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il foglio del weekend

La mistica del dandy

Edoardo Rialti

Un nuovo libro svela il mistero dell’uomo con la vestaglia rossa dipinto da Sargent. L’estetismo dell’Ottocento anticipa la dittatura di Instagram

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"Gran Danger du Mort”. E’ questo il monito nei cartelli che accompagnavano i primi tapis-roulant alla grande Esposizione di Parigi del 1900. Si era sulla soglia di un mondo nuovo, percorso da energie vertiginose che finalmente potevano essere aggiogate. Nei vent’anni successivi, qualsiasi occidentale del ceto medio-basso avrebbe goduto di lussi inimmaginabili per un monarca di mezzo secolo prima, dalla luce elettrica in casa all’acqua corrente. Eppure nell’aria gravava anche un senso di perdita, il progresso non minacciava solo di uccidere il corpo – come avrebbe dimostrato fin troppo bene – ma anche la vita dello spirito. E’ questa precarietà a percorrere tante delle opere di allora, a incombere sull’orizzonte delle coscienze artistiche. E’ risaputo, vulgata scolastica, che Verlaine si sentiva come l’Impero alla fine della decadenza “che guarda passare i grandi barbari bianchi”. E D’Annunzio, che pure corteggiava l’ebbrezza delle innovazioni tecnologiche, temeva “il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente”. Fu appunto nel campo magnetico tra i poli di questo periodo unico che sbocciò la reazione culturale dell’estetismo, che affermò in modo definitivo anche il sotto-culto del dandy (persino Verga avrebbe voluto concludere il ciclo che iniziava coi Malavoglia approdando all’Uomo di Lusso), e sono questi due orizzonti artistici e di costume – entrambi così difficili da definire, “il dandismo è una istituzione vaga, bizzarra come il duello”, scrisse Baudelaire – gli oggetti d’indagine de L’uomo con la vestaglia rossa di Julian Barnes (Einaudi). Vi si racconta un mondo di seduttori dell’alta società che visitavano le amanti “seguendo un sistema di rotazione talmente rigido che i cavalli sapevano a quale indirizzo fermarsi senza bisogno che il cocchiere li sollecitasse”, di giovani poeti capaci di sfidarsi (letteralmente) a duello per il peso di Sarah Bernardt o di morire dopo aver chiesto a qualche grande idolatrato come Zola o Flaubert: “Avete letto il mio libro?”. Ma quel mondo elegante nel quale si diffondono Wagner e James e Darwin è anche quello antisemita dell’affare Dreyfus, e a ripercorrerlo nei suoi moti grandi e piccoli sono tante le affinità profonde che si notano con l’oggi, o i semi di quanto trionfa nel mondo contemporaneo su scala assai più vasta, a partire dal primo effettivo forgiarsi della stesse società dell’immagine, sempre che si eviti tentazione perenne di colmare le lacune con proiezioni semplicistiche. Barnes sa che “il passato è muto per volontà divina, ma spesso ci comportiamo come se fosse muto per volontà criminosa”.

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"Gran Danger du Mort”. E’ questo il monito nei cartelli che accompagnavano i primi tapis-roulant alla grande Esposizione di Parigi del 1900. Si era sulla soglia di un mondo nuovo, percorso da energie vertiginose che finalmente potevano essere aggiogate. Nei vent’anni successivi, qualsiasi occidentale del ceto medio-basso avrebbe goduto di lussi inimmaginabili per un monarca di mezzo secolo prima, dalla luce elettrica in casa all’acqua corrente. Eppure nell’aria gravava anche un senso di perdita, il progresso non minacciava solo di uccidere il corpo – come avrebbe dimostrato fin troppo bene – ma anche la vita dello spirito. E’ questa precarietà a percorrere tante delle opere di allora, a incombere sull’orizzonte delle coscienze artistiche. E’ risaputo, vulgata scolastica, che Verlaine si sentiva come l’Impero alla fine della decadenza “che guarda passare i grandi barbari bianchi”. E D’Annunzio, che pure corteggiava l’ebbrezza delle innovazioni tecnologiche, temeva “il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente”. Fu appunto nel campo magnetico tra i poli di questo periodo unico che sbocciò la reazione culturale dell’estetismo, che affermò in modo definitivo anche il sotto-culto del dandy (persino Verga avrebbe voluto concludere il ciclo che iniziava coi Malavoglia approdando all’Uomo di Lusso), e sono questi due orizzonti artistici e di costume – entrambi così difficili da definire, “il dandismo è una istituzione vaga, bizzarra come il duello”, scrisse Baudelaire – gli oggetti d’indagine de L’uomo con la vestaglia rossa di Julian Barnes (Einaudi). Vi si racconta un mondo di seduttori dell’alta società che visitavano le amanti “seguendo un sistema di rotazione talmente rigido che i cavalli sapevano a quale indirizzo fermarsi senza bisogno che il cocchiere li sollecitasse”, di giovani poeti capaci di sfidarsi (letteralmente) a duello per il peso di Sarah Bernardt o di morire dopo aver chiesto a qualche grande idolatrato come Zola o Flaubert: “Avete letto il mio libro?”. Ma quel mondo elegante nel quale si diffondono Wagner e James e Darwin è anche quello antisemita dell’affare Dreyfus, e a ripercorrerlo nei suoi moti grandi e piccoli sono tante le affinità profonde che si notano con l’oggi, o i semi di quanto trionfa nel mondo contemporaneo su scala assai più vasta, a partire dal primo effettivo forgiarsi della stesse società dell’immagine, sempre che si eviti tentazione perenne di colmare le lacune con proiezioni semplicistiche. Barnes sa che “il passato è muto per volontà divina, ma spesso ci comportiamo come se fosse muto per volontà criminosa”.

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L’eroe – in senso aristotelico – del libro è il dottor Samuel Pozzi ritratto da John Singer Sargent nel 1881. Uomo di grande bellezza e carattere solare, seduttore per tutta la vita e primo titolare della cattedra di ginecologia. Sarah Bernardt, sua amica e amante, lo chiamava Doctor Dieu, ed egli la volle come modella per il grande dipinto La Salute affrescato nel suo ospedale, che comprendeva “innovazioni stupefacenti come una sala con il cloroformio dove le pazienti venivano anestetizzate prima di essere sottoposte a un intervento”. Opposto dell’accademico di potere che si appropria delle pubblicazioni dei ricercatori, accettò di scrivere per giovani come Alexis Carrell per conferire loro peso accademico. Suo assistente era il fratello di Marcel Proust, e certe operazioni vennero ribattezzate proustectomie. Persino la sua dipartita fu all’altezza del personaggio, assassinato da un paziente disturbato che voleva essere curato per l’impotenza, spirando dopo aver discusso della propria operazione di salvataggio col collega chirurgo. Molti anni prima, quand’era ancora il giovane avvenente del ritratto, si era recato in Inghilterra per visitare Henry James ed effettuare acquisti alla moda in compagnia di due amici con “tendenze elleniche”, il principe Polignacq (“una prigione dismessa e convertita in biblioteca”, lo definì Proust) e il celebre conte di Montesquieu, colui che a detta dei contemporanei possedeva “lo smalto dell’eternità”, il modello di eleganza, sprezzatura, e aristocrazia che a sua volta era stato ritratto da Whistler e Boldini e che avrebbe ispirato il saturnino Des Esseints nel Controcorrente di Huysmans, il Monsieur de Phocas di Jean Lorrain e persino il Barone di Charlus nella Recherche dello stesso Proust. A sua volta, Controcorrente costituirà il misterioso libercolo che corromperà definitivamente Dorian Gray nel romanzo di Wilde, il quale aveva letto Huysmans in viaggio di nozze e si troverà a rispondere in tribunale molti anni dopo, durante il processo per sodomia.

   

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Al centro di questa suggestiva ragnatela sta dunque una nuova icona moderna, quella di un uomo che non si limita a collezionare o realizzare opere d’arte, ma egli stesso ambisce a incarnarne una, non semplice modello ma quadro vivente. Lord Brummel era già stato oggetto d’una biografia di D’Aurevilly (l’estetismo, che predilige i rituali, le forme e le gerarchie è sempre stato amato da cattolici e conservatori, Bloy ieri, Houellbecq oggi, che non a caso ha fatto del protagonista di Sottomissione uno studioso di Huysmans) e certamente Ruskin e Pater ne erano stati i padri quantomeno teorici nella generazione precedente (“Ardere sempre di questa salda fiamma gemmea, mantenere quest’estasi, è il successo nella vita” era una delle ultime frasi degli studi sul Rinascimento di Pater, che però rimase per tutta la vita un rispettabile e baffuto docente oxoniense dalla voce di miele) e William Morris a sua volta insegnava che ci si può vestire e aggirare in ambienti che attingano a epoche e fogge lontane dal grigiore borghese, con i colori e la ricchezza del medioevo preraffaellita, ma il principale modello restava Lord Byron, bello e maledetto come i suoi pirati e aristocratici.

   

Il dandy, per Baudelaire che vestiva sempre di nero (anche quando faceva a cazzotti in piscina), costituiva “l’ultimo bagliore di eroismo in tempo di decadenza”, ma è Wilde a esprimere, in un passaggio del Dorian, la radice spirituale del movimento estetico stesso, il sogno di un mondo rinnovato: “Nulla ci appare mutato. La vita che conosciamo ritorna dalle ombre irreali della notte e dobbiamo riprenderla al punto dove l’avevamo lasciata. Si insinua in noi un senso terribile della necessità di continuare a spendere la nostra energia nella identica serie monotona di abitudini stereotipate, e magari un desiderio violento che le nostre palpebre possano aprirsi una mattina su un mondo che nell’oscurità sia stato rimodellato per la nostra gioia, su un mondo nel quale le cose abbiano nuove forme e nuovi colori e sian cambiate o abbiano nuovi segreti, su un mondo nel quale il passato occupi ben poco spazio o non ne occupi affatto o, comunque, non sopravviva in nessuna forma conscia di obbligo o di rimpianto, poiché c’è un’amarezza anche nella rimembranza della gioia e una pena nel ricordo del piacere”. In quegli stessi anni di eleganza e anticonformismo, però, e non sempre da fonti esterne ai salotti letterari, la grande Sarah Bernardt-ebrea, ricca e libera – veniva definita al tempo stesso frigida e puttana, insinuando che Pozzi le avesse inserito una macchina che inumidiva la vagina, l’antisemitismo dominava le testate dei giornali che in Francia ambivano a “smascherare i nemici, i protestanti, alleati con gli ebrei e i massoni contro i cattolici”, ovunque si additavano pratiche sataniche “come prova per dimostrare la fine della civiltà”, ammiratori di Baudelaire e Verlaine commettevano crimini per cui si sentenziava che “la letteratura poteva avvelenare”. Semmelweis lottava disperatamente perché i colleghi medici accettassero di lavarsi le mani prima di operare. Non pare di esserci mossi granché. Ma è pur vero che in molti dei letterati sopracitati era presente un rapporto sadomasochistico con la società borghese loro contemporanea e i suoi valori (i loro eroi immorali dovevano incontrare una rassicurante fine tragica), una tensione passivo-aggressiva per la barbarie moderna, un satanismo che restava sempre una sottobranca del cattolicesimo stesso. Si è già parlato della fascinazione per il conservatorismo sociale e la reazione, cui vanno aggiunti l’onnipresente china del feticismo (D’Annunzio che da amante delle Muse si riduce a custode di un museo, come scrisse perfidamente Praz) e il piattume del pettegolezzo mondano. Jean Lorrain, oggi pressoché dimenticato ma estremamente celebre all’epoca, nelle parole del biografo di Proust “apparteneva a quella tipologia pericolosa di invertito che si sforzava di evitare lo scandalo ostentando una falsa virilità e accusando tutti gli altri di perversione”. Con una tecnica che non è certamente scomparsa da quotidiani e blog “riempiva i giornali con allusione velenose e cattiverie pseudofemminili sulle case che frequentava, sulle case che non frequentava più, e su quelle che non frequentava ancora”. E poi tutto quell’elitismo non era certamente esente dalla volgarità del successo finanziario e mediatico. L’America era paventata e irrisa dai fratelli Goncourt come “la Repubblica federale della materia”, eppure il circo Barnum corteggiava gli artisti, il giovane Wilde vantava i sold out delle conferenze a New York e tutti i nomi che contavano in società comparivano nelle figurine Felix Potin, nell’incarto delle tavolette di cioccolato. E’ il salto quantico che trasforma l’immagine, anche dello scrittore, in un marchio, che fa della visibilità una merce. Nelle parole di Barnes, “essere grandi significa andare ben oltre il gusto”. Lo stesso inimitabile Montesquieu, che aveva reagito con sentimenti alterni alle sue trasposizioni letterarie, quando si cimentò a scrivere le proprie memorie partorì un arazzo di scialbi aneddoti, un’imitazione di quegli stessi romanzi. Vita e arte si specchiano malinconicamente ancora una volta, nota Barnes: “Quando è in là con gli anni, il dandy finisce per essere un po’ patetico, il suo senso del gusto si indebolisce, l’arguzia si riduce a malizia, il gruppo di amici fidati viene sfoltito dalla morte o dal tradimento”. E’ forse uno dei passi più commoventi e intensi del conte stesso quando costui constata che “ci si sente messi da parte, stranieri a quella stessa civiltà contemporanea che un tempo si guidava e le cui manifestazioni attuali, piuttosto che ferire o scioccare, appaiono vuote e vane”. Molti, anche in seguito, non hanno avuto la lucidità di ammetterlo, è fin troppo nota la figura dell’eroe culturale d’una generazione che bofonchia maligno e stizzito sulla fiacchezza dei nuovi e dei giovani. Ed è proprio questa dinamica a ripetersi ancora e ancora, e che costituisce in fondo uno degli elementi più vitali dell’estetismo tardo-ottocentesco ancora oggi, il quadro che non è assicurato dalla riproposizione di alcuna cornice, uno dei fondamentali motivi per cui le opere più grandi di Wilde, Huysmans, la gran cattedrale di Proust non sono semplicemente una summa teologica di eleganza retro, e che per attingere alla loro forza non bastano madeleine e Schumann nel giradischi. E’ la sottile, decisiva differenza tra comunicarsi e disperdersi nel discorso collettivo. Nei suoi diari Baudelaire già ammoniva che la nuova prostituzione sarà quella dell’immagine e del suo rendiconto economico, anticipando di oltre un secolo un mondo dove conta più avere follower che portarsi a letto il politico di turno: “Allora, il figlio fuggirà la famiglia, non a diciott’anni, ma a dodici, emancipato da un’ingorda precocità; la fuggirà, non per cercare delle avventure eroiche, non per liberare una bellezza prigioniera in una torre, non per immortalare una soffitta con dei sublimi pensieri, ma per aprire un commercio, per arricchirsi, e per far concorrenza al suo infame papà, – fondatore e azionario d’un giornale diffonderà i lumi e che farà considerare Le Siècle di allora come un agente della superstizione. – Allora, le randagie, le declassate, quelle che hanno avuto qualche amante, e che chiamiamo a volte angeli, in ragione e grazie alla sventataggine che brilla, luce dell’azzardo, nella loro esistenza logica come il male, – allora, quelle, dico, non saranno altro che spietata saggezza, saggezza che condannerà tutto, tranne il denaro, tutto, pure gli errori dei sensi! – Allora, ciò che somiglierà alla virtù, – che dico, – tutto ciò che non sarà l’ardore per Pluto sarà reputato un immenso ridicolo”. Tutto questo è stato pienamente abbracciato dall’estetismo superficiale che domina quantomeno – e ovviamente non solo – la società occidentale, ma non c’è travisamento e banalizzazione peggiore di quella che era un’aspirazione ben più profonda, e che fu espressa da un irlandese tutt’altro che dandy come C. S. Lewis: “E se le storie falliscono, la vita non commette forse lo stesso errore? Nella vita reale qualcosa deve succedere, come nelle storie. E’ questo il problema. Noi miriamo a uno stato e troviamo solo una successione di eventi nei quali quello stato non si incarna mai del tutto”. E’ il desiderio che la vita non fallisca, che la qualità dell’arte arrivi a contagiare l’esistenza quotidiana stessa, le sue scelte, i suoi gesti, che l’ordinario si faccia stile (e ciò comprende anche una radicale dimensione socio-economica, a sua volta totalmente esorcizzata dall’edonismo capitalista ma ben nota a Morris e Wilde). “Avvolto in metrica, avvinto in disciplina”, scriveva Julia Barnes. Non il verso, ma l’uomo. Per questo, nella generazione immediatamente successiva a quella di D’Annunzio e Proust, il nuovo vero dandy non fu qualche loro affettato imitatore col fazzoletto a pois, ma il lurido Cèline, eppoi la fiaccola passerà tanto a Vivienne Westwood e i suoi abiti così come a Ritsos che regge una sigaretta o al dito medio di Joe Strummer fotografato da Bj Papas. “L’anima che dispensa / furlana e rigodone a ogni nuova / stagione della strada… la tua voce è quest’anima diffusa”, scriveva Montale. A ogni nuova stagione. La fedeltà sempre rinnovata, semper reformanda, allo sbocciare effettivo di tale voce in ogni aspetto della vita, questo è l’estetismo. E’ un’ascesi che, come esplicitò lo stesso Wilde martoriato in carcere, si oppone alla vacuità risposante del già saputo e aspira alla giustezza del compiuto: “La Verità nell’Arte non esprime alcuna corrispondenza tra l’idea essenziale e l’esistenza accidentale; non è la somiglianza della forma all’ombra, o della forma riflessa nel cristallo alla forma stessa: non è l’Eco che viene da una collina cava, né la fonte di acque argentee nella valle che mostra la Luna alla Luna e Narciso a Narciso. La Verità nell’Arte è l’unità di una cosa con se stessa, l’esteriore fatto espressione dell’interiore, l’anima incarnata, il corpo permeato dallo spirito. Per questo motivo non esiste verità paragonabile al Dolore. Ci sono momenti in cui il Dolore mi sembra la sola verità” Contro la brandizzazione dell’immagin.e occorre remare ancora “controcorrente”, preferire il trappismo della perfezione, come lo chiamava Cristina Campo che comprendeva bene la diffidenza tribale per le foto che succhiano l’anima.

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