PUBBLICITÁ

il foglio del weekend

Cuore di bambola

Gaia Manzini

Di stoffa, di pezza, animata, stilizzata. E’ l’oggetto più desiderato durante l’infanzia, ma è anche letteratura. Da Kafka a Andrés Barba

PUBBLICITÁ

La guardo, è bellissima. Fatta a mano, di stoffa, lunga venti centimetri. Mi piace toccarla, anche se è stata regalata a mia figlia. E’ una bambola. Ce l’ha portata un’amica, dice che l’ha fatta sua cognata: la faccia dipinta, occhi grandissimi, lentiggini, bocca contratta; vestiti e scarpe fatti su misura. La nostra indossa una salopette di jeans e un maglioncino verde. E poi i capelli: capelli soffici e rossi, sottili come seta, sembrano veri. A mia figlia non piace, a me sì. L’accarezzo come avrei fatto da bambina. L’abbiamo avuta tutte una bambola.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


La guardo, è bellissima. Fatta a mano, di stoffa, lunga venti centimetri. Mi piace toccarla, anche se è stata regalata a mia figlia. E’ una bambola. Ce l’ha portata un’amica, dice che l’ha fatta sua cognata: la faccia dipinta, occhi grandissimi, lentiggini, bocca contratta; vestiti e scarpe fatti su misura. La nostra indossa una salopette di jeans e un maglioncino verde. E poi i capelli: capelli soffici e rossi, sottili come seta, sembrano veri. A mia figlia non piace, a me sì. L’accarezzo come avrei fatto da bambina. L’abbiamo avuta tutte una bambola.

PUBBLICITÁ

 

Bambole che sembrano neonati da cullare, bambole che sono già delle bambine pettinate e perfette, oppure buffe e coloratissime con i bottoni al posto degli occhi. E poi ancora bambole che fanno la pipì e, oggi, infrangono anche l’ultimo tabù, come se non si potesse far altro che spingersi sempre un po’ più in là nell’ambizione al realismo: sì, bambole che fanno la cacca. Tutte abbiamo avuto una bambola. La tenevamo stretta, la portavamo nel letto con noi: l’amavamo. Quanto ci somigliava! Poi, quella stessa bambola venerata l’abbiamo odiata e punita come con nessun altro dei nostri giocattoli; infine, l’abbiamo dimenticata per sempre. Se per caso, dopo molti anni, la ritroviamo in un baule ci fa piacere rivederla, ma alla fine neanche troppo. La stessa sensazione di quando ci guardiamo allo specchio ma non ci piacciamo.

 

PUBBLICITÁ

Andrés Barba, talentuoso autore spagnolo, abile scrittore di racconti (ricordo la bella raccolta Ha smesso di piovere, Einaudi), torna a parlare di bambini dopo il romanzo Repubblica luminosa. Anche nelle Mani piccole (La nave di Teseo, traduzione di Pino Cacucci) i bambini, o meglio le bambine, non hanno nulla di angelico o di puro come ci vorrebbe imporre una certa retorica dell’infanzia, ma conoscono l’ambiguità del desiderio, i vortici dell’attrazione così come quelli della sopraffazione. Dalla penna di Barba i bambini ci vengono mostrati senza scorciatoie, nella loro complessità umana. Le mani piccole è simile a una fiaba gotica e s’ispira a un racconto, terribile, di Clarice Lispector. “Suo padre morì sul colpo, sua madre in ospedale. ‘Tuo padre è morto sul colpo, tua madre è in coma’, fu precisamente la frase che sentì pronunciare Marina, la prima che sentì. Si può passare la mano su ogni sinuosità di questa frase, su questa frase carica di significato eppure incomprensibile: ‘Tuo padre è morto sul colpo, tua madre è in coma’”. Marina è la protagonista di questa storia. Marina rimane sola al mondo in seguito a un incidente. La psicologa in ospedale le porta un regalo: è una bambola piccola e compatta, serve a farla diventare una bambina una volta per tutte. Ogni sera Marina la sdraiava accanto a sé, le diceva di dormire, di riposarsi, era importante. Ripeteva “bambola” di continuo, la prendeva in braccio, la sollevava. La bambola aveva un vestitino verde chiaro e la bocca rossa che sorrideva; le gambe che non si potevano ripiegare. Era come lei: una piccola solitudine. Un giorno la bambina disse: “Ti chiami come me, Marina.” La bambola è fin da subito, fin dall’infanzia, materiale letterario per chi la possiede. Sempre e comunque correlativo oggettivo di qualcosa che continua a sfuggirci.

 

Edna O’Brien, la grande autrice irlandese, ha scritto un racconto che s’intitola proprio La bambola (lo trovate in Oggetto d’amore, Einaudi Stile Libero). La protagonista ogni anno riceve in regalo una bambola da un’amica della madre. Le bambole non l’avevano mai affascinata davvero, fin quando non arrivò la settima. Aveva qualcosa di speciale, era grande, sembrava “quasi viva”: dava la sensazione che prima o poi si sarebbe messa a parlare. La bambina le confessava i suoi segreti fino a notte fonda, perché la bambola era come lei, anzi di più. Ma poi la bambola, nell’arco del racconto, diventa altro. La maestra vuole che sia portata a scuola, è tanto perfetta che potrebbe essere la Vergine nella recita. Ed eccola lì: se ne sta al centro del palco, venerata e ammirata da tutti, ideale inarrivabile per qualsiasi ragazza. Concluso lo spettacolo, la protagonista vorrebbe riportarsela a casa; ma la maestra si rifiuta di restituirgliela e il racconto si trasforma in questa tensione, questo trauma: un’adulta che s’impossessa del giocattolo preferito di un’allieva e l’allieva che non sa come fare per recuperarlo.

 

In questo racconto, che in poche pagine ci guida attraverso la vita di due persone, la bambola ha mille sfaccettature. Rimarrà per sempre in una vetrinetta nel salotto della maestra: infanzia perduta e catturata da una donna crudele; infanzia dimenticata dalla protagonista, che crescerà, si farà adulta, andrà a vivere in una grande città, diventerà una persona cosmopolita, e della bambola si dimenticherà. Fino a quando non tornerà in quella casa per fare le condoglianze al figlio della maestra morta di cancro. Ed ecco la sua bambola ancora là, dietro al vetro, invecchiata e triste. Alla fine la protagonista avrà solo voglia di fuggire ancora una volta dal suo paese di origine: la bambola è il passato, è la fissità dei pregiudizi, delle vite precostituite. Senza ossigeno, senza cielo. Ma non per tutti è così.

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Pare che Kafka si fosse inventato una bambola viaggiatrice per consolare una bambina che aveva incontrato al parco, disperata perché aveva perso la sua Brigida, la bambola preferita. Forse è una leggenda, forse è frutto dell’invenzione di Dora, compagna di Kafka, ma la storia è stata resa nota in un libro per bambini firmato dallo spagnolo Jordi Sierra i Fabra. Per consolare la bambina triste, Kafka si era inventato che la bambola se ne era andata di sua volontà, ansiosa di scoprire il mondo. E, infatti, la bambola mandava alla bambina una lettera ogni giorno, una lettera scritta da Kafka per consolarla: per farle dimenticare la perdita dell’innocenza. Dal passato perduto era tormentato anche Tadeusz Kantor, uno dei registi più sperimentali nella storia del teatro del Novecento. Aveva vissuto durante la seconda guerra mondiale e poi aveva fondato la compagnia Cricot 2, formata da poeti, pittori e attori professionisti: una specie di “paradiso liberale” nella Cracovia degli anni Cinquanta. Non potevano che produrre gli spettacoli più rivoluzionari di tutta Europa. Ho visto la Classe Morta solo in video; ricordo ancora l’effetto sconvolgente che mi fece. Kantor era ossessionato dal passato, dalla possibilità che solo la memoria potesse far rivivere i relitti, i pezzi di vita inghiottiti dal tempo. In quella pièce ha messo in scena la propria classe d’infanzia. Se ne sta lì, in un angolo del palcoscenico, come un direttore d’orchestra o un marionettista, muovendo i personaggi privi di energia vitale. Gli attori entrano in scena con un passo quasi danzato, in fila indiana. Ciascuno porta con sé un corpo di fanciullo attaccato al corpo di adulto come un rimorchio senza vita: è una bambola, un burattino, un pupazzo. E’ inquietante e potentissimo, come lo è la memoria dell’infanzia. Sempre lì con noi, sempre appesa alla nostra coscienza. Quando parlano gli attori lo fanno in polacco, ma non importa: la bambola e il suo simbolismo sono linguaggio universale.

 

PUBBLICITÁ

Storia della bambina perduta, l’ultimo romanzo della saga dell’Amica geniale, si conclude con una consegna speciale: Elena trova fuori dalla porta di casa una cesta; all’interno ci sono due bambole. Le stesse bambole che, all’inizio del primo romanzo, Lila aveva gettato nello scantinato di Don Achille e sembravano perdute per sempre, destinate a essere dimenticate. Ora che tornano sono il doppio di un legame che non potrà mai sciogliersi. All’inizio di Manhattan beach di Jennifer Egan, Anna, undici anni, guarda con desiderio la bambola Flossie Firt di Tabatha, una bambina di otto anni, molto più viziata e ricca di lei. Non desidera altro che tenerla in braccio. Della mia infanzia ho memoria solo di un bambolotto che usavo in lunghi pomeriggi di amorevoli cure materne; e, poi, di una bambola che non era mia. Era la bambola di un’amica che si chiamava Serena e viveva a Firenze, la vedevo pochissimo. Quando mi ospitavano a casa sua per qualche giorno, dormivamo nella stessa camera. Serena aveva una bambola che mi sembrava bellissima, l’aveva cucita sua nonna con avanzi di stoffe e di pizzi. La faccia era stilizzata: la bocca piccola e sorridente, un filo di lana rosso; gli occhi neri, due lunghe trecce. Il corpo non aveva forma, era come un cuscino a forma di pera. Adoravo quella bambola. Ogni volta che andavo a Firenze, lei me la prestava e io ci potevo dormire, ci potevo appoggiare la testa sopra. Nella mia memoria l’amicizia con quella bambina, che negli anni non ho più rivisto, sta tutta dentro a quella bambola prestata.

 

Ma la bambola non è solo questo, non solo l’infanzia perduta o per sempre il nostro doppio. La bambola fa paura. Ha la passività della vittima e l’intensità del carnefice, è il lato oscuro dell’infanzia. La bambola assassina, Dolls, Dolly Darest, The boy, Trilogia del terrore, Annabelle, il pupazzo di Profondo Rosso. Marina, nel racconto di Andrés Barba, non si separa mai dalla sua bambola. A ricreazione non gioca con le altre bambine dell’orfanotrofio. Rimane a guardarle. “O era forse la bambola quella che ci guardava?”, si chiede una delle orfane. “Chi era in realtà la bambola?”. Sembra che attraverso i suoi occhi vitrei osservi tutto, proprio come fa Marina: la stessa anima assetata, le mani e le gambe rigide, immobile e sprezzante quando le altre si avvicinano. Nell’orfanotrofio le bambine sono mosse dal desiderio continuo. Desiderio di prossimità fisica, desiderio di conoscersi, capirsi, amarsi, ma anche di farsi del male, di umiliare e segnare nettamente la propria diversità, il proprio esserci nel mondo. Marina sa molto più di loro, ha fatto più esperienze, ha vissuto di più: le altre bambine sono incantate da lei e per questo la disprezzano, le danno fastidio, le tirano i capelli, ma tornano e ritornano quando lei inventa un gioco e le seduce con la sua ambiguità. Sono gelose dell’affetto che Marina rivolge alla bambola invece che a loro. Poi la bambola scompare, perché le bambole scompaiono sempre. A fare da bambole saranno le bambine stesse, l’equazione era facile da intuire.

 

Oscar Kokoschka, grande pittore austriaco dell’inizio del Novecento, era perdutamente innamorato di Alma Mahler, pittrice e compositrice, vedova del compositore Gustav Mahler. Quando lei lo lasciò, il dolore della perdita ebbe grandi conseguenze su tutta l’arte di Kokoschka. Il pittore decise allora di fabbricare una compagna che rispondesse ai propri desideri. Incaricò Hermine Moss, fabbricante di bambole e modista, di costruire per lui una bambola che assomigliasse ad Alma. La bambola avrebbe dovuto avere grandezza naturale, labbra socchiuse a mostrare i denti, una precisa consistenza dei capelli e parti intime realistiche. La nuova compagna venne vestita e ritratta più volte dall’artista: celebre è il quadro la Donna in blu, nel quale Kokoschka tiene in braccio la bambola il cui viso sembra più vivo del suo. Una sera, preso dalla rabbia e forse da una gelosia retroattiva, il pittore si scagliò contro la bambola, la prese a insulti; poi la inondò di vino, la strattonò e la seppellì in giardino. Fu ritrovata senza testa. La storia è vera, ce l’ha raccontata Alfonso Cruz in un libro in cui si mescolavano perfettamente realtà e finzione (La bambola di Kokoschka, La Nuova Frontiera). D’altronde, in tutta una visione maschilista dei rapporti, la bambola è la donna. Lo è nei complimenti volgari e d’antan (“sei una bambola!”), lo è con più poesia in Lubitsch (La bambola di carne) e con dramma in Ibsen (Casa di bambola); con ironia femminea nel romanzo La bambolona di Alba De Cespedes. Lo è in modo dissacrante in Lars e una ragazza tutta sua (2007), film indipendente americano, molto premiato, in cui il protagonista presenta ad amici e parenti la sua nuova fidanzata, Bianca: una bambola gonfiabile in silicone, di quelle da sexy shop, che lui tratta come il grande amore.

 

Ognuno ha la bambola della sua vita. In un solo oggetto si incontra la capacità evocativa di tutta un’esistenza, la possibilità di scrivere e riscrivere quello che arriverà un domani. La bambola è la misura sulla quale sperimentiamo la nostra capacità di amare e di essere crudeli, sulla quale impariamo l’equilibrio tra pulsioni contrapposte. Per questo la prima bambola non si scorda mai. “La bambola la rubammo un mercoledì notte, senza che lei se ne accorgesse, e Marina si svegliò in preda al panico. Adesso era indifesa, come noi. Adesso cercava amore e la fame non aveva alcun obiettivo. Per un attimo avevamo pensato che sarebbe andata a dirlo all’adulta, ma non lo fece (…) E volevamo dire: così almeno ci guardi. A quel punto era facile tornare ad amare. Amare era persino qualcosa di vecchio, ciò che era sempre successo”.

 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ