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Il viaggio senza fine di Odisseo nella meravigliosa blasfemia di Kazantzakis

Edoardo Rialti

In italiano l’opera del poeta che si fece nuovo Omero

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Ci sono libri che sono mari, vastità nei quali stendersi alla luce sanguigna del tramonto e fare il morto, sostenuti da una forza infinitamente più grande, che sa fasciare e lavorare, nella quale dolori e gioie sono compresi in un abbraccio che ha il sentore dell’inevitabile. Non si tratta semplicemente della loro mole (sebbene pura essa abbia un ruolo nello stabilire l’andatura e la qualità d’un certo respiro) e la calma che infondono non ha niente di narcotico, possono scottare e tagliare a ogni pagina, eppure parificano i nostri grovigli, le estasi e le sconfitte col ritmo del mondo, come gli sbuffi dolceamari dei polmoni dopo un orgasmo. Per quanto mi riguarda, i primi nomi che vengono alla mente, pur così diversi, sono quelli Celine e Tolstoj, Shikibu, Proust e il Roth di Pastorale, ma la voce fondatrice resta sempre, ovviamente, quella di Omero stesso, che portai nuotando con un braccio alzato fino a dei massi più al largo, quand’ero ragazzino, per leggerlo sotto il sole, mentre Poseidone gorgogliava tutto intorno tra gli scogli. È un grande conforto perciò quando uno di questi mari si stende improvvisamente innanzi per la prima volta, o ci viene riconsegnato da una traduzione attesa: quanto finalmente offertoci dal lavoro ventennale di Nicola Crocetti (cui dobbiamo già tanto per la conoscenza della grande letteratura greca moderna in Italia) colma una lacuna storica e costituisce un grandioso passo avanti, un ampliamento e al tempo stesso un ritorno, che prende le mosse proprio dall’ultimo verso dell’Odissea. 

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Ci sono libri che sono mari, vastità nei quali stendersi alla luce sanguigna del tramonto e fare il morto, sostenuti da una forza infinitamente più grande, che sa fasciare e lavorare, nella quale dolori e gioie sono compresi in un abbraccio che ha il sentore dell’inevitabile. Non si tratta semplicemente della loro mole (sebbene pura essa abbia un ruolo nello stabilire l’andatura e la qualità d’un certo respiro) e la calma che infondono non ha niente di narcotico, possono scottare e tagliare a ogni pagina, eppure parificano i nostri grovigli, le estasi e le sconfitte col ritmo del mondo, come gli sbuffi dolceamari dei polmoni dopo un orgasmo. Per quanto mi riguarda, i primi nomi che vengono alla mente, pur così diversi, sono quelli Celine e Tolstoj, Shikibu, Proust e il Roth di Pastorale, ma la voce fondatrice resta sempre, ovviamente, quella di Omero stesso, che portai nuotando con un braccio alzato fino a dei massi più al largo, quand’ero ragazzino, per leggerlo sotto il sole, mentre Poseidone gorgogliava tutto intorno tra gli scogli. È un grande conforto perciò quando uno di questi mari si stende improvvisamente innanzi per la prima volta, o ci viene riconsegnato da una traduzione attesa: quanto finalmente offertoci dal lavoro ventennale di Nicola Crocetti (cui dobbiamo già tanto per la conoscenza della grande letteratura greca moderna in Italia) colma una lacuna storica e costituisce un grandioso passo avanti, un ampliamento e al tempo stesso un ritorno, che prende le mosse proprio dall’ultimo verso dell’Odissea. 

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Si intitola così infatti – sua ennesima, impugnata blasfemia – anche il poema di Nikos Kazantzakis, che col mistico numero di 33.333 versi in decaepstasillabi giambici prosegue le avventure di Odisseo, il quale sgominati i Proci lascia nuovamente moglie e figlio, fugge con Elena, fonda città, scala montagne per carpire Dio, fa proseliti e distrugge, si addentra nelle solitudini polari artiche. Al pari del suo eroe, Kazantzakis è stato un uomo universale, “maledettamente integro e vivo” come Eliade scrisse di Papini, al pari d’altri della sua generazione come Gide, del Vasto, Chesterton, Unamuno. Anticristo per la Chiesa ortodossa, “comunista e corruttore di giovani” per l’intellighenzia, la stampa greca e i regimi di destra, ha tradotto Dante, Goethe, Darwin, salvato e impiegato 7.500 parole non registrate da alcun vocabolario,  amandole “allo stesso modo in cui rapisci la donna amata, con gioia corsara”, scritto fiumane di saggi, sceneggiature, romanzi, creato lo Zorba che fu interpretato da Anthony Quinn e immaginato l’ultima tentazione di Cristo che sarebbe poi diventata il film di Scorsese. Nel 1956, ricevendo il Nobel per La Peste, Camus gli telegrafò “voi l’avreste meritato cento volte di più”. Ma l’opera di tutta la vita, quella su cui tornò ancora e ancora, nelle varie numerose stesure, resta appunto la “sua” Odissea che amplia, rimacina, uccide e resuscita come significato quella del gran padre dell’epica. Omero adoperava venti epiteti per Odisseo? Kazantzakis arriva a forgiarne cento. Aggettivi e locuzioni per lui costituivano tutt’altro che un abbellimento retorico, erano il midollo dell’esperienza poetica stessa, la sua tragica necessità, riflesso della vastità del cosmo e del prisma della nostra stessa anima. Il suo eroe navigatore, seduttore, solitario e trascinatore è dunque il Distruggimondi, Legno Storto, Briccone, Millevolti, Milleaffanni, le sue avventure comprendono le scoperte di Nietzsche e Bergson, ma anche le missioni di Cristo e Don Chisciotte e ovviamente la parabola di Prometeo, suo grande padre, primo “Drago Portafiaccole”. 

    
Le sue avventure si spingono fino ai ghiacci polari dei marinai maledetti di Coleridge e Poe, conoscono il rifiuto scanzonato d’ogni imbalsamazione etica o intellettuale –“segue meglio gli antenati chi se li lascia dietro”- e i tormenti dell’anima che si specchiano nel vasto specchio del mondo: “Scorpione si rotola in cielo con la coda piegata, / e gli occhi calmi, sanguigni, incantano la terra nera. / La mente, come Scorpione, solleva con gioia la coda, / si posa in terra, e a goccia a goccia stilla il suo veleno”. Ma – ed è certamente parte significativo della novità dell’opera – stavolta il poema non canta solo lui e la sua unicità inarrivabile, ma tutta una grandiosa fratellanza chiassosa, gli uomini e le donne che decidono di accompagnarlo, per un tratto di strada o fino all’ultima spiaggia, “mezzi matti e svitati, affascinanti rubacuori, ladruncoli dalle dita lunghe, corsari e disgraziati, cuori liberi, gente che non teme demoni o dèi”. C’è posto per ciascuno sul suo vascello, grassoni lussuriosi, poeti, vecchi lupi di mare che osservano le coste e mormorano “Molte volte mi chiedo che cos’è mai questo mondo, / che razza di nave pirata è mai l’anima umana. / Giuro sul mare, abbiamo dentro mostri complicati, / il cuore è un polpo, lo sbatti, ma resta sempre duro!”.

   
Ogni sogno e ambizione, ogni banchetto con pane dolce e miele scuro, ogni notte d’amore o solitudine di ghiaccio è abbracciato e purificato dalle parole che il re vagabondo rivolge con quel suo sorriso scaltro, noto a chiunque l’abbia incrociato nel corso dei secoli, negli adattamenti per bambini o negli esametri dattilici e che qui trionfa in una nuova sintesi e incarnazione: “La Libertà, fratelli, non è un vino, né una donna dolce, né beni nelle dispense, non è un figlio nella culla; è un canto altero e solitario che nel vento muore!”. Questo canto e questa superbia, che danzano sulla spiaggia della propria sconfitta, sfracellata miseria e infinita, irriducibile regalità e fierezza, sono troppo vasti per essere analizzati, liberano a loro volta dalla nostra capacità di descriverle. Per questo è un grande conforto sentirle levarsi ancora una volta, come una fiaccola agitata nella nebbia, come un sogghigno complice che luccica nella notte: “Tutto svanisce come bruma, soltanto un grido resta / sospeso per brevi istanti sulle calme acque notturne: / Avanti, amici, soffia propizia la brezza della Morte!”. 
 

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