Alberto Moravia in America nell’immagine della copertina di “L’America degli estremi” (Bompiani) 

Moravia l'americano

Michele Masneri

I reportage tra “Nuova York” e San Francisco. Le donne, le autostrade, i pavimenti riscaldati. Alla scoperta del Mondo nuovo. Che nostalgia

Per consolarci di non poter viaggiare, nei tempi grami del Natale solitario in arrivo, per chi generalmente sognava gli Stati Uniti e magari soffre di “mal d’America”, ecco che tornano in libreria i reportage americani di Moravia, scritti in un periodo che va dagli anni Trenta ai Sessanta. Ripubblicati da Bompiani, a cura di Alessandra Grandelis, sono interessantissimi per tutta una serie di motivi: intanto a differenza di altri Moravia parlava l’inglese, leggeva i libri di autori americani, e appunto girava. Non era insomma un americanista salgariano del tipo di quelli che mai si erano recati nel misterioso paese, come Vittorini e Pavese. Poi sono scritti a partire dagli anni Trenta, quel periodo che creerà l’immagine duratura dell’America per gli italiani, e nell’ambiguità politica del momento fiorirà poi tutto quel sentimento controverso degli italiani per gli Stati Uniti. 

Sono anni in cui quasi tutti gli scrittori italiani si cimentano con questo paese lontano e misterioso: c’è “America primo amore” (1935) di Mario Soldati, “Atlante americano” (1936) di Giuseppe Antonio Borgese e “America amara” (1939) di Emilio Cecchi. Ci sono i fan dell’America come Soldati, e gli odiatori come Cecchi. Ma c’è soprattutto l’altalenante giudizio, proprio mentre nascono tutti i cliché: Umberto Eco già sosteneva che l’antiamericanismo eterno che permea l’immaginario italiano a vari livelli è stato plasmato proprio in quel periodo. 

Ed è curioso perché fino a pochi anni prima invece il fascismo aveva flirtato con l’America, e dunque gli scrittori. L’ascesa di Mussolini nel 1922 viene subito vista con favore dalle autorità americane, che vedono nel muscolare Duce un argine al disordine europeo (anche perché l’alternativa era il comunismo). I giornali italiani sono interessati a quel nuovo grande paese. Gli aiuti arrivati dopo la Prima guerra mondiale fanno piacere. La Domenica del Corriere introduce una rubrica, “americanate”, positive good news sugli usi di quella nazione brulicante. Popolo giovane, sorti magnifiche e progressive, eccetera. Sentimenti ricambiati: Mussolini  è popolare negli Stati Uniti, vengono pubblicati i suoi libri, addirittura collabora coi giornali di William Randolph Hearst, un Rupert Murdoch dell’epoca. Poi però arriva l’asse Roma-Berlino, arriveranno le leggi razziali, e gli americani si stufano velocemente, e viceversa. Cambia quindi tutto: l’America che andava benissimo improvvisamente non va più bene. Non più popolo giovane, America uguale alienazione. Poi nel secondo Dopoguerra: altri aiuti, e chewing gum: torna l’amore. 

Relazione complicata, sintetizzata da Arbasino: “L’America l’è amara finché vige il Fascio, la diventa buonissima solo quand’è arrivato il generale Clark e si sono perse anche le mutande grazie al Duce. Poi però Togliatti fa paura, e allora si ricomincia: l’è amara, non l’è amara, e se non la sarà amara, chissà mai cosa sarà”. E del resto, pure oggi, tirando le somme del periodo-Trump, non sembrava riemersa con una certa soddisfazione l’idea dell’America in fondo barbara e marginale? Mentre i sovranisti, poracci, adesso devono odiarla di nuovo, aggiornandosi. 


I resoconti di Moravia risentono di tutta questa ambivalenza: c’è un po’ di condanna morale, un po’ di ammirazione, ma soprattutto stupore, e una lingua modernissima che risolve situazioni e le umanizza sospendendo il giudizio. Quando va al Vassar college a tenere una conferenza, si arrabbia molto perché queste incolpevoli ricche ragazze non sanno chi siano Nievo e Svevo; finalmente una alza la mano, e Moravia è pronto a dare chiarimenti, grato dell’interesse, quando quella invece gli chiede se potrebbe per caso farle da cavaliere nel “prom”, il ballo annuale, perché il suo moroso si è ammalato; e lì si vede Moravia, che è un severo professorino romano nato nel 1907, improvvisamente gettato in un Footlose o college-movie. “Eccomi dunque mutato da professore a cicisbeo”, e forse preso in giro da queste mean girls affluenti “con villa in Florida e panfilo”, e da loro subito spedito a comprare il bouquet, mentre loro ridono alle sue spalle. “Mi spiegò che al ballo avrei dovuto ballare con sedici sue compagne e negli intervalli stare con lei”, scrive, poi bevono tutti molto, prendono la macchina e in mezzo a una tormenta di neve vanno fuori strada (e chissà che avranno pensato i lettori della Gazzetta del Popolo, a cui era destinato questo pezzo, nel ’36).

Forse anche a causa della vicenda e dell’incidente stradale, uno dei più feroci pezzi è quello contro le donne americane. Pensano solo ai soldi, scrive Moravia, sono sempre pronte a divorziare se il marito non guadagna abbastanza, “la donna americana è quale le condizioni della vita nel suo paese l’hanno formata”, il matrimonio è una associazione d’affari,  “concubinaggio legale”. Si sposano molto giovani, sono ignorantissime, e quando diventano vecchie, scrive Moravia, si danno a qualunque tipo di beneficenza con lo stesso zelo con cui in Europa si buttano sulla religione (però Dacia Maraini l’altro giorno in una presentazione del volume al Maxxi ha detto che poi Moravia aveva cambiato idea ed era diventato un po’ femminista. Meno male).

Come l’Alberto Sordi di “Io e Caterina”,  visto come son diventate le femmine moderne, Moravia è tentato di buttarsi su una donna bionica: e dunque ecco una femmina robotizzata, scovata in una specie di discesa agli inferi dello shopping: eccolo vagare, la notte di capodanno, a “Nuova York”, verso “la città bassa”, cioè Downtown, in un grande magazzino Macy’s con “scale a tapis roulant”, e lì imbattersi in un particolare tipo di americano, il collezionista di robot, che lo trascina a casa sua a mostrargli quella collezione di pupazzi animati (metafora dell’alienazione, of course). E in camera da letto, questo signore tiene una femmina robotizzata che gli dice, a Moravia, non si sa se in italiano o inglese, “Amore mio”. La femmina meccanica è anche autoriscaldata (Moravia è ossessionato dal freddo americano, ha freddo ovunque, a casa, in viaggio, in treno, infatti fin dal primo tour americano fa subito una deviazione in Messico per riscaldarsi). 

Nei reportage moraviani si scoprono tutta una serie di paesaggi urbani ancora ignoti perché non visti al cinema: il drugstore (“la farmacia moderna dove si mangia e si possono comprare profumi e sveglie e libri di filosofia”). Qui “il negro accanto a me si sfama con un sandwich al burro di noccioline del Brasile e altri lungo il banco, fedeli alle vitamine ‘a’ e ‘b’, bevono bicchieri di latte e miscele di pomodoro”.  Il pasto “frettoloso, divorato tra gli odori mescolati e inconciliabili della farmacia e della cucina, lascia una digestione stupita: si dubita di aver mangiato, si paga alla cassa con l’impressione di aver comperato uno spazzolino da denti oppure un pezzo di sapone piuttosto che di essersi nutriti”. 

C’è un fondo di senso di superiorità non tanto comprensibile, ma forse la condanna è anche per evitare censure. Giudizi antropologici micidiali: “Il cosmopolitismo americano con emigranti talvolta provenienti da civiltà antiche e raffinatissime come per esempio l’Italia e la Germania avrebbe dovuto produrre una delle civiltà più ricche e più profonde del mondo” mentre accade il contrario: tutti questi emigranti arrivati in America, scrive Moravia, si spogliano delle loro origini, della loro anima. “Tre quarti della personalità dell’europeo è composta di elementi culturali, religiosi, politici, sociali, tradizionali, che fuori del paese che li ha prodotti o muoiono o sono di ingombro. Sbarcavano dunque gli emigranti sacrificando all’America la parte più originale di loro stessi. Cultura da sostituire alla loro l’America non ne aveva. La vita degli Stati Uniti si fissò così sul piano più basso, quello economico”.  

Non ci sono mai stati i contadini (ah, la cultura contadina). “Ci sono solo città o il nulla. Lo colpisce la smisuratezza delle città. Trova Chicago orrenda anche architettonicamente (ma come, la città di Lloyd Wright!).  “Nuova York è come l’Africa: l’uomo pensa soltanto a campare e soddisfare certe esigenze fisiche”. 
E però poi forse ci ripensa. “Il viaggiatore agli  Stati Uniti pur rivoltandosi e inorridendo di condizioni tanto assurde e inumane, non può fare a meno di riconoscere, non senza un meravigliato dispetto, che questa nuova civiltà non è affatto negativa ne decadente ne corrotta. Si sente invece che la gran macchina dell’America funziona benissimo, è viva e vitale, non si arresterà così presto”. 

Tornerà per la seconda volta negli anni Cinquanta, dopo un defatigante palleggio con l’ambasciata americana che a lungo gli nega il visto. Anche a causa della messa all’indice ecclesiastica dei suoi libri (c’è tutto un carteggio con il leggendario editore Straus, con lettere inviate all’indirizzo di via dell’Oca 27, Roma, e Moravia che spiega al suo publisher preoccupato che essere messi all’indice in realtà non è così tremendo, e comunque è in buona compagnia: ed elenca gli altri indicizzati: Stendhal, Zola, D’Annunzio, Voltaire, ecc.) Finalmente, nel 1955 riesce a ripartire. Questa volta arriva da autore affermato – “La romana”, “The woman of Rome”, era stata pubblicata con successo in America nel ’49. Moravia infatti era uno dei pochi autori italiani tradotti negli Stati Uniti. Nel secondo viaggio si imbatte in un’America in pieno boom, e una società ribollente. Le pagine migliori sono quelle di osservazione su tecnologie e consumi.

Ecco le “superhighway; noi diremmo superautostrada; due strade parallele che non s’incontrano mai e non si separano mai e sulle quali le automobili vanno a senso unico”; e i nascenti supermercati, con la preoccupazione, già negli anni Cinquanta, che “uccideranno decine di piccoli negozi individuali” (ma le notazioni più stupite sono per le bistecche, “avvolte nel cellophane”, e per i carrelli, “un carrettino di ferro  assai comodo e maneggevole”). I motel “sono alberghi per automobili, cresciuti come funghi. Fabbricati a un piano solo, con tante camere allineate in semicerchio intorno a uno spiazzo dove si parcheggiano le macchine”. Si arriva, si suona il clacson, il padrone esce, si fa pagare in anticipo e dà la chiave della stanza, come in uno stabilimento balneare; quindi si va a dormire e la mattina si riparte, insalutati ospiti”. In alternativa ci sono poi albergoni nascenti: e qui siamo in Mad Men: “Ecco la mole brutale del Conrad Hilton Hotel”. Conrad Hilton è uno di quei dinosauri che scorrazzano indisturbati per la vastità dell’America. “L’anno passato  si parlò addirittura di costruire una di queste mostruosità del signor Hilton anche sul gentile Monte Mario, sopra Roma” (poi ovviamente l’Hilton si farà, e Antonio Cederna, fratello di Camilla, dirà che con quel mammozzone si è spezzato per sempre il ponentino). 

E certo, alcune descrizioni oggi non sono proprio più utilizzabili, come nella Chicago “dei negri dalle scarpe lucide, sono gli unici che si lustrano le scarpe da soli, agli Stati Uniti”; lucidi come le loro “teste d’ebano”, e anche un riferimento al ritmo nel sangue. 

Arriva fino all’ovest: a San Francisco si imbatte in una società totalmente psicanalizzata. Viene portato in giro da delle signore californiane che lo mollano in macchina ad aspettare mentre corrono dal loro strizzacervelli (qui sembra Woody Allen, o uno di quei film di Sordi all’estero). La psicanalisi “agli Stati Uniti” (è bello come usi il dativo, alla francese, aux Etats Unis), “conta ormai migliaia di praticanti sparsi per tutto il paese”. Osserva che la psicanalisi è il pendant perfetto di una società puritana, che serve più che altro come aggiustamento, a rendere tutti più funzionali. A San Francisco, anche, fantastica visita a una “funeral home” dove tutto è all’insegna della praticità, compreso riscaldamento a pavimento (ancora una notazione sui riscaldamenti). Lo colpisce la mancanza di mistero, e pubblicità che sembrano già quelle di oggi delle varie Taffo o simili che fanno indignare anche in questi giorni: “Perché andare in giro vivi quando possiamo seppellirvi per trecentonovantanove dollari e cinquanta?”.  Va a vedere le cascate del Niagara con Saul Bellow; “le cascate sono la seconda più grande delusione delle coppie la prima notte di nozze”, gli dice lo scrittore americano. “La prima è la prima notte di nozze”. Diventeranno amici, anche con Norman Mailer. “Lo andavamo a trovare spesso. Ogni volta aveva una nuova moglie”, ha detto la Maraini. 

A San Francisco nel 1955 guardando il Pacifico e reduce da un enorme supermarket Safeway pieno di ogni ben di Dio ha uno sbrocco: in fondo America e Russia sono così nemiche perché uguali: “E’ già il comunismo, la produzione in massa per le masse” (e poi vitupera molto il proprietario della catena, finanziatore di McCarthy; però in Russia non tutti ricordano quella gran magnificenza delle merci). 

Tornerà in America nel 1968. Il primo viaggio americano l’aveva fatto anche per una donna: si era chiusa una storia con una fidanzata e aveva voglia di cambiare posti. Era partito con 30 lettere di presentazione scrittegli dal grande storico dell’arte Bernard Berenson. Si imbarca  sul Rex felliniano e dopo 6 giorni di navigazione, il 5 dicembre 1935, arriva a “Nuova York”. Giuseppe Prezzolini, all’epoca direttore della Casa italiana alla Columbia, gli dà una piccola cameretta nel sottotetto (che Moravia cerchierà a penna in una cartolina inviata a Malaparte). Che nostalgia: per l’America, per quando si viaggiava, anche per certi business model d’epoca: che budget, i giornali. 
  

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).