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Gialli letterari

Morte a trieste: l'omicidio Winckelmann

Giuseppe Marcenaro

Johann Joachim Winckelmann fu bibliotecario, storico dell’arte, il più rinomato esteta del Settecento. La sua uccisione resta piena di misteri. Un nuovo libro la illumina

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La mattina dell’8 giugno 1768 l’urlo della servante dilagò improvviso. Nella camera numero nove, riverso sul letto, “tutto insanguinante”, aveva scoperto il corpo del “distinto signore” che da una settimana alloggiava alla rinomata Osteria Grande, affacciata sulla piazza San Pietro nei pressi del Mandraccio di Trieste.

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La mattina dell’8 giugno 1768 l’urlo della servante dilagò improvviso. Nella camera numero nove, riverso sul letto, “tutto insanguinante”, aveva scoperto il corpo del “distinto signore” che da una settimana alloggiava alla rinomata Osteria Grande, affacciata sulla piazza San Pietro nei pressi del Mandraccio di Trieste.

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All’occhiata di un cerusico subito accorso, il signore si trovava proprio a mal partito. Il volto sempre più turchino, sul punto di entrare nell’altra dimensione. La stanza numero nove affollata dal trambusto: Teresia Paumeister di Graz e Eva Tusch, serve urlanti attizzate dalla cuoca in giaculatorie incomprensibili. E Francesco Richter originario d’Olomutz, padrone dell’Osteria Grande, lamentoso per il buon nome, dopo quel fatto, perduto dal suo auberge. Gli sbirri intanto arrivati e il frate con il viatico che comunque, a buon fine, qualcuno aveva convocato. Sentendosi tutta quella folla sulle spalle, il cerusico non faceva che urlare “Largo che passi l’aria”, raccomandandosi intanto ai santi padri che lo guidassero a tamponare le ferite a un corpo che aveva tra le mani.

 

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Intendeva intanto tramestii di borse rovesciate. Mani frugavano in cerca d’un segno che portasse all’identità dal malcapitato. A un certo punto il cerusico mentre stava cercando di tamponare quel pasticcio sanguinolente in cui stava trafficando, intese qualcuno che scandiva un nome: Johann Joachim Winckelmann. Nessuno era in grado di dire chi fosse e quale la ragione che l’aveva portato a fermarsi a Trieste, trovando alloggio all’Osteria Grande. Un personaggio di rilievo, certo. In quei giorni triestini qualcuno doveva averlo pensato. Non foss’altro per il vistoso anello vescovile con ametista che spiccava sulla sua bianchissima mano.

 

A Trieste tuttavia era un signore totalmente in incognito. Il nefasto fatto, con un vivace pettegolezzo, dilagò per le rive. “E’ stato amazà un nell’Osteria Grande”. Talché gli sfaccendati da caffè, in mezz’ora erano tutti in piazza a commentare. Arrestato quasi subito l’assassino risultò tal Francesco Arcangeli, di bassi parenti, nativo di Campiglio, villaggio del pistoiese, cuoco e servitore, a Trieste in cerca di fortuna, capitato all’Osteria Grande, nella stanza accanto a quella del delitto. “Ha voluto la sorte che il sublime investigatore delle arti e dell’antichità si trovasse nella medesima locanda con un miserabile cuoco, che abitassero due camere contigue per vincere colla materiale loro prossimità l’immensa distanza del rispettivo carattere morale, e per instabilir, almeno apparente, una relazione tra due uomini così diversi et eterogenei”.

 

Come Winckelmann fosse interessato alla persona di quel pistoiese, dalla fronte bassa, occhi scuri, nere ciglia, naso curvo, è mistero. Solo l’amore stregone, el amor brujo, è capace di combinare tresche incongrue. Forse. Johann Joachim Winckelmann era nato il 9 dicembre 1717 a Stendal, nel Margraviato del Brandeburgo. Famiglia umilissima: il padre Martin era calzolaio. Vivendo una fanciullezza segnata dagli stenti e dalla miseria, Johann Joachim con una inimmaginabile forza di volontà e abnegazione riuscì a superare gli ostacoli che gli impedivano un regolare corso di studi. Per la vivace intelligenza si segnalò al Koellnisches Gymnasium di Berlino che gli consentì d’essere ammesso all’Altstädtisches Gymnasium di Salzwedel per poi dedicarsi a vent’anni nell’università di Halle allo studio della Teologia, possibile strada verso il sacerdozio da cui fu però depistato dalla curiosità e dal culto per la classicità greca, e probabilmente da inconfessate e non espresse pulsioni per “il bello” nelle forme più estetizzanti che perseguì seguendo le lezioni di Alexander Gottlieb Baumgarten, il celebrato filosofo che coniò il termine “estetica”.

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Ma anche quell’universo a Winckelmann, goloso di sapienza, non doveva bastare: abbandonò l’università di Halle e passò quella di Jena, per studiare Medicina. Lo attraevano, oltre alla bellezza, anche i misteri e le pulsioni del corpo umano. Distratto da segreti e maliziosi lampi del profilo greco di qualche compagno di studi. L’interiorità estetica sua, vissuta fors’anche febbrilmente, era tuttavia “disturbata” dal central problema: Johann Joachim era sempre costretto a confrontarsi con la mancanza di mezzi adeguati a perseguire i “vari piani” – ideali e formali – di conoscenza che dilagavano per cerchi concentrici. Viveva una forsennata aspirazione: perseguire la propria essenza insinuata da una vorace febbre di esperienze estetiche. Fu costretto ad accettare un posto di precettore presso la famiglia Lamprecht, a Hadmersleben.

 

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Di lì a poco riuscì a ottenere l’incarico di rettore associato presso la Scuola di Seehausen, ad Altmark. E soltanto a trentasette anni, senza aver completato alcun corso di studi, grazie alla diffusa notorietà della sua cultura, trovò finalmente una professione adeguata alle sue vocazioni: bibliotecario presso il conte dell’impero Heinrich von Bünau a Nöthnitz, nei pressi di Dresda. Deve essere stato per Winckelmannl un periodo appagante. “Dominava” una biblioteca di oltre quarantamila volumi. Poteva finalmente soddisfare la sua fame insaziabile di letture. E soprattutto coltivare una rete di conoscenze e di rapporti che gli gioverà in futuro. In un ambiente colto e aristocratico com’era quello del conte Heinrich von Bünau, Winckelmann, divorando i testi di Omero, Sofocle, Erodoto, Platone e Senofonte, animato da quei maestri trovò una propria identità.

 

Già da allora che emanava anche nell’aspetto “nobile semplicità e quieta grandezza”: la medesima che si coglie nel ritratto che gli fece Mengs. Il medesimo artista che dipinse, nella magniloquenza degli abiti, il ritratto del cardinale Alberico Archinto che, nunzio in Polonia, aveva accolto Winckelmann nella sua ristrettissima cerchia di raffinati esteti. Il cardinale non soltanto lo convinse a convertirsi al cattolicesimo ma anche a seguirlo a Roma. Impossibile non immaginare la contemplazione del bello senza un Winckelmann rapito, nel Cortile del Belvedere, in un serrato rapporto tra l’estetica e la sensualità, in ammirazione, del gruppo del Laocoonte, di Antinoo e dell’Apollo: “Una primavera perenne riveste di amabile giovinezza la sua matura affascinante virilità e aleggia con grazia delicata sulla superba struttura delle sue membra”. Winckelmann intendeva rimanere in Italia solo per due anni, per poi fare ritorno a Dresda: lo scoppio della guerra dei sette anni, nel 1756, gli impedì di partire.

 

Rimasto a Roma, dopo la morte dell’Archinto, Winckelmann, ebbe la protezione del cardinale Alessandro Albani, grazie alla cui benevolenza e le giuste presentazioni, acquistata la fama di grande esteta, Winckelmann entrò nell’empireo degli incarichi dello Stato della Chiesa assumendo eminenti responsabilità: antiquario della Camera Apostolica, scrittore della Biblioteca Vaticana, e soprattutto prefetto delle Antichità di Roma. Ebbe un alloggio in un appartamento all’ultimo piano del palazzo della Cancelleria. Prolifico in scrittura, completò e pubblicò “Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura”, saggio fondamentale per lo sviluppo del Neoclassicismo; la storia dell’arte nell’antichità e i due volumi “Monumenti antichi inediti” contenenti illustrazioni scientifiche sulle antichità di Roma.

 

Winckelmann divenne un punto di riferimento specialmente nell’ambito dei circoli romani, i quali lo spronavano a prestarsi come guida a quei giovani aristocratici sospinti dal desiderio di conoscere il mondo archeologico della Città Eterna. Fare esperienze “estetiche”. Il superbo antichista curava con attenzione il proprio aspetto. E ai rampolli degli aristocratici europei che nell’ambito del Gran Tour di education approdavano a Roma, disposto a far loro da iniziatore ai sublimi linguaggi dell’arte classica, Winckelmann si presentava nel suo più scenografico aspetto: il medesimo in cui lo colse Angelica Kauffmann nel ritratto che gli fece nel 1764, oggi custodito al Kunsthaus di Zurigo. Il volto quello di un giovane uomo, la fronte alta, lo sguardo attonito e profondo.

 

Il tocco chic di una sciarpa floscia color oro che porta attorno al collo. Sistemata con i due lembi penduli, alla stessa maniera di come oggi portano le sciarpe flosce sulla camicia aperta, certi elegantoni snob. Winchelmann è nell’atto di scrivere su un grande brogliaccio. La penna sospesa in attesa del pensiero sublime da trasferire sulla carta. Abbiamo anche un attendibilissimo testimone diretto che può fornire qualche tratto dell’uomo Winckelmann: “Era un avventuriero della cultura, in lui nulla era più lontano dalle comunicazioni di tipo accademico. Non rimaneva a lungo in nessun posto. Doveva andare… L’uomo era un perfetto estroverso e aveva la vocazione a rappresentarsi”. Il testimone è nientemeno che Goethe il quale “racconta” Winckelmann a Eckermann. “Non si impara nulla quando lo si legge, ma si diventa qualcosa. L’azione stimolante dei suoi scritti, il loro valore formativo più che informativo, allude alla vitalità che ne anima ogni riga. Ogni riga di Wincklemann lascia intravedere l’incognito”.

 

Soprintendente alle antichità di Roma, nel 1764, il 12 maggio 1768 Winckelmann si recò in Germania e poi a Vienna, dove venne accolto con grandi onori dall’imperatrice Maria Teresa e dalla corte imperiale, ricevendo in dono alcune medaglie d’oro e d’argento. Sulla via del ritorno il 1° giugno 1768 in incognito si fermò a Trieste. Avrebbe atteso una nave che lo portasse ad Ancona e da lì raggiungere Roma. La sosta triestina gli fu fatale: la mattina dell’8 giugno 1768 il vicino di camera, Francesco Arcangeli, lo accoltellò brutalmente. Mortalmente ferito, Johann Joachim Winckelmann morì sette ore dopo l’aggressione. Sulla vicenda un recente volume con i contributi di diversi autori è stato pubblicato dalle Edizioni Università di Trieste: “Trieste 1768: Winckelmann privato”, a cura di Maria Carolina Foi e Paolo Panizzo. In breve si conobbe la meccanica del fatto. Ricostruita dal feritore e unico teste. Un adescamento messo in atto da Winckelmann, o come altri sostenne che l’Arcangeli, abbrascato per il denaro, avrebbe voluto sottrarre all’illustre le medaglie (che certo doveva avergliele mostrate per chissà quale ragione) donategli dall’Imperatrice? Andata nella maniera nota, col morto, il tribunale sentenziò per l’Arcangeli la pena capitale della ruota e il bruciamento del corpo con la dispersione delle ceneri al vento.

 

Dispregio quest’ultimo riservato per legge ai sodomiti. Il cerusico che aveva tentato di salvare la vita di Winckelmann, uomo di fede e pietà, seguì da un angolo della piazza l’esecuzione dell’Arcangeli. Il condannato gridava come un ossesso, issato sulla ruota a testa in giù e squartato. E giustizia fu compiuta proprio davanti all’Osteria Grande, di modo che il reo portasse con sé, ultima immagine di questo mondo, il teatro del suo crimine. I buoni cittadini di Trieste, sia pur totalmente incolpevoli, non riuscivano a levarsi dal petto l’angoscia che proprio nella loro città si fosse compiuta drammaticamente la vita del più rinomato esteta del Settecento. Ci impiegarono quarant’anni a digerire il lutto.

 

Desideravano che almeno, in forma di esorcismo, si dovesse dar degna sepoltura ai resti di cotal personaggio. Si pensò a un avello all’interno della cattedrale di San Giusto: progetto abbandonato a causa delle soprattutto non dette, ma bisbigliate sottoragioni riguardo alla “sospettata condotta” dell’esteta. Finalmente si arrivò ad accogliere il monumento funebre in un nicchione nel Cimitero superiore. E quando si trattò di riesumare i resti di Winckelmann, per degnamente collocarli nel monumentale sacello, nessuno era più in grado di individuare il luogo dove l’illustre fosse stato sepolto. Inumato due giorni dopo la morte nel campo comune della tomba originaria non esisteva alcun segno. E con salma, ossa o polvere, resti casuali, oppure niente, alla considerazione dei viventi, l’onore pubblico e il peso sul cuore dei triestini andava sciolto. Il primo marzo 1833 si inaugurò solennemente una tomba vuota.

 

Quel cimitero subì poi una radicale trasformazione. Adunativi i marmo storici, anche i più insignificanti, le lapidi incise in greco, ebraico, le sculture sbeccate e tutto il rottame marmoreo sparso per Trieste, l’8 giugno 1843, con nel mezzo il cenotafio di Winckelmann, venne aperto quale Orto lapidario, con un allestimento in apparenza casuale, in un disordine ricercato che fa dell’antico luogo di sepoltura un superbo esempio di arrangement style.

 

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