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La rivoluzione dei pedoni

Nino Grasso

Gli scacchi al tempo dell’Illuminismo: da una visione feudale dello scontro a un approccio razionale e progressista. Per merito di Philidor, il musicista francese che giocava bendato

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"Uno dei miei eroi è Philidor” dice a Beth Harmon l’amico scacchista Harry Beltik, nella quinta puntata della serie tv del momento, “La Regina degli scacchi”. I due stanno lavando i piatti, e lui, con l’intenzione di distogliere la ragazza-prodigio da un approccio al gioco totalizzante e ossessivo, le parla di quel “musicista francese che giocava a scacchi bendato” e al quale aveva scritto una lettera nientemeno che Diderot (“Sai chi è Diderot?”. Risposta interrogativa e titubante: “Rivoluzione francese?”.“Ci sei quasi”), preoccupato che quelle prestazioni potessero danneggiargli il cervello, raccomandandogli di smettere, perché “è da sciocchi correre il rischio di impazzire per fatua vanità”.

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"Uno dei miei eroi è Philidor” dice a Beth Harmon l’amico scacchista Harry Beltik, nella quinta puntata della serie tv del momento, “La Regina degli scacchi”. I due stanno lavando i piatti, e lui, con l’intenzione di distogliere la ragazza-prodigio da un approccio al gioco totalizzante e ossessivo, le parla di quel “musicista francese che giocava a scacchi bendato” e al quale aveva scritto una lettera nientemeno che Diderot (“Sai chi è Diderot?”. Risposta interrogativa e titubante: “Rivoluzione francese?”.“Ci sei quasi”), preoccupato che quelle prestazioni potessero danneggiargli il cervello, raccomandandogli di smettere, perché “è da sciocchi correre il rischio di impazzire per fatua vanità”.

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L’episodio è reale (e chapeau a sceneggiatori che, per una volta, parlano di scacchi con cognizione di causa), benché quest’ultima frase non fosse propriamente di Diderot: il filosofo infatti, forse per risultare più convincente, scrisse all’amico Philidor (il 10 aprile del 1782) riferendogli le parole, virgolettate, del suo antico maestro, ossia monsieur de Légal, scacchista che ha indissolubilmente legato il suo nome a un classico schema di matto in apertura ben noto a tutti i giocatori con un minimo di esperienza.

 

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Oggi pressoché sconosciuto ai non “addetti ai lavori”, il nome di François André Danican detto Philidor (1726-1795), in effetti giganteggia nella storia del Settecento, sia nel campo degli scacchi che in quello musicale. Famoso compositore di musica sacra e maestro dell’opéra-comique, egli mosse i primi passi sulle sessantaquattro caselle a Parigi, nel leggendario Cafè de la Régence, ritrovo abituale di intellettuali, filosofi e scacchisti, e a partire almeno dalla metà del secolo, superato Légal, divenne di gran lunga il più forte scacchista vivente, conservando il primato fino alla morte. Affiancando l’attività compositiva a quella scacchistica, alternava i soggiorni a Parigi con quelli nell’amata Londra, dove si tratteneva infatti quasi ogni anno, di solito da febbraio a maggio, e dove le sue esibizioni in partite “alla cieca”, cioè bendato o spalle alla scacchiera, destarono enorme clamore.

 

Aiuta a farsi un’idea della fama raggiunta da Philidor nel Settecento, e dell’impressione destata nei contemporanei dalle sue performance, il fatto che la voce “scacchi” dell’opera-simbolo dell’Illuminismo, la celebre Encyclopédie, si dilunghi in un vero e proprio panegirico del giocatore-musicista, con passaggi che, a leggerli ora, fanno quasi sorridere, giacché il suo estensore si stupisce per dimostrazioni divenute oggi quasi di routine per un maestro di buona forza, laddove Philidor era capace in realtà di ben altro: “Si capisce facilmente dal numero dei pezzi, dalla diversità dei loro movimenti e dal numero delle case, quanto questo gioco debba essere difficile. Tuttavia a Parigi abbiamo avuto un giovane di 18 anni che giocò contemporaneamente due partite di scacchi senza vedere la scacchiera e vinse due giocatori al di sopra del livello mediocre, ai quali, vedendo la scacchiera, da solo a solo non poteva dare che un cavallo di vantaggio, pur essendo egli di prim’ordine. A ciò aggiungeremo una circostanza di cui siamo stati testimoni oculari. A metà di una delle partite, gli si fece un movimento impossibile e dopo un buon numero di mosse egli se ne accorse e fece rimettere il pezzo dove doveva essere. Questo giovane si chiama Philidor; è figlio di un musicista che ha goduto di reputazione; lui stesso è un grande musicista e il primo giocatore di dama polacca che forse ci sia mai stato. E’ uno degli esempi più straordinari della forza della memoria e dell’immaginazione”.

  

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La supremazia di Philidor sui suoi contemporanei fu tale che si direbbe egli non abbia mai trovato un avversario realmente competitivo, disposto ad affrontarlo “alla pari”: quasi tutte le sue partite giunte fino a noi, infatti, sono incontri a handicap, nei quali cioè egli concedeva all’antagonista un qualche vantaggio più o meno importante.

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A Londra, nel 1749, Philidor pubblicò l’Analyse du jeu des échecs, opera poi ampliata nel 1777 e destinata a diventare una pietra miliare del pensiero scacchistico. Solo nella seconda metà del Settecento essa conobbe dieci edizioni in francese, sette in inglese, tre in tedesco, una in danese. Dopo il 1800, la diffusione dell’opera esplose, superando le cento edizioni, in un gran numero di lingue, e il libro divenne un must irrinunciabile per gli intellettuali. Voltaire fu tra i primi a prenotarlo; Benjamin Franklin, emissario a Parigi dei neonati Stati Uniti d’America, cercò Philidor per farselo autografare; Thomas Jefferson, divenuto presidente degli Stati Uniti, in una lettera del 1801 scrisse al genero di spedirglielo a Washington dalla sua residenza in Virginia (“avvolto in carta resistente”, raccomanda), fornendo precise indicazioni sul punto della biblioteca in cui reperirlo.

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Con il successo del libro, la fama di Philidor si estese ben presto in tutto il continente, spalancandogli fra l’altro, nel 1751, le porte della corte di Federico il Grande di Prussia, appassionato di musica e molto attratto anche dagli scacchi, sebbene non se ne conosca con certezza la reale competenza nel gioco. Genio militare fra i più celebrati della storia, dal quale lo stesso Napoleone, suo grande ammiratore, avrebbe poi tratto insegnamento, Federico diede prova anche contro Philidor delle sue qualità di sottile stratega: pare infatti che si sia ben guardato dal giocare personalmente contro di lui, limitandosi a vederlo strapazzare i più forti tra i cortigiani della sua residenza reale di Potsdam, nonostante il vantaggio di un cavallo regolarmente accordato loro.

 

L’importanza dell’Analyse risiede nel fatto che si tratta del primo vero manuale di scacchi della storia. I libri pubblicati in precedenza, infatti, non erano altro che raccolte di posizioni e di problemi, corredate di consigli relativi a quelle specifiche situazioni. Philidor, all’epoca solo ventitreenne, fu invece il primo a trattare gli scacchi con un approccio rigoroso e quasi “scientifico”, a costruirli come una disciplina autonoma, enunciandone principi e regole di generale validità, e richiamandosi addirittura a Leibniz. Da questo punto di vista egli ci appare un perfetto figlio del razionalismo del secolo dei lumi, come testimoniano anche l’adozione dei termini “analisi” e “teoria” e l’inaugurazione del sistema didattico-divulgativo della partita commentata mossa per mossa, termini e sistema che diventeranno di uso comune nel mondo degli scacchi (e lo sono tuttora).

 

Oltre a questa rivoluzione di metodo, però, Philidor ne operò anche una sostanziale, introducendo negli scacchi importantissime novità teorico-strategiche, relative alla concreta conduzione della partita. Prima di Philidor si giocava a scacchi in un modo che sembrava rispecchiare la visione feudale della guerra. Nella concezione medievale questa era un’attività nobile ed eroica, riservata a signori e cavalieri adusi a misurare il loro valore col metro della valentìa militare, da esibire perlopiù in duelli individuali; così, negli scacchi, si tendeva ad utilizzare soprattutto i pezzi più forti, cioè Torri, Cavalli, Alfieri, Regina, che quella nobiltà cavalleresca simboleggiavano nel microcosmo del gioco, sottovalutando gli umili pedoni, immagine invece dei fanti rastrellati tra le file del popolo minuto.

 

Quel modo di giocare spavaldamente aggressivo, detto “italiano” per la provenienza dei migliori giocatori del Cinque-Seicento, era caratterizzato da sortite di singoli pezzi e da minacce brutali portate direttamente contro il Re avversario, confidando nel colpo di genio brillante, nell’inventiva tattica e nell’errore dell’avversario, senza troppa cura per il coordinamento, la pianificazione, la difesa, e soprattutto senza alcuna valorizzazione dei pedoni.

 

La rivoluzione di Philidor consistette proprio nella rivalutazione dei lenti e deboli pedoni, snobbati dai seguaci del gioco “all’italiana” per la loro scarsa incisività nei prediletti attacchi all’arma bianca. Il francese, al contrario, intuì e sottolineò per primo l’enorme importanza dei pedoni quale elemento strategico-strutturale del gioco, ai cui movimenti occorre prestare più attenzione ancora che a quelli degli altri pezzi, e li definì espressamente l’“anima degli scacchi”.

 

Lungi dall’uniformarsi alla prassi dei donchisciotteschi assalti dei pezzi maggiori contro il Re nemico, nella ricerca illusoria di un rapido e glorioso scacco matto, Philidor insegnò invece che bisognava pazientare, puntando sulla forza potenziale insita nei pedoni, cioè la loro possibilità di trasformarsi in Regine una volta raggiunta l’ultima traversa. La strategia suggerita era dunque quella di utilizzarli come una sorta di falange da far avanzare in modo lento ma inesorabile, assegnando ai pezzi il compito non già di gettarsi lancia in resta contro il nemico, bensì di preparare e sostenere tale avanzata dalle retrovie, protetti dal muro dei pedoni stessi.

 

Non meraviglia che la pragmatica concezione philidoriana abbia dovuto attendere il secolo dei lumi per – si passi il gioco di parole – vedere la luce: l’idea di un nobile uomo d’armi che in battaglia si fa schermo coi propri scudieri, e anzi assegna loro il ruolo di forza d’urto decisiva, lavorando per favorirne l’“ascesa” e rinunciando all’esibizione del proprio valore, difficilmente poteva attecchire in epoca feudale o nel pieno dell’Ancien Régime, alla cui etica ed estetica doveva risultare naturalmente ripugnante. La sensibilità illuministica settecentesca rappresentava invece un humus quanto mai fertile per la sua genesi, sia per la razionalità dell’approccio, sia per le simboliche implicazioni progressiste e meritocratiche che vi erano sottese. Implicazioni che lo stesso Philidor esplicita nel suo libro, allorché (nella prefazione all’edizione del 1749), a proposito del pedone che avanza fino alla promozione a Regina, fa un parallelo con le leggi della guerra, campo nel quale, scrive, “solo il merito può contribuire all’avanzamento di carriera di un soldato semplice” (Napoleone dirà: “Nello zaino di ogni soldato c’è il bastone del maresciallo”).

 

 

Era una svolta radicale: negli scacchi, per mano di Philidor, una “rivoluzione francese” avveniva con quarant’anni esatti di anticipo sulla presa della Bastiglia! Quando scoppierà la Grande Rivoluzione, l’anglofilo Philidor inizialmente simpatizzerà con le prospettive moderate di riforma della monarchia in senso costituzionale. Poi, però le cose precipiteranno, per la Francia e per lui, e di fronte al fanatismo dei sanculotti a nulla varranno la presunta impronta “democratica” del suo stile scacchistico e la rivoluzione concettuale che esso implicava.

 

Alla fine del 1792 Philidor ottiene dal Comitato di Salute pubblica un passaporto per Londra. La decapitazione di Luigi XVI (21 gennaio 1793), la rottura delle relazioni diplomatiche tra Francia e Inghilterra (24 gennaio) e la dichiarazione di guerra (1° febbraio) lo sorprendono quindi in territorio britannico, e lui vi resta bloccato. E’ controverso, per la verità, se vi si trovasse more solito, o se avesse anticipato la partenza per mettersi al sicuro, avendo annusato l’aria poco favorevole che tirava a Parigi per chi, come lui, era amico, protetto e frequentatore di nobili e sovrani, e percettore di pensioni come musicista di corte. Fatto sta che, il 28 marzo del 1793, un rapporto di polizia affibbia a Philidor la terribile etichetta di émigré, che lo equipara ai fuoriusciti nemici della Rivoluzione: un crimine assimilato alla cospirazione e punibile con la confisca dei beni e la condanna a morte. Gli amici e la famiglia (una moglie, una figlia e quattro figli) avviano una procedura per dimostrare che il campione si trovava legittimamente in Inghilterra e consentirne il rientro, ma la cosa va per le lunghe.

  

  

A Londra, privo di mezzi, Philidor è costretto a mantenersi soprattutto con le sue prodigiose simultanee alla cieca tanto criticate da Diderot. Lungi dall’essere esibizioni di “fatua vanità”, queste diventano, in quelle drammatiche circostanze, la principale fonte di sostentamento del genio in esilio, oltre all’aiuto generoso ma sporadico degli amici scacchisti londinesi. Nel novembre del 1793 Philidor scrive all’adorata moglie: “Il mio principale talento e le mie opere che mi sono costate tante nottate adesso non mi servono a un bel niente. Davvero non mi sarei mai immaginato che il gioco degli scacchi diventasse la mia unica risorsa in questi giorni della mia vita”.

 

Neanche la caduta e l’esecuzione di Robespierre, nel luglio del 1794, accelerano la riabilitazione di Philidor, che ancora nell’estate del 1795 si vede rifiutato il salvacondotto per il ritorno in patria. Solo, povero, depresso e gravemente malato di gotta, muore a Londra il 31 agosto di quell’anno, poco prima che la famiglia ottenga l’agognata cancellazione del suo nome dalle liste di proscrizione.

 

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