orologio. Sempre un ticchettio che sgrana le ore e i minuti, ossessivamente, e se non è un campanile è una pendola o, chissà, “l’orologio del vestibolo”. E sono tutti lì, tutti tampinati dal tempo che lavora, fa e disfa, l’ammonimento è costante e così ogni personaggio sembra sempre danzare su quella scacchiera, la scacchiera del Settimo Sigillo, la scacchiera della sfida alla Morte che risponde con la stessa mossa. E intanto si vive. Cioè ci si illude e si cerca la verità allo stesso modo – ciecamente – e ci si aggrappa a se stessi, si tiene vivo il lumicino delle domande perché una partita è una partita e la partita è la vita, e “ci sarà distanza, crepuscolo, pallore dei visi, ma nonostante tutto si respira, nonostante tutto il polso batterà ancora”.
  

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