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IL RACCONTO

Cechov sapeva bene che più insopportabile dell’emergenza è la routine

Matteo Marchesini

Nella sua opera giovanile intitolata Tifo, lo scrittore medico russo descrive la storia di un ragazzo che porta il contagio in famiglia

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Il 2020 ci ha costretto a diventare tutti filosofi morali. Ci si alza al mattino, ed eccoci subito davanti a una di quelle domande che prima si nascondevano sotto il tappeto della vita quotidiana, o si esaurivano in convegni sull’unde malum nei quali i relatori disquisivano sull’Angoscia col compiacimento dottrinario di chi dorme benissimo. Una domanda assillante riguarda la responsabilità verso il prossimo, in senso letterale; ma ce n’è un’altra che è la sua ombra minacciosa, e investe il caso o il Fato. Si stenta infatti a connettere i comportamenti considerati innocui con le loro conseguenze potenzialmente atroci. Poi, come è umano, subentra l’assuefazione. Quanto resistono le precauzioni emergenziali alla resistenza “emergenziale” delle vecchie abitudini? Finché si resta sul piano dei rapporti che s’intrattengono pubblicamente, in società, le domande si possono lasciare a una certa distanza (distanza sociale, appunto). Più complicato farlo quando si entra nell’intimità della famiglia, magari sotto le feste. Sentirsi al sicuro a casa, sentire che gli altri lo sono, abbassare la mascherina tornando da un viaggio in cui la si è tenuta a lungo all’aperto dove le possibilità di contrarre il virus sono molto minori… tutto questo è irrazionale e normalissimo.

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Il 2020 ci ha costretto a diventare tutti filosofi morali. Ci si alza al mattino, ed eccoci subito davanti a una di quelle domande che prima si nascondevano sotto il tappeto della vita quotidiana, o si esaurivano in convegni sull’unde malum nei quali i relatori disquisivano sull’Angoscia col compiacimento dottrinario di chi dorme benissimo. Una domanda assillante riguarda la responsabilità verso il prossimo, in senso letterale; ma ce n’è un’altra che è la sua ombra minacciosa, e investe il caso o il Fato. Si stenta infatti a connettere i comportamenti considerati innocui con le loro conseguenze potenzialmente atroci. Poi, come è umano, subentra l’assuefazione. Quanto resistono le precauzioni emergenziali alla resistenza “emergenziale” delle vecchie abitudini? Finché si resta sul piano dei rapporti che s’intrattengono pubblicamente, in società, le domande si possono lasciare a una certa distanza (distanza sociale, appunto). Più complicato farlo quando si entra nell’intimità della famiglia, magari sotto le feste. Sentirsi al sicuro a casa, sentire che gli altri lo sono, abbassare la mascherina tornando da un viaggio in cui la si è tenuta a lungo all’aperto dove le possibilità di contrarre il virus sono molto minori… tutto questo è irrazionale e normalissimo.

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Coinvolge gli esorcismi, l’imbarazzo, il galateo, gli affetti. Oggi però, a differenza della scorsa primavera, ognuno di noi conosce dei malati, e delle persone che temono di aver contagiato i parenti più anziani o più fragili. Solo che tutto passa, anche la capacità di mantenersi all’altezza della tragedia. Vorremmo almeno trovare le parole giuste per esprimere il nostro sentimento misto d’ansia e insofferenza, di fatalismo e colpa. Le più esatte e brevi ce le offre forse Anton Cechov, che fu scrittore, malato e medico, e che curò con coraggio la povera gente durante un’epidemia di colera. Cechov sapeva bene che più insopportabile dell’emergenza è la routine – o la routine dell’emergenza. Nel racconto giovanile intitolato Tifo, con quel suo stile in cui spietatezza e compassione si fanno indistinguibili, descrive un ragazzo che porta la malattia in famiglia. Siamo su un treno, tra Pietroburgo e Mosca. Il tenente Klimov sta tornando a casa, dove vive con lo zio e la sorella. Di fronte a lui un tipo dall’aria scandinava non la smette di cianciare. Klimov vorrebbe zittirlo, ma non riesce: si sente male, fatica a reagire. Comincia a pensare che il tizio è odioso come tutti i “finlandesi e… greci”; e presto la nausea gl’ispira desideri di pulizia etnica che si estendono all’intera Europa. Intanto le sue braccia e le sue gambe “sembrava non riuscissero a trovar posto sul sedile, benché esso fosse tutto a sua disposizione, aveva la bocca arida e appiccicosa, una nebbia pesante nella testa; i suoi pensieri parevano vagare non solo nella mente, ma anche al di fuori del cranio (…) avvolti nelle tenebre della notte”. Il viaggio del tenente si trasforma così in un incubo confuso di voci, fumo, porte sbattute, sferragliare di ruote, campanelli e fischi: “Il tempo volava inavvertito, e perciò sembrava che il treno si fermasse ogni minuto a una stazione”. A un certo punto Klimov scende per bere, e notando la gente seduta ai tavoli di un locale si chiede schifato come possa tollerare il cibo. Ogni cosa gli appare ripugnante: l’odore di arrosto, la bocca di una bella donna…

 

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Arrivato a Mosca s’infila in una vettura come un automa, senza tirare sul prezzo, perché il denaro non ha più per lui alcun valore, e una volta a casa non sa neanche a rispondere ai saluti dello zio e di Katja, la sorella diciottenne che lo accoglie con un quaderno e una matita in mano (sta preparando l’esame da insegnante): cerca la sua camera, crolla sul letto e sviene. Quando si riprende è ancora lì, spogliato, con l’attendente vicino, e un medico che borbotta qualche paternalistica sentenza. Anche nella camera il tempo passa rapidissimo. Buio e luce si alternano di continuo, e i volti si distendono in una fila interminabile: parenti, soldati, un parroco, Katja che prega inginocchiata sdoppiandosi nella sua ombra… Ma un giorno, finalmente, il torpore evapora. Dalla tenda penetra dolce il sole del mattino, il mondo riacquista i contorni familiari, e Klimov scoppia a ridere, pieno di una gioia simile a quella del primo uomo “quando fu creato e per la prima volta vide l’universo”. Ha una voglia pazza di fumare e abbuffarsi. Fa i capricci, si riaddormenta. Al nuovo risveglio si trova accanto la zia, da cui apprende di avere avuto il tifo esantematico. Quando chiede di Katja la vecchia esita un momento, poi inizia a singhiozzare e gli rivela che è morta dopo essersi presa la malattia da lui. Ma per quanto la notizia sia terribile, Klimov “non poté vincere la gioia animale di cui era colmo (…) Piangeva, rideva e presto cominciò a imprecare perché non gli davano da mangiare”. Solo una settimana più tardi, mentre osserva il cielo nuvoloso, ha una stretta di vero dolore. “Come sono disgraziato!” mormora allora: “E la gioia cedette il posto alla noia di sempre e alla coscienza dell’irrevocabile perdita”. Cechov non aggiunge altro, e mi guarderò bene dal farlo io.

 

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