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storie d’amore e di inganni

Spie e non solo: le Carré raccontava i pasticci e gli imbrogli delle relazioni umane

Mariarosa Mancuso

I suoi libri erano all'opposto di quelli che narravano le gesta di James Bond. In lui c'era la monotonia dell'agente segreto, la solitudine e la vita quasi impiegatizia

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Pochi scrittori hanno assistito alla sparizione del loro mondo di riferimento. Nel giro di pochi mesi John le Carré (pseudonimo di David Cornwell: aveva fatto il diplomatico e lavorato per i servizi segreti britannici, settori che non amano comparire) vide crollare il Muro di Berlino, vacillare l’Impero del Male, sparire la divisione tra est e ovest che aveva alimentato i suoi romanzi. Da “Chiamata per il morto”, uscito nel 1961, a “La spia che venne dal freddo”, che due anni dopo lo rese famoso. Fece la sua parte il film di Martin Ritt, girato nel 1965: lo spione arrivato dal gelo era Richard Burton, accanto a lui c’era Claire Bloom (nel 1990 sposerà infelicemente Philip Roth, allora era solo una giovane attrice famosa per “Luci della ribalta”, moglie di Rod Steiger). L’altra coppia cinematografica celebre – dal romanzo uscito nel 1989, proprio il passaggio di consegne dal vecchio mondo al nuovo – sta nel film “La casa Russia” di Frank Schepisi con Sean Connery e Michelle Pfeiffer (Tom Stoppard alla sceneggiatura). Ambientato negli anni della glasnost, racconta un editore britannico costretto a improvvisarsi spia. Prima, il modello dell’agente segreto era James Bond, nei romanzi che Ian Fleming scrisse per sfuggire alla noia coniugale. I film con Sean Connery, e ancor di più i marchingegni forniti dall’ingegnoso Q, sono difficili da prendere sul serio, considerato il basso profilo a cui una spia sarebbe tenuta per dovere professionale. John le Carré racconta la monotonia del mestiere, la solitudine e la vita quasi impiegatizia. L’opposto delle spie viveur che se la spassano in luoghi esotici tra fanciulle e bottiglie di champagne, e guai se il barman sbaglia il loro cocktail preferito. Abbigliamento: smoking o tuta da sub.

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Pochi scrittori hanno assistito alla sparizione del loro mondo di riferimento. Nel giro di pochi mesi John le Carré (pseudonimo di David Cornwell: aveva fatto il diplomatico e lavorato per i servizi segreti britannici, settori che non amano comparire) vide crollare il Muro di Berlino, vacillare l’Impero del Male, sparire la divisione tra est e ovest che aveva alimentato i suoi romanzi. Da “Chiamata per il morto”, uscito nel 1961, a “La spia che venne dal freddo”, che due anni dopo lo rese famoso. Fece la sua parte il film di Martin Ritt, girato nel 1965: lo spione arrivato dal gelo era Richard Burton, accanto a lui c’era Claire Bloom (nel 1990 sposerà infelicemente Philip Roth, allora era solo una giovane attrice famosa per “Luci della ribalta”, moglie di Rod Steiger). L’altra coppia cinematografica celebre – dal romanzo uscito nel 1989, proprio il passaggio di consegne dal vecchio mondo al nuovo – sta nel film “La casa Russia” di Frank Schepisi con Sean Connery e Michelle Pfeiffer (Tom Stoppard alla sceneggiatura). Ambientato negli anni della glasnost, racconta un editore britannico costretto a improvvisarsi spia. Prima, il modello dell’agente segreto era James Bond, nei romanzi che Ian Fleming scrisse per sfuggire alla noia coniugale. I film con Sean Connery, e ancor di più i marchingegni forniti dall’ingegnoso Q, sono difficili da prendere sul serio, considerato il basso profilo a cui una spia sarebbe tenuta per dovere professionale. John le Carré racconta la monotonia del mestiere, la solitudine e la vita quasi impiegatizia. L’opposto delle spie viveur che se la spassano in luoghi esotici tra fanciulle e bottiglie di champagne, e guai se il barman sbaglia il loro cocktail preferito. Abbigliamento: smoking o tuta da sub.

 

George Smiley appare per la prima volta in “Chiamata per il morto” e trionferà (romanzescamente parlando) in “La talpa” e “Tutti gli uomini di Smiley”. Passa momenti di alterna fortuna con i suoi capi. Manca totalmente del physique du rôle: è basso, grassottello, malvestito, completamente fuori forma, piuttosto infelice. Lo salvano – sul lavoro – l’ottima memoria, la pazienza e la tenacia. A complicargli la vita, una moglie aristocratica e infedele. Se questo è l’agente segreto britannico, immaginate lo squallore della controparte sovietica – a cominciare da Karla, capo del Kgb. Anche “La talpa” è diventato un film, diretto da Tomas Alfredson. Nei panni vecchiotti e in disordine di Smiley, un perfetto Gary Oldman (altrettanto perfetto, oggi, in “Mank” di David Fincher: lo sceneggiatore di “Quarto potere” che diede imperitura fama a Orson Welles). Secondo Philip Roth, “La spia perfetta” è il miglior romanzo inglese del Dopoguerra. Romanzo senza aggettivi, gli scrittori bravi non si lasciano ingannare dall’argomento, considerano la bravura. Non si fanno sviare dalle spie e dai doppi giochi, John le Carré racconta i pasticci e gli imbrogli delle relazioni umane. Era il romanzo di le Carré che più concedeva all’autobiografia. Fino all’uscita (nel 2011) di “Ronnie, mio padre”, dedicato interamente alla figura di un genitore che dire ingombrante è poco, e forse ha a che fare con il fascino esercitato dalla doppia vita e dalle bugie. La mamma se n’era andata quando il piccolo le Carré aveva 5 anni. Il padre viveva di truffe e altri imbrogli. Quando riuscivano, si presentava a casa guidando una Bentley. Quando andava male, arrivavano gli ufficiali giudiziari a sequestrare tutto, anche i giocattoli del futuro scrittore. Che ha raccontato i fatti suoi solo quando aveva ormai 80 anni. Prima, li ha usati come trampolino per costruire fantastiche storie d’amore e d’inganno.

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