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il foglio del weekend

Alla scoperta di Michael Oakeshott

Il filosofo della politica che non amava i maestrini della politica

Alberto Mingardi

Trent’anni dopo la sua morte, le riflessioni di uno dei più grandi filosofi della tradizione anglosassone. Lo scetticismo per il razionalismo, la morale dell’individualità e il senso del conservatorismo, cioè il modo giusto di abituarsi al mutamento

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Trent’anni fa, in un paesino del Dorset, il pastore locale commemorò con laconica parsimonia un signore che, ottantanovenne, aveva appena lasciato questa terra. Non si dilungò in dettagli sulla sua vita, che del resto conosceva poco. L’officiante sapeva che quest’uomo era nato a Chelsfield, un paesino nel Kent ora incorporato nella grande conurbazione londinese, aveva studiato a Cambridge e poi aveva fatto il professore universitario; infine si era ritirato in campagna con l’età della pensione. Pare amasse molto le donne, ma la notizia non avrebbe ben figurato in un’omelia funebre. Di sicuro, si era sposato tre volte. A un certo punto, il curato fece un sospiro. Soppesò le parole, la circostanza per lui era nuova. “A quanto pare, tra noi viveva un grande uomo”. Il ministro di Dio aveva letto i giornali. Per il Daily Telegraph, il 19 dicembre 1990, se n’era andato “il più grande filosofo della politica della tradizione anglosassone dai tempi di Mill, se non di Burke”. Il Guardian parlava del defunto come “forse il più originale filosofo accademico di questo secolo”. L’Independent ne paragonava la scrittura, leggera e profonda assieme, ai saggi di Montaigne.

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Trent’anni fa, in un paesino del Dorset, il pastore locale commemorò con laconica parsimonia un signore che, ottantanovenne, aveva appena lasciato questa terra. Non si dilungò in dettagli sulla sua vita, che del resto conosceva poco. L’officiante sapeva che quest’uomo era nato a Chelsfield, un paesino nel Kent ora incorporato nella grande conurbazione londinese, aveva studiato a Cambridge e poi aveva fatto il professore universitario; infine si era ritirato in campagna con l’età della pensione. Pare amasse molto le donne, ma la notizia non avrebbe ben figurato in un’omelia funebre. Di sicuro, si era sposato tre volte. A un certo punto, il curato fece un sospiro. Soppesò le parole, la circostanza per lui era nuova. “A quanto pare, tra noi viveva un grande uomo”. Il ministro di Dio aveva letto i giornali. Per il Daily Telegraph, il 19 dicembre 1990, se n’era andato “il più grande filosofo della politica della tradizione anglosassone dai tempi di Mill, se non di Burke”. Il Guardian parlava del defunto come “forse il più originale filosofo accademico di questo secolo”. L’Independent ne paragonava la scrittura, leggera e profonda assieme, ai saggi di Montaigne.

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Per il pastore, fino a pochi giorni prima Michael Oakeshott era stato un signore anziano, di aspetto giovanile e modi cordiali, che stava in una casetta modesta ad Acton. Gli parve allora incredibile che una figura eminente – gli era stato offerto un cavalierato, da Margaret Thatcher, ma lui l’aveva rifiutato e così chissà quante altre onorificenze – facesse una vita tanto semplice. Gli venne di paragonarlo, per questo, a San Francesco. L’analogia gli parve talmente brillante che continuò a riferirsi a Oakeshott chiamandolo Francis, anziché Michael, persino mentre la bara veniva calata nella fossa.

 

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Sembra una scena di Quattro matrimoni e un funerale. Ma Michael Oakeshott sarebbe stato il primo a sorriderne. Il “più grande filosofo della tradizione anglosassone dai tempi di Mill” è ancora largamente sconosciuto nel nostro paese. Nel 1985, il Mulino diede alle stampe La condotta umana, il suo capolavoro, ma era la classica rondine destinata a non fare primavera. Più di recente, nel 2013, per la cura di Agostino Carrino è uscito La politica moderna tra scetticismo e fede (Rubbettino). Ora Ibl Libri pubblica Razionalismo in politica e altri saggi, la raccolta del 1962 che diede notorietà internazionale a Oakeshtt, con una densa Introduzione di Giovanni Giorgini che è anche l’autore della traduzione. “Ignorare lo stile di una persona significa perdere tre quarti del significato delle sue azioni e delle sue parole”. Vale la pena di provare ad applicare questa sua considerazione a Oakeshott stesso. Può servire a comprendere, forse, anche perché in un Paese come il nostro non abbia mai fatto breccia. Negli anni Venti Oakeshott aveva studiato Storia a Cambridge e lì aveva cominciato la propria carriera, come lecturer (ricercatore) per l’appunto in Storia, fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Si arruolò volontario non appena possibile e prestò servizio prima in artiglieria e poi in una unità speciale di ricognizione, il reggimento “Phantom”, lo stesso dell’attore David Niven. Alcuni anni prima della guerra aveva scritto un libro di filosofia, Experience and Its Modes. Un lavoro di grande complessità che rientra appieno nel filone idealista della filosofia britannica. I diversi “modi” dell’esperienza – la storia, la scienza, la pratica – sono ciascuno autonomo e indipendente. E’ un errore applicare le categorie di comprensione dell’uno all’altro: per esempio le categorie della scienza alla storia. La filosofia è esperienza pensata, continuo ragionamento critico. Essa è la chiave per una comprensione più piena del mondo. La sua missione è “determinare il proprio stesso carattere”, un’attività di continua messa a punto che resiste alle commistioni e alle distrazioni. Il filosofo, scriverà altrove Oakeshott, non è colui che condivide una particolare dottrina quanto “colui che si sottopone a un certo tipo di curiosità”. Tre anni dopo, Oakeshott pubblica, con un altro fellow del suo college, il Gonville and Caius, lo storico Guy Thompson Griffith, un saggio intitolato A Guide to the Classics. Il lettore cercherà invano riferimenti a Platone e Aristotele. I “classici” sono altri: il libro è dedicato a “come scegliere il cavallo vincente del Derby”. “A primavera una buona parte degli abitanti del mondo civile è avvezza a trascorrere parte del suo tempo libero nel tentativo di indovinare il vincitore del concorso ippico di Derby. E’ un piacere innocuo, che ha tenuto lontano dai guai più uomini di quanti ne abbia traviati”. Solo che indovinare il purosangue che taglierà per primo il traguardo non è facile e, a furia di sbagliare, c’è il rischio che scemi l’entusiasmo. Griffith e Oakeshott offrono qualche suggerimento allo spettatore meno accorto. Ma “non ci presentiamo al lettore con una formula, né un sistema. Non amiamo il cavallo piazzato o altre scappatoie. Non pretendiamo di essere i benefattori dell’umanità e non abbiamo ricette infallibili”.

 

L’oakeshottologia, che negli ultimi trent’anni è stata un’industria accademica di prim’ordine, ha esaminato questo lavoro per lungo e per largo. Trovarci chissà quali reconditi messaggi è probabilmente eccessivo eppure, in quel rifiuto di offrire al lettore una formula o un sistema, c’è proprio lo stile di Michael Oakeshott. Rientrato dalla guerra, egli a un certo punto si allontana da Cambridge e, dopo un breve passaggio a Oxford, viene chiamato alla London School of Economics. Si troverà a occupare la cattedra di Scienza politica e a dirigere l’omonimo dipartimento. Prima di lui quello era il pulpito di Graham Wallas e Harold Laski: l’uno e l’altro fieri “riformatori sociali”, intellettuali impegnati dalla testa ai piedi. Il suo amico Ken Minogue ricordava che Oakeshott “per quanto poco interesse avesse per le cose del mondo, era un eccellente amministratore, che fece funzionare il dipartimento di Scienze politiche della LSE al meglio per quasi vent’anni”. La London School of Economics attraeva allora alcune fra le teste più vive delle scienze sociali. Oakeshott non ebbe mai contatti con Karl Popper (Oakeshott fumava la pipa e Popper detestava fumo e fumatori) ma in quelle stanze trovò qualche avversario (il sociologo Ernest Gellner) e sviluppò qualche amicizia intellettuale profonda. Con Minogue, ovviamente, e con Elie Kedourie.

 

Due tipi singolari. Minogue era australiano e per guadagnarsi il viaggio in Inghilterra aveva lavorato come marinaio su un mercantile. Kedourie era un ebreo di Baghdad. Fu un antesignano degli studi mediorientali, nei quali metteva sapienza filosofica e una profonda comprensione storica di culture all’epoca ancora più misteriose di oggi, per quanti le guardassero da Londra. Aveva completato la sua tesi dottorale, a Oxford, in cui criticava le ricostruzioni oleografiche del ruolo giocato dal colonnello Lawrence (Lawrence d’Arabia). Gli fecero dei rilievi che lui considerava errati e banali e rifiutò di addottorarsi. Oakeshott era, ha scritto Minogue, “un amico magnifico, che si ricordava degli anniversari e aveva il talento di trovare sempre il regalo perfetto, setacciando librerie di libri usati”. I nostri amici dicono molto di chi siamo e questi erano i suoi, come lo erano William e Shirley Letwin, un economista e una brillante filosofa americani che riunivano a casa propria gli intellettuali vicini alle sensibilità del partito conservatore. Oakeshott non poteva mancare. Minogue parla della “autosufficienza filosofica” di Oakeshott, e questo pare davvero esserne un tratto cruciale. L’autore di Razionalismo in politica faceva parte dell’eletta schiera di quelle persone talmente sicure di sé che non hanno bisogno di ricordare incessantemente chi sono agli altri. Quanti l’hanno conosciuto ne sottolineano a più riprese la modestia: una sorta di curiosità naturale nei confronti del suo prossimo, che non si accompagnava a pose di maniera quanto semmai a una serena capacità di relativizzare l’importanza della filosofia politica, sulla più ampia tela delle cose umane. Il giornalista Peregrine Worsthorne era stato un suo commilitone. Worsthorne racconta di come, fra perlustrazioni e spostamenti, s’infervorava spesso parlando di politica e storia con questo suo nuovo amico. Oakeshott sembrò per anni “più giovane della sua età” e dunque forse Worsthorne ignorava che fosse diciannove anni più anziano di lui. Ad ogni modo, pensava di avergli preso le misure e che si trattasse di un uomo gentile, ma indifferente alle grandi questioni.

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Dopo la guerra, a Cambridge, ricominciò a frequentare i corsi. Che sorpresa. Quel suo amico indifferente era un professore, e per giunta un professore che s’occupava di storia e politica. Nel corso della sua vita, Oakeshott ha pubblicato solo due libri, cavalli del Derby a parte, che fossero concepiti come tali, secondo un disegno unitario. Experience and Its Modes e poi, nel 1975, La condotta umana. La politica moderna tra scetticismo e fede, tradotto da Carrino, è un manoscritto degli anni Cinquanta, rimasto inedito fin quando Oakeshott era in vita. Pare che Oakeshott trovasse, per così dire, costruttivista e presuntuosa la stessa dimensione del volume e preferisse dedicarsi ai saggi brevi – come quelli contenuti in Razionalismo in politica. In quelle pagine, egli delinea due contrapposti stili nell’approccio alle questioni politiche, che s’intrecciano e si contrastano vicendevolmente per tutta la storia dello Stato moderno. Nell’uno, l’attività di governo è necessaria alla convivenza civile ma non è necessariamente “buona”: la sua funzione è ridurre le occasioni di frizioni e conflitti fra uomini. Nell’altro, essa è al servizio della perfezione umana e può arrivare, idealmente, a dirigere ogni azione dei sudditi. Sono categorie che ritornano in La condotta umana, in cui Oakeshott distingue fra due diversi modi che hanno gli esseri umani per associarsi politicamente: l’associazione civile e l’associazione d’impresa. Quest’ultima è una associazione di tipo “teleocratico”: prevede che tutti coloro che vi aderiscono perseguano lo stesso fine. La prima invece è “nomocratica”: facendone parte si accettano alcune regole “non strumentali”, che definiscono le condizioni che rendono possibile ai membri della comunità di elaborare ciascuno i propri progetti e perseguirli come meglio credono senza interferire gli uni con gli altri. La politica della fede, e la fede nella politica, sono il brodo di coltura di quel “razionalismo” che il filosofo britannico motteggia nel più brillante dei suoi lavori. Il razionalista “è fondamentalmente un sostenitore (il Razionalista è sempre sostenitore di qualcosa) dell’indipendenza di pensiero in ogni occasione, della libertà di pensiero da ogni autorità che non sia la ‘ragione’”. Il razionalista è sempre un sostenitore di qualcosa: Oakeshott invece tiene le distanze dalla politica, la studia ma rifiuta di compiacersene e farsene compiacere.

 

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Mescolare con troppa convinzione la filosofia e la politica significa far male a entrambe. La politica, per Oakeshott, non è che uno spicchio dell’esperienza umana ed è un bene che sia così. E’ forse per questo che in Italia lo abbiamo snobbato: per noi la politica è il gusto di dividersi, di scendere in campo l’un contro l’altro armati, è un derby permanente. Oakeshott se ne sta sugli spalti. “Non è il filosofo (…) a influenzare la vita pratica ma il filosofastro”. Il conservatorismo per lui era una propensione, un’inclinazione, la quale precede qualsiasi sentimento politico. Essa non consiste nel rifugiarsi nel passato o nel combattere i cambiamenti a prescindere. Si tratta piuttosto “di una maniera di abituarsi al mutamento, un’attività a cui nessun uomo può sfuggire”. Il conservatore di Oakeshott apprezza “ciò che è adatto allo scopo” e non vuole sostituirlo con “ciò che è perfetto”, predilige “la gaiezza presente”, limitata e sfuggente che sia, alla “beatitudine utopica”. Sono, in parte, temi e suggestioni presenti anche in altri autori del liberalismo post-bellico: Hayek, che a Oakeshott è per certi versi il più affine, Popper, Berlin. Ma Oakeshott non è un disilluso di questo o quel “sistema”, non ha avuto bisogno di sognare un sogno politico per capire che generava mostri. Nelle sue pagine più che altrove, c’è qualcosa di assai raro da trovare nelle astrazioni degli intellettuali: un’autentica simpatia per gli esseri umani in carne e ossa, per come provano, ciascuno attingendo a quel vasto repertorio di esempi e attività che la società gli mette a disposizione, a forgiare la propria vita, ciascuno in modo manchevole e imperfetto ma suo. Oakeshott non si contenta della società per com’è perché teme che ogni tentativo di ortopedia sociale possa avere effetti indesiderati. Gli piace, così com’è fatta, coi suoi bambini che strepitano e si mettono le dita nel naso, con le cassiere che ruminano la gomma da masticare, con le sue corse di cavalli e le sue corride e, perché no, coi suoi allibratori. In questa simpatia affonda le radici lo scetticismo di Oakeshott per il “razionalismo in politica”. La realtà sortita dall’incontro fra le tante aspettative e bisogni delle persone per come sono, e non per come vorrebbero essere, è inevitabilmente imperfetta e caotica, non è un oggetto di design, è una torta impastata da milioni di mani. La predisposizione della quale il conservatore oakeshottiano ha più paura è quella di chi desidera “convertire questo cosiddetto caos in ordine, perché questa non è la maniera di passare la propria vita per degli esseri umani razionali”. Il valore della tradizione sta negli apporti plurali e diversi che vi sono confluiti, nella ricomposizione dei conflitti prodotta dal tempo, in quel lento provare a capirci a vicenda che è poi l’unico modo che abbiamo per provare a vivere assieme. Ed è proprio dalla tradizione, più che da un progetto razionalistico, che possiamo trarre “indicazioni” per l’attività politica. E’ infatti l’esperienza del passato a suggerirci quando è utile adattare le norme ai cambiamenti sopravvenuti nella società. Il razionalista, invece, “non ha il senso dell’accumulo dell’esperienza ma soltanto della disponibilità dell’esperienza quando questa sia stata convertita in una formula: il passato ha un significato per lui soltanto perché gli è di ingombro”. Il conservatore oakeshottiano non idealizza il passato ma cerca il bene nel presente e apprezza il passato che l’ha prodotto. Quando, in un saggio giustamente famoso su “The voice of poetry in the conversation of mankind”, Oakeshott usa quell’immagine assai fortunata della vita umana, e della vita degli uomini tutti da che pestano questa terra, come “conversazione”; la paragona “con il gioco d’azzardo” perché, in un caso e nell’altro, “la sua importanza non sta nel vincere o nel perdere, bensì nello scommettere”. Quale è l’accademico che giustapporrebbe un’aula universitaria e una bisca, e senza alcun intento polemico? Chi leggerà Razionalismo in politica ci troverà pagine di filosofia politica di straordinario nitore e tersa bellezza. Ma Oakeshott non è solo un levigatore di parole, un virtuoso della pagina scritta. Lo ricordiamo come un filosofo conservatore ma, come ben spiega Giovanni Giorgini nella sua Introduzione al libro, questa idea della “associazione civile”, retta dalla “rule of law” nel senso di un sistema di diritto che riduce l’incertezza per gli individui e consente loro di maturare aspettative relativamente stabili, è una “visione liberale incentrata sull’idea che il governo non ha il compito di rendere felici i cittadini, bensì di permettere loro di perseguire le proprie originali immagini della felicità”. Al contrario, “la teoria politica del collettivismo è una concezione del compito più appropriato dello Stato che presuppone che noi abbiamo già stabilito che l’intera umanità abbia una sola mansione corretta da svolgere, un unico modello di attività superiore a ogni altro”.

 

Ma quando l’abbiamo deciso? Per Oakeshott la limitazione del campo dei pubblici poteri è una questione di prudenza e, si direbbe, quasi di decoro: più si fa ambiziosa, più la politica diventa grottesca. Grottesco gli sarebbe di certo sembrato il governo che dice con chi e in quanti possiamo trovarci a pranzo a Natale e lo fa perché promette qualcosa che non può mantenere: non le cure migliori umanamente possibili ma la salute trasformata in “diritto”. L’evento cardine della storia occidentale è l’emergere di una “morale dell’individualità”. Essa travolge la “moralità dei legami comunitari” che era prevalsa fino al Medioevo ma non riesce a sostituirla integralmente. L’“uomo massa”, che è un fenomeno politico diffusissimo nella modernità, ha una “individualità esigua” e cerca di annullarla in un noi. E’ l’uomo massa il protagonista della pratica dei plebisciti, di una democrazia che non è espressione di una preferenza del singolo ma “metodo per creare un governo dotato di autorità illimitata di fare scelte in sua vece”. Nella politica, l’“uomo massa”cerca “la liberazione finale dal fardello dell’individualità”: dal fare quelle scelte attraverso le quali riveliamo chi siamo. Pare che Oakeshott volesse mettere a esergo di La condotta umana una frase di Machiavelli: “Ciascuno secondo lo ingegno e fantasia sua si governa”. Non sta ai più ingegnosi, né ai più fantasiosi, riplasmare ingegno e fantasia altrui.

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