PUBBLICITÁ

Chi salverà il cinema

Le migliori serie tv del 2020. Una guida per le feste

Mariarosa Mancuso

L’anno senza cinema (e senza ristoranti e senza weekend fuori città) ha attratto verso le serie tv anche i più riluttanti. L’offerta è aumentata e sono sempre di più i titoli tra i quali scegliere. Censimento del nuovo che avanza sul piccolo schermo

PUBBLICITÁ

Disney+ ha appena annunciato “spese pazze” (lo ha scritto l’Economist): una decina di nuove serie nell’universo “Star Wars”, e un’altra manciata con i supereroi. I film sono un capitolo a parte, e forse finiranno anche loro sulle piattaforme. La Warner Bros ha annunciato che i suoi titoli del 2021 usciranno in contemporanea su Hbo Max, il servizio streaming della tv via cavo che iniziò la grande stagione seriale. Immediata la protesta dei registi, portabandiera Christopher Nolan: “Pensavo di lavorare per un grande studio cinematografico, ho scoperto di lavorare per un pessimo servizio di streaming”. Benvenuti nell’ultimo scorcio di 2020, l’anno che ha cambiato il cinema (diranno gli storici a venire). Dodici mesi fa si discuteva di finestre, tra l’uscita in sala e la programmazione casalinga, chiedendosi se i titoli privi di sbigliettamento potessero o no partecipare ai festival. L’anno senza cinema (e senza ristoranti e senza fine settimana fuori città) che ha attratto verso la serialità anche i più riluttanti. Con qualche intralcio. C’è sempre più roba tra cui scegliere, e non sempre le proposte sono paragonabili ai “Soprano”, a “The Wire”, a “Mad Men”, a “The West Wing”. Ogni tanto andiamo a rivedere qualche episodio, per controllare che non sia solo nostalgia: non lo è. Quindi, se ancora vi mancano, ricuperate.
   

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Disney+ ha appena annunciato “spese pazze” (lo ha scritto l’Economist): una decina di nuove serie nell’universo “Star Wars”, e un’altra manciata con i supereroi. I film sono un capitolo a parte, e forse finiranno anche loro sulle piattaforme. La Warner Bros ha annunciato che i suoi titoli del 2021 usciranno in contemporanea su Hbo Max, il servizio streaming della tv via cavo che iniziò la grande stagione seriale. Immediata la protesta dei registi, portabandiera Christopher Nolan: “Pensavo di lavorare per un grande studio cinematografico, ho scoperto di lavorare per un pessimo servizio di streaming”. Benvenuti nell’ultimo scorcio di 2020, l’anno che ha cambiato il cinema (diranno gli storici a venire). Dodici mesi fa si discuteva di finestre, tra l’uscita in sala e la programmazione casalinga, chiedendosi se i titoli privi di sbigliettamento potessero o no partecipare ai festival. L’anno senza cinema (e senza ristoranti e senza fine settimana fuori città) che ha attratto verso la serialità anche i più riluttanti. Con qualche intralcio. C’è sempre più roba tra cui scegliere, e non sempre le proposte sono paragonabili ai “Soprano”, a “The Wire”, a “Mad Men”, a “The West Wing”. Ogni tanto andiamo a rivedere qualche episodio, per controllare che non sia solo nostalgia: non lo è. Quindi, se ancora vi mancano, ricuperate.
   

PUBBLICITÁ

Abbiamo fatto un piccolo censimento del nuovo che avanza. Per rimediare al “troppo pieno”. All’offerta di titoli che dà le vertigini, derivata dalla “crisi di crescenza” in un settore che all’improvviso ha visto abbassarsi le barriere d’entrata: c’è sempre più bisogno di prodotti da lanciare, a ritmo serratissimo. Ormai la concorrenza tra le varie offerte di abbonamento ha spazzato via il quasi monopolio di pochi anni fa. “Prodotti”: così le vostre serie del cuore, e quelle che verranno, sono chiamate dagli addetti ai lavori. Rassegnatevi: anche Shakespeare scriveva per soldi, la committenza non ha mai danneggiato nessuno. 

  
THE CROWN di Peter Morgan (Netflix, quarta stagione)

   

PUBBLICITÁ

  

Era la stagione più attesa. E la più rischiosa. A nessuno davvero importava se e quanto la storia di Anthony Blunt – curava le collezioni d’arte della regina Elisabetta e spifferava segreti di stato all’Unione Sovietica – fosse fedele all’originale (era lo strepitoso inizio della terza stagione, lo smascheramento abilmente si intrecciava con un discorso sul vero e il falso nell’arte, i dettagli del doppiogioco erano precisi al millimetro). A tutti importa se i maglioni con le pecorelle, la salopette gialla, e soprattutto il sontuoso abito da sposa della signorina Diana Spencer sono fedeli all’originale. 
   

Vale anche per i turbamenti da adolescente fuori tempo massimo, per la freddezza di Carlo, per Camilla Parker Bowles che tiene compagnia alla fresca fidanzatina dell’amante di lunga data invitandola al ristorante con l’insegna “Ménage à Trois” (pare che un pranzo ci sia stato davvero, in quel locale che esiste davvero, ma a matrimonio già celebrato). E quindi via con i commenti e con gli avvertimenti, richiesti dal governo inglese oltre che dalla casa reale. Netflix ha rifiutato: gli spettatori sono in grado di distinguere tra la vita romanzata e la vita vera, magari anche di sapere che la vita vera è più noiosa e non prevede montaggi alternati tra la caccia al cervo e la giovane Diana che arriva a Balmoral per la prima volta. 
   

Gli spettatori che avevano mal sopportato il passaggio di consegne, per raggiunti limiti di età, tra Claire Foy e Olivia Colman (priva del piglio regale che il ruolo richiede) sono tornati numerosi. Gli anni di Diana vanno in parallelo con gli anni del primo ministro Margareth Thatcher, e qui davvero ci sarebbe qualcosa da dire sulla verosimiglianza. L’attrice Gillian Anderson di “X files” (il motto dell’antica serie complottista, “La verità è la fuori”, è roba da dilettanti ora che neanche i virologi vogliono vaccinarsi) fa del suo meglio, e insiste sull’accento. Ma si capisce che le simpatie dello showrunner vanno alle debolezze della famiglia reale. Non alla figlia del droghiere che si è fatta da sé contro tutto e tutti. L’attrice quasi debuttante Emma Corrin è bravissima a rifare lo sguardo di Diana, obliquo e sfuggente sotto la frangetta. 

  

PUBBLICITÁ

ROMULUS di Matteo Rovere (dieci episodi su Sky on demand e Now Tv) 

 

  

PUBBLICITÁ

“Il primo re” ha avuto i suoi fan. Pur amando poco il genere bisognava riconoscere al film di Matteo Rovere un gran coraggio, nella sceneggiatura in protolatino e nella produzione di respiro internazionale. Per i distratti: raccontava la storia di Romolo e Remo e la nascita di Roma. “Romulus” è il prequel, ambientato ad Alba Longa: la terra dei trenta re, e relativi popoli, alleati a sud del Tevere. Tutta la drammaturgia, con il senno di poi che contraddistingue le fiction storiche, è costruita sul due. A cominciare dai fratelli che son come la destra e la sinistra, non dovranno mai separarsi (ma la profezia dice il contrario, e le circostanze avverse arrivano quando ancora non siamo a metà del primo episodio).

 
 La pioggia scarseggia, segno che gli dèi sono arrabbiati per qualcosa, il re Nimitor viene cacciato. Da Cuma arriva in regalo un gattino, e lo chiamano Mau.

 

No, non abbiamo fatto confusione con un’altra serie o con i mici di Twitter. E’ che, nonostante i numerosi consulenti e le pretese di fedeltà storica vediamo scene al limite (ampiamente oltrepassato) della credibilità. Gli occhi sono truccati alla moda di oggi. Un giovanotto tenta di rinfrescarsi, e l’amico commenta “ancora ti lavi? stai sprecando l’acqua”. Risposta: “Non voglio mica diventare come te”. E subito il criticone si annusa l’ascella, per controllare (l’umanità non si lavava neanche nell’Ottocento, o vogliono suggerire che i romani inventeranno le terme?). 
     

C’è l’orgetta naturalmente, quella che poi condurrà – a mano a mano che la civiltà avanza – ai fasti di Nerone, con triclini e banchetti, e poi alla serie “Suburra”. Vivono nei boschi, ammazzano chi lascia spegnere il fuoco, ma resta sempre uno sproposito di inquadrature pensose e artistiche, tra una carneficina e l’altra.

  


Matrimoni, divorzi e malavita. Poi l’intrigo internazionale. Da “A suitable boy” all’“Alligatore” fino a “Tehran” E anche la grande corazzata generalista della Rai sceglie modelli internazionali


       
A SUITABLE BOY di Mira Nair (produzione Bbc, ora su Netflix)

 

      

Differenze tra la ricerca di un marito british style e la ricerca di un marito bollywood style. “E’ verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di beni di fortuna debba essere in cerca di una moglie” è la frase che va subito al dunque in “Orgoglio e pregiudizio”, di Jane Austen (anche nella versione di fine Novecento, sappiamo che Bridget Jones teme di morire sola, in pigiama e con la vaschetta di gelato accanto – “mi ritroveranno sbranata dai doberman” – ad apertura di romanzo). 

 
Agli indiani – sia pure prodotti dalla Bbc e diretti da Mira Nair, regista di “Monsoon Wedding” – serve molto tempo in più. Vediamo una festa di matrimonio, nell’India appena dopo l’indipendenza e la separazione dal Pakistan, data fatidica per tutti gli scrittori angloindiani (a partire da Salman Rushdie, “I figli della mezzanotte” racconta bambini dai poteri magici nati dopo la cacciata degli inglesi, 15 agosto 1947). 
   

Una sorella si sposa, tocca alla seconda. Vikram Seth, altro scrittore indiano che ha scelto l’inglese (“l’unica lingua in cui un indiano può parlare a un altro indiano senza offenderlo” è sempre Salman Rushdie a sostenerlo) ha raccontato la scelta del “ragazzo giusto” in un romanzo in versi lungo oltre 1.300 pagine – milletrecento, non c’è uno zero in più). La serie non sente il bisogno di sbrigarsi, e però mette subito le mani avanti. “Rispettiamo tutte le comunità e non vogliamo offendere le credenze di nessuno” è la scritta che compare prima di qualsiasi immagine: nelle sottotrame, c’è un tempio indù da costruirsi di fianco a una moschea. Nessun animale è stato maltrattato, e come se non bastasse “il pappagallo è fatto al computer”.

  

L’ALLIGATORE di Daniele Vicari e Emanuele Scaringi (Rai Play)

   

   

Sette anni di galera per non tradire un amico. Marco Buratti detto l’Alligatore – dai romanzi di Massimo Carlotto che ha collaborato alla sceneggiatura, edizioni E/O – è fin dall’inizio sul versante “malavita di una volta, con un codice d’onore”. Terribilmente dalla parte dei buoni anche quando va contro la legge. Lo si capisce quando fa irruzione in un allevamento di bestiame trovando mangimi scaduti e il cadavere mezzo marcio di un vitello. 
   

Ha la passione per il blues e aveva una donna che il blues lo cantava: in tema, Teho Teardo compone la colonna sonora. Scadono i sette anni di carcere, l’Alligatore esce, viene incaricato di ritrovare un altro ex detenuto (per conto di una bella avvocatessa che lo cerca al bar). Il fuggiasco potrebbe essersi messo in guai seri, con le ultime forze residue: quando in flashback lo vediamo abbandonato sul divano, nel tugurio che gli fa da casa, non sembra in grado di andare molto lontano. 
   

Gli investigatori funzionano meglio a coppie, soprattutto quando sono di poche parole e di lunghi silenzi. E quando i registi hanno in mente le atmosfere di “True Detective” (stagione uno, ovvio, poi Mr Pizzolatto e Mr Fukunaga hanno litigato, succede quasi sempre nelle coppie che funzionano: ognuno è convinto di potercela fare benissimo anche da solo). Quindi arriva l’amico contrabbandiere, con il codino: il pacifista e animalista Max, che gli deve parecchi anni di libertà. 
   

Invece del Mississippi e del bayou, la laguna veneta con i suoi capanni e le barchette. I salti temporali sono meno audaci, ma ci sono. I neon del bar dove l’Alligatore si rifugia – si chiama la Cuccia (non c’era bisogno di telefonarlo, si capiva benissimo lo stesso) – contrastano con il grigio della laguna. Prima serata Rai, è questa la notizia vera: anche la grande corazzata generalista molla “Don Matteo” e sceglie modelli internazionali.

  

   

TEHRAN di Moshe Zonder e Dana Eden (8 episodi su Apple Tv)

 

    

Lo showrunner Moshe Zonder viene da “Fauda”. Tre stagioni da vedere subito, nel caso fossero sfuggite: ormai anche per le serie si comincia a sentire il commento che una volta accompagnava i libri da classifica:  “Non guardo quello che tutti guardano” (dando l’addio alle chiacchiere o alle interpretazioni che erano metà del divertimento con “Lost” di J. J. Abrams e Damon Lindelof). A garanzia dei colpi di scena, e della magnifica scansione in episodi: alla fine di ognuno l’eroe – in questo caso l’eroina – deve trovarsi in assai rischiosa posizione. Quindi niente più partenze lente (lo spettatore va acchiappato subito) né smarmellamenti: ogni episodio deve avere il suo archetto narrativo dentro il grande arco della stagione. Basta con i registi narcisi che annunciano “pensatelo come un film da otto ore”, rinnovando dolori e noie da festival.
     

Siamo su un aereo che decolla dalla Giordania verso l’India, a bordo due ragazzi israeliani che hanno trovato un biglietto last minute (saranno il granello di sabbia che incepperà l’ingranaggio). Qualche fila più in là, una donna con il burka e un uomo che l’accompagna. Un guasto al motore (sospetto assai, ma lo capiamo dopo un po’) costringe un cambio di rotta: sosta forzata a Teheran.
   

Serve per far sbarcare una hacker che, secondo i piani, dovrà sabotare le difese aeree iraniane (Israele progetta l’attacco a un impianto nucleare). Assume l’identità di un’impiegata dell’azienda elettrica, afflitta da un superiore con le mani lunghe: il secondo granello di sabbia che inceppa il meccanismo. Ma la ragazza si rialza, e continua la missione. Tra un cadavere e l’altro, c’è tempo per ritrovare la città da cui era fuggita. Alle calcagna, ha l’intelligence dei Guardiani della Rivoluzione.

  

LA REGINA DEGLI SCACCHI di Scott Frank e Allan Scott (sette episodi su Netflix)

   

    

62 milioni di spettatori solo nel primo mese, garantisce Netflix. Anche nella nostra bolla, tutti parlano con entusiasmo della miniserie tratta dal romanzo di Walter Tevis, scrittore a cui dobbiamo anche “L’uomo che cadde sulla terra” (si ricorda meglio il film di Nicolas Roeg con David Bowie). Con una riserva: Netflix considera spettatori quelli che schiacciano Play e resistono almeno due minuti. Non un gran risultato, e certo non quello che uno showrunner sogna. 
   

Ma i fan dei sette episodi (ognuno ha per titolo una fase della partita) restano molti, anche questo giornale ha fatto la sua parte. Attirano gli scacchi (tra i consulenti c’era Kasparov e gli esperti non hanno fatto notare errori clamorosi). Attira la favola di una fanciulla rimasta orfana per un incidente stradale, cresciuta in un istituto dove alle ragazzine si davano pillole (erano gli anni 50, le anfetamine si prendevano per dimagrire e stare svegli in tempi d’esame) che diventa campionessa di scacchi. Nonostante l’alcolismo (con la complicità della madre adottiva) e un bel po’ di altre pillole mandate giù da adulta. 
   

“The Forrest Gump of Chess”, scrive Vulture (per noi, già svantaggiati dal disinteresse per la scacchiera, la decisiva conferma che non eravamo gli spettatori ideali). La favola di una donna che vince e stravince in mezzo a uomini che mai pronunciano una parola sbagliata o fanno un’avance. Benissimo illustrata, con un bel guardaroba, una bella ricostruzione d’epoca e due brave attrici come Anya Taylor-Joy e Marielle Heller.

   

    
SNOWPIERCER di Josh Friedman e Graeme Manson (prima stagione su Netflix)

   

   

La terra è surriscaldata. Gli ambientalisti cercano di raffreddarla. Sbagliano le dosi e provocano una nuova glaciazione. L’abbiamo detto e ridetto, lo ripetiamo con diletto: l’inizio di “Snowpiercer”, fumetto francese di Jacques Lob e Jean-Marc Rochette nonché film di Bong Joon-ho (il regista di “Parasite”, Palma d’oro a Cannes 2019) osa prendere come bersaglio satirico il pensiero verdeggiante. I sopravvissuti ricchi comprano il biglietto per un treno-arca che su un binario circolare non si ferma mai. I poveri cercano di assaltarlo: fa una certa impressione vedere gente che si picchia per salire su vagoni che ricordano quelli diretti verso i campi di sterminio.

  

Le vicende raccontate in “Snowpiercer - La serie”, arrivata sugli schermi dopo molti inciampi produttivi, accadono sette anni dopo la raggelante catastrofe. Il film era ambientato 15 anni prima, e c’è molto altro materiale da saccheggiare: i fumetti hanno un prequel e un sequel che fa scoprire l’esistenza di un altro treno sullo stesso binario, a rischio collisione. 
     

Il treno è diviso in classi, più secondo Karl Marx che secondo il regolamento ferroviario. I vagoni di coda sono il ghetto dei clandestini senza biglietto, a cui è vietato riprodursi, nutrito con schifezze. Verso la locomotiva, troviamo la sezione agricola e un acquario dove nuota una pescatrice di perle. Poi i ristoranti di lusso e la sauna, con la miliardaria americana che protesta: “Gli europei stanno nudi”. “Le nostre rivoluzioni durano 1001 vagoni” dice il capopolo Andre Layton, un attimo prima di venir richiamato in zona privilegio per far luce su un delitto. Quando il mondo era caldo, faceva il detective alla Squadra omicidi.

  


Il treno diviso in classi di Snowpiercer. La mitologia degli ultimi decenni in The Mandalorian: ne stanno esplorando ogni angolo, e se gli angoli non sono abbastanza li inventano. The Duchess, il passo incerto dallo stand up alla serie. La materia complottista di Utopia. Big Mouth: tra Roth e la lezione di educazione sessuale


  
THE MANDALORIAN di Jon Favreau (seconda stagione su Disney+)

 

     

Oddio, sono già arrivati alla seconda stagione e non abbiamo visto neanche la prima. Però siamo innamorati del piccolino, il Bambino con le orecchie da Yoda e il cappotto di montone rovesciato. Bisogna pur poggiare gli occhi da qualche parte, se non si è fan di “Star Wars” al punto da apprezzare tutto, ma proprio tutto, quel che esce dalla premiata ditta fondata da George Lucas (era così che si diventava giovani miliardari, prima di internet). E’ la mitologia di questi decenni, ne stanno esplorando ogni angolo, e se gli angoli non sono abbastanza li inventano. 
   

Questa serie (la prima in live action, le altre erano animate al computer) si colloca cinque anni dopo “Il ritorno dello Jedi” e venticinque prima del “Risveglio della forza” – un film girato quasi 40 anni fa, e uno uscito nel 2015 con Adam Driver e  Daisy Ridley pronti a prendere il testimone, e a partire verso nuove avventure (molto somiglianti alle vecchie, per la verità). Nella prima stagione abbiamo conosciuto il Mandaloriano, pistolero e cacciatore di taglie. Deve ricuperare colui che ormai tutti chiamano Baby Yoda, anche se la Disney non vorrebbe: ha cinquant’anni, non è affatto piccolo, già sa controllare la Forza (tra le invenzioni che nel primo “Star Wars” sfioravano il ridicolo, questa ha avuto un successo al di là di ogni aspettativa). 

    

Appartiene a una popolazione di esserini che crescono molto lentamente, e forse con Yoda non sono neanche parenti. Va da sé che mezza galassia sta alle calcagna del Mandaloriano, molte sono le trappole e i tradimenti. Acchiappato il bambino, nella seconda stagione la delicata e pericolosa missione – al centro, sempre il Mandaloriano che non ha niente da perdere, mentre i rivali si moltiplicano – è trovare gli altri omini verdi con le orecchie lunghe.

  

THE DUCHESS di Katherine Ryan (otto episodi su Netflix)

 

    

Dallo stand up alla serie, per quanto personale e centrata sul proprio personaggio, è un passo che non sempre riesce. La comica canadese Katherine Ryan (può succedere, è canadese anche Seth Rogen, ed era canadese Mordecai Richler di “La versione di Barney”) ci riesce benissimo, raccontando la vita di una divorziata – e madre di una figlia che si chiama Olive – che fa ceramiche e attacca briga con le altre madri della scuola.
     

Siamo in Inghilterra, il preside è indiano e piuttosto turbato quando circolano foto di nudi nel recinto scolastico. Anche dalla scritta sulla felpa che la sboccatissima madre indossa, in traduzione non felicissima: “La passera più stretta del mondo”. Un dentista bello e giovane le fa la corte, lei lo tiene a distanza: un giorno a settimana soltanto, anche se arriva con il mazzo di fiori. L’ex marito suonava in una band, ora vive su una chiatta. Porta la bimba, cresciuta con la madre e i cani vegani, a caccia di conigli. 
   

L’intricato gruppo quasi familiare si complica quando Elizabeth decide di fare un altro figlio, e del dentista non vuole sentir parlare (troppo compromettente, e poi è ricco, “avrà più soldi per pagare gli avvocati quando divorzieremo”). Cerca un donatore, ma son tutti ventenni ancora con i brufoli. Sarebbe perfetto l’ex marito, che lei accusa di puzzare, e lui risponde – dal pellicciotto indossato a torso nudo – “tutto testosterone”.


UTOPIA di Gillian Flynn  (otto episodi su Amazon Prime)

  

     

Carriere. Gillian Flynn lavorava come giornalista per Entertainment Weekly, prima di essere licenziata (ristrutturazione, la stessa che ha ridotto la frequenza da settimanale, come dichiara la testata, a mensile). Si mise a scrivere “Gone Girl”, bestseller mondiale poi adattato per lo schermo da David Fincher – in italiano hanno aggiunto al titolo “L’amore bugiardo”. 
   

Ora fa la sceneggiatrice di successo, tra i registi che l’apprezzano c’è Steve McQueen di “Widows”, le vedove criminali. A lei è arrivata, dopo svariate peripezie, la versione americana di “Utopia”, serie britannica scritta da Dennis Kelly e andata in onda nel 2014. Le date sono importanti, giacché la materia è complottista. E nerdissima. Comincia da un fumetto ritrovato da una ragazza che eredita la casa dal nonno, e la trova piena di robaccia ossessivamente accumulata. 
   

Titolo del fumetto: “Utopia”, e sappiamo che è il seguito di “Dystopia”. Racconta di uno scienziato, una ragazzina di nome Jessica Hyde, un cattivo a forma di coniglio, vestito con giacca e pantaloni (sì, certo, c’è qualcosa di “Donnie Darko”, il coniglio attira i fuori di testa). La faccenda si complica assai quando scopriamo che si racconta di malattie fabbricate in laboratorio, vecchie conoscenza come Ebola e Zika, e le nuove che verranno. 
   

Un gruppo di nerd, anzi l’intero arco costituzionale dei nerd, pensa sia tutto vero – i fumetti sono verità rivelate, non mondi fantastici da discutere come la letteratura, con spreco di filologia e di nozionismo. Non bastasse, una ragazza dichiara di essere la vera Jessica Hyde (e in effetti il cognome non promette tanto bene). Fate che i complottisti non lo trovino, sono già pericolosi abbastanza.  


BIG MOUTH (quarta stagione su Netflix)

 

  
Un po’ lezione di educazione sessuale. Un po’ “Lamento di Portnoy” (sempre una fitta di rimpianto, per Philip Roth e la sua bravura, almeno ha scansato i rimbrotti dei guardiani della letteratura disinfettata e profumata di pulito). Con i pelosi Mostri degli Ormoni – Maurice per i maschi, Connie per le femmine, con un accenno di tette e lunghe ciglia – che sussurrano sconcezze ogni momento. 
   

Nella prima stagione, un episodio era intitolato “Anche le ragazze si arrapano”. Passandosi di mano in mano un romanzo storico intitolato “La rocca di Gibilterra”, tutto flamenco e corsetti da strappare. Un porno? chiedono i maschi. La sorella maggiore arriva in soccorso: “No, la cosa eccitante è che non fanno sesso”. 
   

Occupa la nicchia “sesso adolescenziale a disegni animati” (per il live action, sempre su Netflix, c’è “Sex Education” con la terapeuta e mamma Gillian Anderson). La quarta stagione comincia con l’episodio “Una nuova identità”. Siamo al corso avanzato, c’è una ragazza trans al campo estivo. Negli altri episodi, un ripasso su come si trattano le femmine, un episodio nella casa stregata e uno in visita al Memoriale dell’11 settembre, sempre con gli ormoni in subbuglio.

  

THE WILDS di Amy B. Harris (Amazon Prime, primo episodio senza abbonamento fino al 25 dicembre sui social della piattaforma)

     

Il naufragio si porta sempre, da “Robinson Crusoe” a “Lost”: l’ultima serie evento, da conversazione davanti alla macchinetta del caffè (anche la macchinetta del caffè se la passa male, con lo smart working). Passando per “Il signore delle mosche”, romanzo del premio Nobel William Golding: ragazzini inglesi che dopo un incidente aereo finiscono su un’isola deserta, e cercano di organizzare qualcosa che somigli a un governo (Robinson ebbe la gran fortuna di naufragare da solo). Fanno prima a trovare una divinità da adorare. 
   

Qui sono tutte femmine: otto ragazze che viaggiavano verso un ritiro femminista. Noi che siamo maligni, e che non viviamo solo di serie, subito pensiamo a “The Wicker Man”, film britannico anni 70 diretto da Robin Hardy su sceneggiatura di Anthony Shaffer, considerato “Il ‘Quarto potere’ dei film horror” (imperdibile se non l’avete visto). Le attrici son quasi tutte facce nuove, tranne la misteriosa Rachel Griffiths. 
   

Ogni episodio racconta le loro vite prima del disastro: la campionessa sportiva, la reginetta della scuola, la ricca e viziata. E tutti i Grandi Drammi che di fronte alla sopravvivenza paiono minuscoli. Rispetto a chi naufragava in tempi remoti, devono imparare a cavarsela senza internet, senza app, senza un tutorial che insegni ad accendere il fuoco con i legnetti e a pescare con mezzi di fortuna. 


EUPHORIA di Sam Levinson (prima stagione,  con l’episodio ponte verso la seconda, on demand su Sky e in streaming su Now Tv)

 

    

Il culto è culto. Non si discute. Anche se un po’ da discutere c’era, sul ritratto della generazione perduta, depressa, cresciuta in famiglie distratte o violente. Dedita alle droghe, al sexting, al conseguente revenge porn, e se va bene prigioniera di relazioni che una volta erano semplicemente sbagliate e ora sono immediatamente “tossiche”.  Generazione Z, dice chi ha tenuto il conto. Senza farsi prendere da tentazioni apocalittiche, gioverà ricordare che Brett Easton Ellis, classe 1964, faceva parte della generazione perduta dei suoi tempi (“Meno di zero” uscì nel 1985) e oggi viene considerato un pericoloso conservatore. E anche Irvine Welsh di “Trainspotting” è ormai in età da nipotini. 
   

All’origine di “Euphoria” c’era una serie israeliana con lo stesso titolo, andata in onda nel 2012: dieci episodi ambientati negli anni 90, tratti da una storia vera e firmati da Ron Leshem (per passaggio di consegne, ha scritto un episodio della serie americana). Fin qui gli antefatti, che hanno fruttato a Zendaya un Emmy come attrice protagonista in una serie drammatica, e sono indiscutibilmente ben girati, montati, fotografati (sarebbe un teen drama, virato in toni cupi e psichedelici). 
   

La seconda stagione è stata rallentata dal coronavirus. Da qui gli episodi ponte, per la gioia dei fan che vogliono sapere cosa è successo a Rue e ai suoi amici, dopo il finale della prima stagione (molto discusso e commentato, purtroppo più dagli psicologi e dalle associazioni dei genitori che da gente che conosce il mestiere dello sceneggiatore). Più che un ponte verso la seconda stagione, “Trouble Don’t Last Always” (I guai non durano per sempre) è un racconto di Natale costruito attorno a Zendaya.


THE UNDOING - LE VERITÀ NON DETTE showrunner David E. Kelley, regia Susanne Bier (sei episodi prodotti da Hbo, su Sky Atlantic e in streaming su Now Tv dall’8 gennaio)
   

   

La più classica delle famiglie felici, a New York. La terapeuta Nicole Kidman mette in guardia le sue pazienti dagli uomini, mai fidarsi troppo (sta pubblicando un libro di sicuro successo, sono titoli che si vendono sempre benissimo). E’ sposata con Hugh Grant che fa il chirurgo, di successo come lei. Viene dal romanzo “Una famiglia felice” di Jean Hanff Korelitz (Piemme). Il titolo inglese era più stuzzicante, diceva più o meno: “Avresti dovuto immaginarlo”. 
   

La più classica delle tragedie che colpiscono le famiglie felici (agli occhi di chi guarda, perlomeno). Uno dei due – qui non si fanno spoiler – non è quello che sembra. Lo showrunner David E. Kelley ha già all’attivo il successo di “Big Little Lies”. La regista danese Susanne Bier, prima della serie “The Night Manager” aveva scritto e diretto film di nicchia, ma attentissimi alle dinamiche familiari come “Dopo il matrimonio” (purtroppo rovinato dal remake americano di Bart Freundlich, con la consorte Julianne Moore nella parte che era di Mads Mikkelsen: neanche i ruolo in commedia si possono impunemente scambiare tra maschi e femmine).
   

Grande successo negli Stati Uniti (era in onda alla fine di ottobre) e in Inghilterra. E l’inevitabile domanda: perché noi dobbiamo aspettare fino alla fine delle feste? Per riprodurre l’effetto cinema che ci faceva sospirare per mesi i film americani?

PUBBLICITÁ