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La danza di Pasolini

Marinella Guatterini

“Vivo e Coscienza” è stato l’unico balletto-cantata dello scrittore. Un’opera dimenticata che svela il segreto tra movimento e suono

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“Verrà un giorno in cui la Vita sarà Coscienza e la Coscienza Vita”. 
Pier Paolo Pasolini, 1963 

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“Verrà un giorno in cui la Vita sarà Coscienza e la Coscienza Vita”. 
Pier Paolo Pasolini, 1963 

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Devo a uno dei miei allievi una frase di Pier Paolo Pasolini che non conoscevo. Risale al 1963, proprio l’anno in cui PPP si dedicò alla stesura di “Vivo e Coscienza”, il suo unico balletto-cantata. In quel periodo il poeta, scrittore, regista ed editorialista stava anche lavorando al film “La ricotta”. In una delle scene, Orson Welles, qui in veste di attore e incarnazione del ruolo del regista (tra l’altro doppiato dallo scrittore Giorgio Bassani) seduto su di una sedia da cineasta – cioè interpretando lui stesso il ruolo di Pasolini –, risponde alla domanda di un giornalista.  “Lei cosa pensa di Federico Fellini ?”.  La risposta fu: “Egli danza”. Con incredibile semplicità Welles era riuscito a percepire la stima profonda che PPP nutriva nei confronti del suo geniale collega. 
   

Solo due parole – “egli danza” – che tuttavia  proiettavano, e ancora proiettano, in un immaginario spazio-tempo assoluto la figura di Fellini, come se in quel verbo fossero racchiuse la personalità, il talento, l’abilità, il respiro stesso del grande maestro. In effetti nei suoi capolavori si tocca con mano, quasi fisicamente, l’essenza, la sensibile delicatezza, la necessità, la tecnica registica: in sintesi, la bellezza. Pasolini cita la danza convinto del suo essere la forma d’espressione più pura, autentica ed essenziale. Che fosse un assiduo frequentatore di balletto quando ne aveva il tempo e l’occasione, non lo ricorda nessuno; che avesse poi steso, almeno in parte, un libretto destinato a quest’arte che amava, resta argomento per lo più sconosciuto. L’idea gli balenò nella mente già nel maggio 1961, dopo aver assistito, al Teatro Eliseo di Roma, ai “Sette peccati capitali” di Bertolt Brecht/Kurt Weill nell’interpretazione della poliedrica Carla Fracci e della sua musa e sodale Laura Betti, qui dirette da Luigi Squarzina e per i movimenti coreografici da Jacques Lecoq, grande attore, mimo, pedagogo, conoscitore della poesia del corpo. Due anni dopo si impegnò nella scrittura di un balletto-cantata che avrebbe voluto avesse un certa risonanza. Per la destinazione non vi furono problemi: sarebbe stata la Biennale di Venezia e neppure per la scelta della compagnia interprete: il Ballet du XXème Siècle di Maurice Béjart, all’epoca il gruppo di balletto moderno europeo più in vista e ricercato dai teatri del mondo. 
 

L’abbozzo di “Vivo e Coscienza” cominciava a prendere una forma quasi definitiva quand’ecco che si schiantò paradossalmente contro un’arma impalpabile e ben poco contundente come la  musica.  Eppure il regista, poeta e scrittore aveva contattato per la creazione di  “Vivo e Coscienza” un compositore di autentico talento come Bruno Maderna. Nelle mani di un musicista e direttore d’orchestra tanto avveduto, la compilazione delle musiche, che nel testo di Pasolini sarebbero potute diventare mere sottolineature d’epoca, d’ambiente e d’atmosfera (ma non lo si sa), avrebbero forse ottenuto gran peso e spessore. Purtroppo la collaborazione tra i due artisti non diede alcun esito. Anzi, come ci svelò nel 1999 Laura Betti, con la sua voce roca e graffiante, in una delle nostre visite al Fondo Pier Paolo Pasolini ancora ubicato in un palazzone del quartiere Prati di Roma, si arenò con tutta probabilità  per nette divergenze estetiche. Scarmigliata, bisbetica, proprio come la descrive Emanuele Trevi nel suo romanzo “Qualcosa di scritto” (2012, Ponte alle Grazie), la Betti non riuscì mai a trovare tracce dell’ampio carteggio intercorso tra i due artisti nel dedalo di carte, cartoni e scartoffie di quello che fu per vent’anni il suo regno. Eppure di quel fitto scambio epistolare ci diede conferma anche la moglie di Maderna, che pure lei, nella loro casa, non ne trovò testimonianza. 
   

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Quel che si può intuire è che come molti altri intellettuali e letterati e non solo di ieri, Pasolini conosceva meglio il passato musicale che non le tensioni sperimentali della musica del suo tempo, per quanto fosse decisamente innovativo nei suoi molteplici ambiti operativi. Le musiche dei suoi film sono affidate ad autori di colonne sonore cinematografiche, oppure al linguaggio classico e tonale di Bach e Mozart. E allora perché si rivolse a un compositore noto per essere ben lontano dal linguaggio musicale accademico? Negli anni in cui l’idea di “Vivo e Coscienza” si fece strada in lui, le collaborazioni interdisciplinari erano molto più assidue di quanto forse non siano oggi; esempi illustri ne sono le sperimentazioni dello Studio di Fonologia di Milano e le collaborazioni di Luciano Berio con i poeti del Gruppo ’63. Forse per questo Pasolini si rivolse a Maderna; intuiva la necessità di un talento musicale originale per la sua prima creazione coreutica. 
   

Invece il recupero dell’insospettabile testo si deve proprio a Laura Betti: non ancora bisbeticamente “al tramonto”, come ce la descrive Trevi, ma generosamente interessata al progetto dedicato a Pasolini dal Teatro Comunale di Ferrara e rivolto al coreografo Virgilio Sieni e al compositore Giorgio Battistelli. La loro attesa produzione, nel 1999, fu però “Il fiore delle Mille e una notte”, ispirato a un testo e a un film assai lontani da “Vivo e Coscienza”. Tuttavia il fatto che i due autori avessero scartato l’ipotesi di lavorare sull’inedito pasoliniano di cui nessuno sapeva – fu pubblicato  successivamente, nel 2001, in Pier Paolo Pisolini Teatro, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude (Meridiani Mondadori),  non inficiò di certo l’importanza della sua scoperta.     
   

La breve traccia di “Vivo e Coscienza” è suddivisa in quattro episodi e giustappone continuamente i due protagonisti del titolo che mutano ruolo pur mantenendo inalterata la loro diversità. 

  
La prima scena si svolge nel Seicento. Vivo è un adolescente con tutte le caratteristiche del fauno mitologico e il suo lavoro (sia esso quello di pastore, marinaio o pescatore, scrive Pasolini) si sublima nella danza. Coscienza proviene, nientemeno, che dal Concilio di Trento, ed è una monaca dapprima intenerita nell’osservare “l’antica danza di vita, sensualità, lavoro, sole, smemoratezza e fame” di Vivo, ma ben presto, si inalbera e rimprovera il fanciullo della sua vitalità: lo incita a pregare e a piegarsi al dogma della Chiesa. Vivo smette di danzare, ma si appisola: le severe parole di Coscienza e la sua stessa voce esercitano su di lui un potere suggestivo anche se un principio di sonno finisce per smorzare, ancora una volta con prepotente fisicità, la forza repressiva della voce (ideologica) di Coscienza, “piena di divina maestà e di minaccia”. Quando poi la  monaca si china su Vivo per imprimergli sulla bocca un bacio casto, questi parrebbe pronto ad accoglierla (Pasolini scrive che qui Vivo è “puro, indifeso, non si schernisce”), se all’improvviso non scoppiasse una musica irresistibile “che solo il popolo canta”, capace di far recedere il giovane fauno dalla sua remissività e acquiescenza. 
     

Nel secondo episodio, Pasolini suggerisce una musica francese di fine Settecento, con echi di canti della Rivoluzione; Vivo potrebbe essere un artigiano cittadino che si sottrae al bacio di Coscienza – una sanculotta che incarna la “ratio” rivoluzionaria – grazie all’intervento di una giovanetta sua coetanea. Come dire che anche questo tipo di “coscienza”, ha insito in sé un dogma assoluto, prevaricatore, ancora una volta ideologico. Nel terzo episodio Pasolini preannuncia una musica d’origine tedesca (ma distorta dal jazz): siamo nell’Italia fascista, la Coscienza “della borghesia dominante” non può pretendere di baciare Vivo, un ex contadino trasferitosi in città: un disoccupato che non riesce ad accogliere sulla sua bocca il bacio di Coscienza. Viene rapito dal richiamo della patria ed è pronto alla guerra. Il quarto e ultimo episodio rievoca gli anni della Resistenza italiana al fascismo, anche grazie a una musica capace di echeggiare alcuni suoi canti famosi; Vivo è un partigiano e muore in un quadro che Pasolini immagina “come balletto della condanna a morte e della fucilazione”.  A sorpresa Coscienza è “la coscienza democratica della Resistenza” ed è convinta di poterlo baciare e di possedere almeno il suo corpo esangue. Ma non è così. Sono i morti, ora, a portaglielo via e tra questi morti, Vivo si perde perché fu sempre “un anonimo vivo”. Così Coscienza resta sola e angosciata, ma nella sua angoscia c’è una luce di speranza. “Verrà un giorno in cui la Vita sarà Coscienza e la Coscienza Vita”. 
   

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Pasolini ci tramanda un balletto ideologico – simbolico e naturalistico; sulle prime si potrebbe definire ingenuo. In realtà, i risvolti etici del racconto, uniti all’epoca in cui è stato scritto e all’eventuale destinazione béjartiana, provano che l’artista e intellettuale aveva percepito una tensione ideale crescente nelle opere coreografiche di quegli anni, tale da fargli credere che da una composizione ballettistica potessero emergere non solo emozioni estetiche a fior di pelle, ma anche riverberi non privi di una disincantata e pungente ironia. Doppiamente calzante sarebbe stata la destinazione béjartiana se si considera che il balletto è solo apparentemente concentrato sulla conversazione impossibile tra due entità o concetti opposti. Oltre ai due antagonisti, nei quattro episodi entrano in scena numerosi altri personaggi: sono interpreti di sfondo ma destinati ad azioni decisive per dare corpo alla narrazione e agli ambienti storico-sociali in cui questa si dispone. 
   

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Gli amici di Vivo, nel primo episodio, sono giovanotti del Seicento “dal molle grembo, dalla gamba elegante, dalle facce gremite di luce e ombra: con fiori e frutta, come in un quadro del Caravaggio, o in un racconto del Bandello”. E nei successivi episodi fanno capolino balletti per dei soldati (terzo episodio), fucilazioni e cortei di morte (quarta scena), senza contare le danze di massa nel quadro della Rivoluzione francese, su cui proprio Béjart avrebbe allestito in seguito un balletto (“1789... et Nous”, 1989) e come lui anche l’allieva-rivale Maguy Marin (“Eh, qu’est-ce que ça m’fait à moi!?”). Se davvero realizzata nel suo tempo, l’allegoria di Pasolini avrebbe avuto altri meriti. Anzitutto un sapore di fine Millennio in anticipo; il fascino che scaturisce da certe immagini pittoriche (caravaggesche, gotiche e neorealiste), la dialettica mancata tra istinto e ragione dogmatica che rimanda all’elogio della danza in Nietzsche quando inneggiò alla libertà tragica e alla smemoratezza del corpo contro la prigionia ideologica. Tutto ciò ha avuto un peso nascosto e sotterraneo in molta danza narrativa persino moderno-contemporanea; e infatti non c’è un’ombra di polvere, ma un’inaspettata freschezza nella ricostruzione che nel 2013 ne diedero il coreografo Luca Veggetti e il compositore Paolo Aralla, attratti dalla relazione tra danza, parola e musica, strettamente collegate, tra l’altro, alle origini del teatro stesso. 


Nel loro spettacolo, che dal Mittelfest di Cividale del Friuli girò l’Italia sino al 2015, si rispettò il titolo originale e la forma ciclica, sicuramente desunta dai “Sette peccati capitali” di Brecht/Weill che tanto si erano impressi nella memoria di Pasolini,  o dalla “Lulu” di Wedekind/Berg. Si rispettarono pure la suddivisione in quattro scene e in quattro “danze” di  lavoro – rivoluzione-guerra-morte. Nel linguaggio coreografico originale di Veggetti, il cui padre per puro caso fu a Bologna compagno di liceo di Pasolini, gli antagonisti Vivo e Coscienza agivano sempre in contrappunto ad un “coro” che assumeva in ogni quadro identità diverse. Tuttavia,  data la natura frammentaria del testo, così come il fatto che dei quattro quadri previsti, PPP ne completò solo il dialogo del primo, sembrò più interessante, ai due autori, lavorare sulle didascalie, proponendo un rapporto di diegesi tra testo e azione. Ma chi avrebbe potuto restituirle con la dovuta pertinenza vocale? La fortuna assecondò la coraggiosa avventura. Francesco Leonetti, scrittore, poeta, docente di Estetica di chi scrive, attore in molti film di Pasolini e indimenticabile voce del Corvo in “Uccellacci uccellini”, sarebbe stato l’unico e più adatto destinatario. Peccato che da alcuni anni vivesse in una casa di riposo, dimentico e assente a se stesso. 
   La moglie, Eleonora Fiorani, nota antropologa, ci guidò a  un primo incontro in cui gli furono consegnate le paginette del testo. Tempo qualche giorno e fummo chiamati per la registrazione. Di fronte alla parola di Pasolini, Leonetti recitò in modo perfetto con tempi, silenzi e riprese. Buona la prima! Non ci fu bisogno di ripetere. Quel risveglio di chi tornava a essere ciò che era stato, ci convinse che la mente umana è un mistero su cui è bene non smettere di indagare e infatti, e per inciso, a Milano si è appena concluso “Culture and Consciousness”, un convegno di Fondazione Prada, in cui brillava una domanda che avrebbe elettrizzato Pasolini: “Cosa non sappiamo della coscienza?”. Intanto, nel 2013, il risorto e trasfigurato balletto-cantata aveva guadagnato uno straordinario contributo artistico, un documento di valore inestimabile che riportava in vita Pasolini stesso attraverso la toccante presenza vocale del suo amico e collaboratore. 

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Quella voce servì come tessuto connettivo al materiale musicale di Aralla. Una partitura agganciata alla struttura ciclica di Pasolini, spaziante dalla ieratica musica del Seicento sino a materiali popolari del Dopoguerra. Inoltre, esplorando le possibilità di captazione del movimento, il progetto sonoro sfruttava il loro trattamento in tempo reale. I danzatori stessi grazie ad un particolare dispositivo audio inserito nei tavoli scelti come scenografia cangiante – a volta solo tavoli, a volta passerelle, o tabernacoli per accogliere il corpo esausto di Vivo –, trasformavano direttamente il movimento in suono. Nel finale, un pannello veniva gestito da una danzatrice che vi scriveva, senza che restasse traccia del suo scrivere; un danzatore s’impennava in un magnifico assolo, e nel cielo si alzavano le struggenti e calde parole di “Cosa sono le nuvole”, l’unica canzone scritta da PPP e destinata a Domenico Modugno. Finale in evanescente leggerezza. Una meraviglia. 

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