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"Non morire". Il Pulitzer per la non fiction di Anne Boyer

Simonetta Sciandivasci

La vita, la malattia. Un memoir che è molto di più di un lungo reportage dalle corsie

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Il Pulitzer per la non fiction, quest’anno, lo ha vinto un memoir che si chiama “Non morire”. Lo ha scritto una poetessa (e infatti è bellissimo, preciso e difficile), Anne Boyer e in Italia è stato tradotto da Viola Di Grado per La Nave di Teseo. In copertina c’è una siringa con intorno un serpente. Parla di che cosa succede quando ci si ammala di cancro al seno, perché Boyer lo ha avuto, si è curata, si è salvata. Non c’era la pandemia quando si è sottoposta a chemio e operazioni, ma rifletteva già, in modo impressionantemente simile al nostro di adesso, sul contagio, la connessione tra corpo umano e ambiente, la differenza tra ambiente e natura, la domanda sulla matrice sociale e culturale della malattia. Scrive Boyer: “Ci viene detto che il cancro è un intruso da combattere o un aspetto errante di noi stessi, o una tipologia superambiziosa di cellula, o un’analogia del capitalismo, o un fenomeno naturale con cui convivere. Ci viene detta solo la metà appariscente di una probabilità e mai la metà recondita: la fonte del cancro pervade il nostro mondo condiviso”. Del virus abbiamo sentito, detto, pensato cose molto simili, tuttavia senza trattenerle, rimuovendole ancora prima che il vaccino diventasse una prospettiva concreta. La condizione umana Anne Boyer la descrive perfettamente quando dice che non esiste mobile più tragico del letto, per la rapidità con cui precipita da luogo in cui facciamo l’amore a luogo in cui potremmo soccombere. Eppure, il suo libro non dice in alcun modo che la malattia è coessenziale alla vita. Dice, invece, che non si muore di morte naturale e che ci sono alcune malattie che non solo abbiamo prodotto ma che alimentiamo, pur curandole: guariamo i malati, non estirpiamo il male. Il cancro al seno, in questo, è stato per lei rivelatore. Le ha fatto scrivere che “La storia della malattia non è la storia della medicina: è la storia del mondo”. Per questo che il suo memoir è molto di più di un dettagliato reportage dalle corsie e raccoglie ciò che la malattia le ha consentito: “apprendere da quello che osserviamo”, come scrisse Harriet Martineau nel suo “Vita nella camera dell’ammalata”. Il seno condiziona l’identità di una donna in un modo particolare e ambivalente: da una parte la caratterizza, dall’altra la espone al dono di sé. Il seno è, o meglio rappresenta la parola del corpo femminile e Boyer lo vede e ci fa i conti da un letto, uno dei molti letti che la pandemia ci ha fatto dimenticare perché quando cambiano le emergenze, si produce un abbandono. Di salute delle donne in pandemia si è parlato molto poco: sappiamo che il virus ha ucciso più uomini ma pure che la tenuta psichica delle donne ha risentito molto di più. Questo è un tassello, uno dei molti, che compromette e aggrava quell’abbandono. “Il corpo mi ha tradita è una frase che a volte viene gridata e a volta mormorata. Di solito accompagna chi si è sentito dire d’avere il cancro. Quando il corpo è quello femminile e quando viene ferito in una parte così densa di significato come il senso, lo smarrimento dell’identità è profondo e doloroso”, dice Giovanna Franchi, responsabile Servizio Psiconcologia del Centro di riabilitazione oncologia Ispro-Lilt di Firenze. Lo dice in un intervento su Megazinne, una rivista che si occupa di “tette e cultura pop” creata da due amiche, Ilena Ilardo e Giulia Vigna, una editor e l’altra grafica, che durante il lockdown si sono rese conto di quanto sia polverosa, bigotta, povera e noiosa la narrazione del corpo femminile e di come da quella narrazione il seno sia o del tutto estromesso o presentato come addobbo, dettaglio che fa del corpo femminile un mistero irresistibile per chi lo guarda o un ristoro insuperabile per chi lo tocca. Un dettaglio che, soprattutto, ingombra chi lo possiede. Scrive Boyer che di cancro al seno nessuno o quasi nessuno pensa che si possa ancora morire e chi lo sa se questa è una sottovalutazione legata a come ce le figuriamo, le tette: potenti, materni, invincibili, divine. Il seno allatta il Bambino Gesù: non può ammalarsi. “Tutte le informazioni sul mio cancro sembravano fabbricate per confondermi”, scrive Boyer, sottolineando un punto cruciale e forse anche contraddittorio: una donna s’accorge che il seno non è attaccato al corpo ma è il suo corpo, solo se e quando quel seno s’ammala. Megazinne nasce con l’intento di sanare quella frattura, magari soltanto facendoci ridere, ammirare fotografie, fumetti, fotogrammi di vecchi film di Fellini. Il serpente intorno alla siringa sulla copertina di Boyer vuole dire che esistono le malattie ed esistono i veleni. Su questa differenza dovremmo spalancare lo sguardo, anziché chiuderlo illudendoci che si possa non morire.

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Il Pulitzer per la non fiction, quest’anno, lo ha vinto un memoir che si chiama “Non morire”. Lo ha scritto una poetessa (e infatti è bellissimo, preciso e difficile), Anne Boyer e in Italia è stato tradotto da Viola Di Grado per La Nave di Teseo. In copertina c’è una siringa con intorno un serpente. Parla di che cosa succede quando ci si ammala di cancro al seno, perché Boyer lo ha avuto, si è curata, si è salvata. Non c’era la pandemia quando si è sottoposta a chemio e operazioni, ma rifletteva già, in modo impressionantemente simile al nostro di adesso, sul contagio, la connessione tra corpo umano e ambiente, la differenza tra ambiente e natura, la domanda sulla matrice sociale e culturale della malattia. Scrive Boyer: “Ci viene detto che il cancro è un intruso da combattere o un aspetto errante di noi stessi, o una tipologia superambiziosa di cellula, o un’analogia del capitalismo, o un fenomeno naturale con cui convivere. Ci viene detta solo la metà appariscente di una probabilità e mai la metà recondita: la fonte del cancro pervade il nostro mondo condiviso”. Del virus abbiamo sentito, detto, pensato cose molto simili, tuttavia senza trattenerle, rimuovendole ancora prima che il vaccino diventasse una prospettiva concreta. La condizione umana Anne Boyer la descrive perfettamente quando dice che non esiste mobile più tragico del letto, per la rapidità con cui precipita da luogo in cui facciamo l’amore a luogo in cui potremmo soccombere. Eppure, il suo libro non dice in alcun modo che la malattia è coessenziale alla vita. Dice, invece, che non si muore di morte naturale e che ci sono alcune malattie che non solo abbiamo prodotto ma che alimentiamo, pur curandole: guariamo i malati, non estirpiamo il male. Il cancro al seno, in questo, è stato per lei rivelatore. Le ha fatto scrivere che “La storia della malattia non è la storia della medicina: è la storia del mondo”. Per questo che il suo memoir è molto di più di un dettagliato reportage dalle corsie e raccoglie ciò che la malattia le ha consentito: “apprendere da quello che osserviamo”, come scrisse Harriet Martineau nel suo “Vita nella camera dell’ammalata”. Il seno condiziona l’identità di una donna in un modo particolare e ambivalente: da una parte la caratterizza, dall’altra la espone al dono di sé. Il seno è, o meglio rappresenta la parola del corpo femminile e Boyer lo vede e ci fa i conti da un letto, uno dei molti letti che la pandemia ci ha fatto dimenticare perché quando cambiano le emergenze, si produce un abbandono. Di salute delle donne in pandemia si è parlato molto poco: sappiamo che il virus ha ucciso più uomini ma pure che la tenuta psichica delle donne ha risentito molto di più. Questo è un tassello, uno dei molti, che compromette e aggrava quell’abbandono. “Il corpo mi ha tradita è una frase che a volte viene gridata e a volta mormorata. Di solito accompagna chi si è sentito dire d’avere il cancro. Quando il corpo è quello femminile e quando viene ferito in una parte così densa di significato come il senso, lo smarrimento dell’identità è profondo e doloroso”, dice Giovanna Franchi, responsabile Servizio Psiconcologia del Centro di riabilitazione oncologia Ispro-Lilt di Firenze. Lo dice in un intervento su Megazinne, una rivista che si occupa di “tette e cultura pop” creata da due amiche, Ilena Ilardo e Giulia Vigna, una editor e l’altra grafica, che durante il lockdown si sono rese conto di quanto sia polverosa, bigotta, povera e noiosa la narrazione del corpo femminile e di come da quella narrazione il seno sia o del tutto estromesso o presentato come addobbo, dettaglio che fa del corpo femminile un mistero irresistibile per chi lo guarda o un ristoro insuperabile per chi lo tocca. Un dettaglio che, soprattutto, ingombra chi lo possiede. Scrive Boyer che di cancro al seno nessuno o quasi nessuno pensa che si possa ancora morire e chi lo sa se questa è una sottovalutazione legata a come ce le figuriamo, le tette: potenti, materni, invincibili, divine. Il seno allatta il Bambino Gesù: non può ammalarsi. “Tutte le informazioni sul mio cancro sembravano fabbricate per confondermi”, scrive Boyer, sottolineando un punto cruciale e forse anche contraddittorio: una donna s’accorge che il seno non è attaccato al corpo ma è il suo corpo, solo se e quando quel seno s’ammala. Megazinne nasce con l’intento di sanare quella frattura, magari soltanto facendoci ridere, ammirare fotografie, fumetti, fotogrammi di vecchi film di Fellini. Il serpente intorno alla siringa sulla copertina di Boyer vuole dire che esistono le malattie ed esistono i veleni. Su questa differenza dovremmo spalancare lo sguardo, anziché chiuderlo illudendoci che si possa non morire.

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