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“Via lo ‘Schiaccianoci’, dentro Black Lives Matter”. L'Opera di Parigi vuole "decolonizzarsi"

“C'è un odio per la cultura classica”, ci dice Isabelle Barbéris, autrice del libro "L'art du politiquement correct"

Giulio Meotti

Il nuovo direttore Alexander Neef ha lasciato intendere che, per far spazio alla "diversity", il repertorio di Rudolf Nureyev sarà rivisto 

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Si intitola “De la question raciale à l’Opéra national de Paris” il manifesto con cui, sulla scia di Black Lives Matter, quattrocento dipendenti dell’Opera di Parigi chiedono “diversità” nella trecentenaria istituzione. Il caso George Floyd li ha motivati. L’arrivo del nuovo direttore ha fornito l’occasione. Alexander Neef viene da Toronto, dove ha diretto la Canadian Opera Company, e in tutto il Nordamerica il multiculti è pervasivo anche in campo artistico. Così nella “Bayadère” la “Danza dei negri” è diventata la “Danza dei bambini”. Basta “pratiche dal patrimonio coloniale o schiavista”. Un’inchiesta del Monde racconta che Neef prefigura la scomparsa di “certe opere” volute da Rudolf Nureyev, direttore della danza all’Opera di Parigi dal 1983 al 1989. Neef fa i nomi, da “Il lago dei cigni” allo “Schiaccianoci”. “Alcune opere scompariranno senza dubbio dal repertorio”, dice Neef. Il direttore ha chiesto a un gruppo di esperti di riflettere sul “balletto bianco, archetipo del balletto classico che richiede un corpo di ballo omogeneo”. Sono i balletti in tutù che abbondano nelle opere musicate da Pëtr Ilicč CČajkovskij.

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Si intitola “De la question raciale à l’Opéra national de Paris” il manifesto con cui, sulla scia di Black Lives Matter, quattrocento dipendenti dell’Opera di Parigi chiedono “diversità” nella trecentenaria istituzione. Il caso George Floyd li ha motivati. L’arrivo del nuovo direttore ha fornito l’occasione. Alexander Neef viene da Toronto, dove ha diretto la Canadian Opera Company, e in tutto il Nordamerica il multiculti è pervasivo anche in campo artistico. Così nella “Bayadère” la “Danza dei negri” è diventata la “Danza dei bambini”. Basta “pratiche dal patrimonio coloniale o schiavista”. Un’inchiesta del Monde racconta che Neef prefigura la scomparsa di “certe opere” volute da Rudolf Nureyev, direttore della danza all’Opera di Parigi dal 1983 al 1989. Neef fa i nomi, da “Il lago dei cigni” allo “Schiaccianoci”. “Alcune opere scompariranno senza dubbio dal repertorio”, dice Neef. Il direttore ha chiesto a un gruppo di esperti di riflettere sul “balletto bianco, archetipo del balletto classico che richiede un corpo di ballo omogeneo”. Sono i balletti in tutù che abbondano nelle opere musicate da Pëtr Ilicč CČajkovskij.

 
La Francia, l’Europa in generale, si sta americanizzando. Dopo la decolonizzazione dei film, dei musei e delle università, è il momento di “decolonizzare le arti”. Compresa la musica classica. Il New York Times accusa le orchestre sinfoniche di essere “le istituzioni meno diversificate” e di nascondere “un problema di razzismo”, mentre New Music Usa afferma che “la musica classica è intrinsecamente razzista”. Grandi opere sono già in corso di revisione. Al Compagnietheater di Amsterdam è andata in scena una versione ripulita de “Il flauto magico” di Mozart, dopo che la regista Lotte de Beer vi ha scoperto espressioni razziste e misogine. Il Gran Teatre del Liceu di Barcellona ha riscritto “Il viaggio a Reims” di Rossini, sostituendo la parola “croce” con “amore”, mentre al Maggio Fiorentino è la “Carmen” di Bizet a uccidere Don José.

 
Alla Sorbona, la messa in scena de “Le supplici” di Eschilo è stata impedita da attivisti indigenisti, che avevano protestato contro le maschere indossate dagli attori bianchi. Laurent Dubreuil, critico letterario francese che insegna alla Cornell University, negli Stati Uniti, ha pubblicato per Gallimard un saggio tanto breve quanto potente, “La Dictature des identités”, dove spiega che avere un’identità significa ormai avere un’identità di vittima, sofferente, oppressa, traumatizzata, dominata. Da qui l’idea di rivedere il repertorio dell’Opera di Parigi. “Il revisionismo ideologico che pretende di ‘decolonizzare la cultura’ è un odio per la cultura in senso lato: della cultura classica, umanista e moderna”, dice al Foglio Isabelle Barbéris, autrice de “L’art du politiquement correct” (Presses Universitaires de France). “Umanista, perché gli antichi non sono più modelli di saggezza ma sospetti a priori. Moderna, perché il risentimento vendicativo è incompatibile con idee come illuminismo, progresso, creazione, educazione. In Francia questo nega anche la nostra cultura repubblicana, per la quale l’emancipazione attraverso le arti si basa su un’aspirazione universalista. Il primo rischio è quello di un’inflazione di razzismo e di atomizzazione sociale e culturale, perché il presunto rimedio è peggiore del male. Che si voglia processare il passato è molto perverso”. E’ un desiderio di “trasformare l’arte in ingegneria sociale”. Come nell’Unione Sovietica, da cui fuggì proprio Rudolf Nureyev. 

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