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Meglio critici che filosofi. Appunti sul libro di Maurizio Cecchetti

Alfonso Berardinelli

Concretezza, crudeltà del giudizio, scrittura. Il bello nell’arte di vedere

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Diffido dei filosofi, invidio i critici d’arte. Condivido con i primi la pericolosa tentazione di correre dalle cose ai concetti, di maneggiare categorie generali, teorie e idee che astraggono dai fenomeni sensibili credendo di spiegarli, mentre invece li si rende generici, si smette di percepirne la realtà con la pazienza necessaria. Ammiro e invidio nei critici d’arte (nei pochi buoni) il loro gusto, la loro passione e capacità di usare gli occhi, di conoscere guardando a lungo e a fondo le singole opere d’arte. Nei filosofi la qualità della prosa non ha fatto che peggiorare, disseccandosi e sopprimendo con l’uso vizioso dei concetti la varietà, pluralità e relatività dei fenomeni, degli eventi, degli individui.

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Diffido dei filosofi, invidio i critici d’arte. Condivido con i primi la pericolosa tentazione di correre dalle cose ai concetti, di maneggiare categorie generali, teorie e idee che astraggono dai fenomeni sensibili credendo di spiegarli, mentre invece li si rende generici, si smette di percepirne la realtà con la pazienza necessaria. Ammiro e invidio nei critici d’arte (nei pochi buoni) il loro gusto, la loro passione e capacità di usare gli occhi, di conoscere guardando a lungo e a fondo le singole opere d’arte. Nei filosofi la qualità della prosa non ha fatto che peggiorare, disseccandosi e sopprimendo con l’uso vizioso dei concetti la varietà, pluralità e relatività dei fenomeni, degli eventi, degli individui.

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La prosa filosofica è “priva di sensi”: fa a meno dei cinque sensi credendo di superarne l’effimera, instabile, soggettiva contingenza proiettandola in un “più alto” mentalismo esclusivista. La prosa dei migliori critici d’arte ha invece le qualità letterarie necessarie per descrivere, evocare, esplorare le manifestazioni visive della creatività umana. La prosa filosofica, salvo eccezioni, è di per sé nemica degli individui reali e viventi (nel linguaggio di Heidegger le persone sono “enti”). La prosa dei critici d’arte individualizza accumulando dettagli, osservazioni, particolari sensibili. Mentre la mania filosofica e l’intemperanza astrattiva annichilano il mondo a colpi di “essenzialmente”, “sostanzialmente”, “in ultima analisi” e “in estrema sintesi”, l’arte del guardare, invece, la felicità del vedere del critico d’arte potrebbe avere nella cultura di oggi la funzione educativa di conoscere e valutare “a occhio”, con una mente dotata di occhi.

 

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Purtroppo quello che dico vale piuttosto per la critica che si dedica all’arte del passato che non per la critica d’arte avvocatesca, pubblicitaria, promozionale, commerciale al servizio dell’arte contemporanea. Ormai dovrebbe essere chiaro che l’ottanta per cento dell’arte novecentesca e soprattutto dell’ultimo mezzo secolo non è neppure propriamente “visiva” perché offre ben poco da guardare e da vedere: cosa che ha trasformato moltissimi critici d’arte in apologeti ciechi e concettualisti di opere semplicemente insensate. L’“arte astratta” non è forse una contraddizione in termini? La decadenza di un’arte provoca fatalmente una parallela decadenza della critica che se ne occupa. Dato che non si possono ripetere a lungo delle verità negative sulla stragrande maggioranza di opere e autori, o si smette di fare il critico, o ci si abitua a mentire, a giustificare, a sublimare, alimentando quella che Giuseppe Bonura definì “l’industria del complimento”. Fare complimenti è una necessità mondana, permette di essere accolti bene in società e di vivere tranquilli. Strano fenomeno: in politica ci si massacra quotidianamente, nel cielo della cultura artistica, letteraria e filosofica la lode è d’obbligo.

 

Al critico militante, alle difficoltà e all’etica del suo ruolo, Maurizio Cecchetti dedica il capitolo introduttivo del suo ultimo libro, L’arte è sempre contemporanea (come la storia) (MC Edizioni, 506 pp., 21 euro). Si tratta di una impegnata riflessione e difesa del critico d’arte che osa giudicare oltre che illustrare e documentare. E questo è diventato ormai un problema, perché le istituzioni universitarie non gradiscono, anzi non riescono quasi a concepire che si scrivano saggi propriamente “critici” e non solo studi “scientifici” deontologicamente neutrali. Alla critica non resta che il giornalismo, solo che anche i giornali, per sembrare più autorevoli, preferiscono lunghi e solenni articoli in abiti curiali. “Nelle riviste accademiche o, ancora di più, nei consessi universitari e simili” scrive Cecchetti “da tempo prevale la mentalità dello specialismo (…) il cui risultato è la concentrazione dello studio su elementi sempre più particolaristici con la perdita della capacità di elaborare quadri d’insieme che ridiscutano conoscenze acquisite ma ormai sfuocate”.

 

E’ vero il contrario e lo si dimentica: “La critica militante è l’antitesi stessa dello specialismo”, parte dal presente, dal contesto attuale in cui la cultura vive o sopravvive male. Il coraggio o il semplice dovere di descrivere giudicando presuppone che si accettino i limiti delle proprie conoscenze e la parzialità dei propri punti di vista. L’oggettività della critica non può che passare per la soggettività del critico e deve registrare la sua esperienza dell’arte, mentre gli studiosi, gli specialisti, negano e occultano, si vietano di fare esperienza personale di quello che studiano. L’accademico pretende di trasformare la critica in scienza. Il critico militante, cioè il critico, non cancella in sé il comune spettatore e lettore, lo lascia vivere e parlare, ne usa le reazioni immediate prendendole razionalmente sul serio. La critica accademica è esercitata da chi ci tiene a fare parte di una casta. Il critico è piuttosto un singolo individuo che si fa carico dei rischi che questo comporta. La critica scritta è anche letteratura, come la “stroncatura” appartiene al genere della satira. Qui Cecchetti parte da Baudelaire, secondo cui ogni artista che abbia “il coraggio (o la vanità) di mettersi in mostra” ha anche un “diritto alla crudeltà (franchezza) del giudizio critico. Perfido ma giusto”. Una cultura in cui artisti e critici si abituano a non correre rischi, inevitabilmente deperisce e instupidisce.

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