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Perché la Prima della Scala è stata un successo, nonostante il Covid

Fabiana Giacomotti

Con uno spettacolo per la tv, realizzato in due sole settimane, il teatro si è fatto popolare ed è entrato nelle case dei telespettatori raggiungendo il 14,7 per cento di share. Il racconto della serata, con le voci migliori e quelle fuori luogo 

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Duemilioniseicentottomila spettatori, pari al 14,7 per cento di share. Ricalibrati sull’anno scorso, quando la Prima si tenne di lunedì e alle 18, per il Teatro alla Scala e per Rai che l’ha diffusa su Raiuno si tratta di un ottimo risultato. Mancano ancora i dati dei collegamenti social e sulle piattaforme online, straniere e italiane, compresa dunque Raiplay.  Abbiamo trascorso una serata scaligera eccentrica, di logistica e architettura dettata dal Covid (noi, dopo averne dato ampia lettura in anteprima sul Foglio di lunedì 7, alle 16.45 abbiamo preso posto con un’altra trentina di ospiti criticanti su una poltroncina che, a occhio e croce, doveva essere stata un secondo violino, leggio compreso); non la dimenticheremo per molti motivi, il primo dei quali è l’orgoglio – orgoglio da italiana, oh yes, e da milanese, oooohhh yes – per la macchina organizzativa della Scala.

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Duemilioniseicentottomila spettatori, pari al 14,7 per cento di share. Ricalibrati sull’anno scorso, quando la Prima si tenne di lunedì e alle 18, per il Teatro alla Scala e per Rai che l’ha diffusa su Raiuno si tratta di un ottimo risultato. Mancano ancora i dati dei collegamenti social e sulle piattaforme online, straniere e italiane, compresa dunque Raiplay.  Abbiamo trascorso una serata scaligera eccentrica, di logistica e architettura dettata dal Covid (noi, dopo averne dato ampia lettura in anteprima sul Foglio di lunedì 7, alle 16.45 abbiamo preso posto con un’altra trentina di ospiti criticanti su una poltroncina che, a occhio e croce, doveva essere stata un secondo violino, leggio compreso); non la dimenticheremo per molti motivi, il primo dei quali è l’orgoglio – orgoglio da italiana, oh yes, e da milanese, oooohhh yes – per la macchina organizzativa della Scala.

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Quello spettacolo di tre ore, qualunque cosa ne abbiate pensato, è stato progettato, montato, sceneggiato, costruito, provato e girato in due settimane. Non era uno spettacolo per il teatro, bensì per la tv, e per di più una tv di tardo pomeriggio e prima serata. Sì, molto popolare, non si può definire altrimenti, e non si possono definire altrimenti certi omaggi di puro cliché alla Dolce Vita, a Federico Fellini, ai grandi personaggi del Novecento. Non ci sarebbe stato il tempo, e nemmeno c’era l’intenzione, di fare avanguardia. Dunque, quando a fine serata il regista Davide Livermore ha estremizzato il concetto dicendoci che se anche lo spettacolo avesse contribuito a far alzare la testa dal tavolo da stiro a una sola signora si sarebbe ritenuto soddisfatto, abbiamo capito e concordato. Abbiamo compreso anche la sua tirata sul valore della cultura e sui danni che le sono stati inflitti negli ultimi vent’anni da una politica mirata a valorizzare altre priorità; è vero che ogni euro investito in cultura si moltiplica per sei e che dunque con la politica si mangia eccome, ma vorremmo ricordargli che nella sua città di origine, Torino, l’attuale sindaca Appendino, cinquestelle doc, ha vinto le ultime elezioni dichiarando esattamente l’opposto con uno slogan che ci è rimasto impresso per l’evidente contraddizione: “Meno file ai musei, meno file alle mense dei poveri”. Prendersela con la cultura è molto facile e lo fanno tutti da tempi antichi.

 

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Capitolo voci: ci hanno rapite, letteralmente, e in particolare quella di Lisette Oropesa, goffo anatroccolo divenuto cigno e molto appropriatamente vestita in Giorgio Armani, che ci ha fatto intravvedere a quale Lucia di Lammermoor avrebbe saputo dare vita, nel mondo sliding doors che non stiamo vivendo. Abbiamo chiesto lumi in teatro sulla straordinaria ed eterna potenza vocale di Placido Domingo, ormai quasi ottantenne e reduce da quaranta giorni di Covid, “esperienza terribile”. Nessuno sa spiegarsela: non è solo tecnica, è dono del Signore e della volontà. Abbiamo pianto come fontane (sempre da milanesi oh yes), sulle riprese della nostra città dall’alto, in queste settimane ovattate di coloriture regionali e relativi permessi di vivere o meno la nostra vita: questo l’avevamo già scritto, ma teniamo a ribadirlo.

 

Respiri sospesi e incantati ambosessi per Roberto Bolle nella sua pièce de résistence sulle note di Davide Dileo, fondatore dei Subsonica, e della Gymnopédie di Erik Satie, in un gioco di luci e laser ipnotizzante. Poi, naturalmente, ci sono cose che non ci sono piaciute, e sono concentrate negli snodi attoriali. Tutti gli interpreti scelti da Livermore erano invero debolucci ad eccezione di Caterina Murino, a cui è stata affidata la tirata di Triboulet, il “Rigoletto” originale del dramma di Victor Hugo, in una scelta registica inedita e molto centrata; era bellissima in Dolce&Gabbana, e perfettamente a proprio agio col francese in un ruolo maschile. Abbiamo sofferto quando Laura Marinoni ha caricato di drammaticità fuori luogo una poesia di delicato pudore sulla perdita come “Ho sceso, dandoti il braccio, un milione di scale” (un amico che ha appena perso il compagno di una vita ci ha telefonato in diretta, furibondo). Pettinata a onda rigida di lacca come l’Enrica Invernizzi milionaria dei tempi che furono, collana di scena appartenuta a Maria Callas, abito Valentino, Michela Murgia ha letto un suo testo sull’afflato autenticamente popolare dei compositori e il ruolo rivoluzionario delle figure femminili raccontate dalla musica lirica. Ci è sembrato molto ovvio; forse, però, rispondeva alla necessità di risvegliare le coscienze più trasversali, insomma la gente, attorno al valore di quest’arte nata popolare. Bisogna comunque riconoscere che la sua antinomia sull’“opera che è uno spettacolo ricco ma non per ricchi” è geniale, e soprattutto è coraggioso averla declamata nel teatro che più di ogni altro, nei secoli, ne ha cambiato la percezione. Ma forse questo punto meriterebbe un’ulteriore riflessione.

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