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il foglio del weekend

Il tè del potere

Eugenio Cau

Dal Tea party alla Guerra dell’oppio, la bevanda più bevuta al mondo racconta la storia del nostro modo di produrre e consumare. Un libro

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Il tè è la bevanda più popolare al mondo, secondo solo all’acqua potabile. Anche se a noi italiani, civiltà della moka, il tè appare come una eventualità pomeridiana di cui soltanto gli inglesi possono andare fieri, praticamente tutto il resto del mondo tranne l’Europa continentale e l’America lo beve. E se è vero che il caffè, almeno da qualche anno, è molto di moda, che Starbucks e i suoi emuli si espandono nel mondo e che perfino nel Regno Unito si è cominciato a bere meno tè, quando si parla di mero consumo di liquido il tè ha un primato imbattibile. Secondo una stima del Global tea forum, nel 2017 se ne bevevano 56 litri per persona all’anno, contro 21 litri di caffè. La ragione principale di questa supremazia sono India e Cina, che da sole fanno due quinti della popolazione mondiale e continuano a preferire un tè nella loro tazza. I due paesi sono molto importanti nella nostra storia, ci torniamo.

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Il tè è la bevanda più popolare al mondo, secondo solo all’acqua potabile. Anche se a noi italiani, civiltà della moka, il tè appare come una eventualità pomeridiana di cui soltanto gli inglesi possono andare fieri, praticamente tutto il resto del mondo tranne l’Europa continentale e l’America lo beve. E se è vero che il caffè, almeno da qualche anno, è molto di moda, che Starbucks e i suoi emuli si espandono nel mondo e che perfino nel Regno Unito si è cominciato a bere meno tè, quando si parla di mero consumo di liquido il tè ha un primato imbattibile. Secondo una stima del Global tea forum, nel 2017 se ne bevevano 56 litri per persona all’anno, contro 21 litri di caffè. La ragione principale di questa supremazia sono India e Cina, che da sole fanno due quinti della popolazione mondiale e continuano a preferire un tè nella loro tazza. I due paesi sono molto importanti nella nostra storia, ci torniamo.

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Un’altra ragione per cui i bevitori di tè potrebbero andare fieri della loro bevanda è che per il caffè ancora non si sono combattute guerre – ma mai disperare. Per il tè, invece, sì. Il Tea party, prima di diventare un fenomeno becero e prototrumpiano nell’America del Ventunesimo secolo, in quella del Diciottesimo ebbe un ruolo iconico nella Rivoluzione americana, come è ben noto. Il tè fu scelto perché il Parlamento britannico aveva da poco promulgato il Tea Act, una legge speciale che modificava la tassazione sul tè in modo iniquo nei confronti delle colonie. Ma pochi anni prima erano stati tassati in maniera simile anche zucchero, caffè, vino e altri prodotti, e insomma: ci piace pensare che i patrioti americani travestiti da indiani Mohawk avrebbero potuto gettare nelle acque del porto di Boston qualunque altra mercanzia inglese, ma che sapessero che niente avrebbe fatto infuriare gli oppressori coloniali come veder sprecate 342 casse di buon tè.

 

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L’altra guerra combattuta per il tè fu quella che impropriamente è chiamata prima Guerra dell’oppio. C’entra ancora la Gran Bretagna, ovviamente, mentre dall’altra parte c’era l’Impero cinese. Gli storici le hanno chiamate così, guerre dell’oppio (ce n’è stata più d’una) perché la storia l’hanno scritta i britannici e, delle due, era meglio dare risalto alla dipendenza dei cinesi per gli stupefacenti. Ma la vera ragione delle Guerre dell’oppio, soprattutto la prima, era la dipendenza della Gran Bretagna dal tè.

  

Dapprima amato dagli aristocratici inglesi (Caterina di Braganza, la moglie portoghese di re Carlo II, ne andava matta), poi raccomandato dai medici europei (il dottore olandese Cornelius Decker, alla fine del Seicento, ne consigliava un consumo ingente, e sosteneva di berne tra le 50 e le 100 tazze al giorno lui stesso), il tè tra il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo fu adottato dapprima dalla classe media e poi dal proletariato inglese, e divenne la bevanda nazionale, specie dopo che, all’inizio del Settecento, fu concepita la disgraziata idea di berlo col latte. Era molto amato dai religiosi, e consigliato come sostituto degli alcolici. Fu anche la prima bevanda psicoattiva consumata dalle masse europee, e ci sono storici che sostengono che abbia avuto un ruolo nello sviluppo della Rivoluzione industriale: il consumo di caffeina avrebbe consentito agli operai di lavorare di più e ai padroni di allungare i turni.

  

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Nel 1946, in un saggio tutto dedicato all’arte del tè (“A Nice Cup of Tea”), George Orwell scrisse che il tè è “un pilastro di civiltà in questo paese”. Ma per trasformare il tè nel pilastro che è diventato, gli inglesi del Diciottesimo secolo dovevano prima superare un problema. Il tè, allora, si produceva soltanto in Cina. E, sembrava a quel tempo, cresceva soltanto in Cina. E l’impero cinese, sotto la dinastia Qing, non era precisamente una potenza liberista. L’imperatore aveva acconsentito di commerciare con gli inglesi e con gli altri barbari europei desiderosi di tè cinese (soprattutto gli inglesi, comunque) a condizioni strettissime: la Compagnia delle Indie orientali e gli altri mercanti avevano accesso a un solo porto cinese, quello di Canton (oggi Guangzhou). Anche lì, potevano commerciare soltanto con i mercanti cinesi autorizzati dal governo. Dovevano alloggiare in quartieri separati e non potevano superarne i confini. C’era poi un altro problema, forse ancora più grande: gli inglesi volevano qualcosa dai cinesi, ma i cinesi non ricambiavano. Se gli inglesi erano diventati dipendenti dal tè, l’impero cinese non aveva bisogno di niente che la Gran Bretagna producesse. E anche se ne avesse avuto bisogno non l’avrebbe voluto dai barbari. Dunque l’imperatore ordinò che l’unico modo che gli europei avevano per ottenere beni cinesi (soprattutto il tè, ma anche porcellana e seta) era pagare in argento. Il commercio del tè rimaneva conveniente, perché in Cina l’argento era valutato circa il doppio che nel resto del mondo e perché, soprattutto, il tè nel Diciottesimo secolo europeo era ancora un bene di lusso, venduto a prezzi di molte volte superiori il loro costo in Cina.

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In quegli anni attorno al tè si creò un enorme commercio mondiale: le miniere in America Latina estraevano argento per comprare il tè, e l’argento passava di solito per le Filippine, colonia spagnola; per zuccherarlo, furono create enormi piantagioni di canna da zucchero nei Caraibi (le Indie occidentali); per coltivare le piantagioni erano importati schiavi dall’Africa. Poi arrivò l’oppio. A un certo punto, la dipendenza degli inglesi dal tè era diventata insostenibile. Una parte consistente delle entrate dello stato derivava dalle imposte sul tè (ne sanno qualcosa i rivoluzionari americani) e lo squilibrio commerciale tra Europa e Cina era sempre più grande. Nella seconda metà del Settecento, dunque, gli inglesi si accorsero che potevano combattere la loro dipendenza con un’altra: cominciarono a vendere oppio ai mercanti cinesi, coltivato nel Bengala, una regione nel subcontinente indiano di cui la Compagnia delle Indie aveva preso il controllo. Ben presto, le navi inglesi (e non solo, ma soprattutto inglesi) arrivavano a Canton cariche di oppio. I mercanti vendevano l’oppio ai colleghi cinesi, che pagavano in argento. Con l’argento, gli inglesi compravano tè, sete e porcellane da riportare in patria. Problema risolto. L’oppio divenne una piaga sociale grave in Cina, e le mancate entrate in argento provocarono grossi scompensi all’economia. Dopo che l’Impero cinese ebbe deciso di bloccare il commercio dello stupefacente, gli inglesi nel 1839 trovarono una scusa per dichiarare guerra, in nome del libero commercio: la prima Guerra dell’oppio. La vinsero, costrinsero la Cina ad aprire i suoi commerci e già che c’erano si presero pure Hong Kong. 

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La Guerra dell’oppio è una macchia nella storia dell’occidente, ma fu anche un momento fondamentale del suo sviluppo. La Gran Bretagna diventava una potenza mondiale battendo un impero millenario, quello cinese; l’altro grande impero asiatico, l’India, era ormai praticamente una colonia. E gli enormi profitti generati dal commercio triangolare dell’oppio e del tè tra Cina, India e Gran Bretagna diedero un impulso straordinario allo sviluppo capitalistico europeo. Qui introduciamo un libro. E’ uscito quest’anno negli Stati Uniti, l’editore è Yale University Press e l’autore è Andrew B. Liu, che è uno storico alla Villanova University in Pennsylvania. Si intitola “Tea War. A History of Capitalism in China and India”, e uno pensa subito che parli della Guerra dell’oppio – in effetti ne parla, ma brevemente. Liu è più interessato a quello che successe dopo la guerra. Gli inglesi, infatti, dopo aver avuto l’idea geniale di commerciare l’oppio in Cina per bilanciare la loro dipendenza da tè, nei primi decenni del Diciannovesimo secolo cominciarono a pensare: perché non ce lo coltiviamo da soli, questo tè?

  

Intorno agli anni Trenta dell’Ottocento, scrive Liu, gli inglesi avevano provato a far crescere il tè in Sud America, nel Mediterraneo, nel sud-est asiatico. Ma la Camellia sinensis, cioè la pianta del tè (tutti i tè, neri bianchi verdi e oolong, derivano dalla stessa pianta, cambia solo la lavorazione) è difficile da coltivare fuori dal suo ambiente naturale. Le cose cambiarono quando, sempre all’inizio dell’Ottocento, gli inglesi trovarono una varietà locale di Camellia sinensis in Assam, una regione indiana sotto il governo britannico. Quella varietà è conosciuta oggi come Camellia sinensis assamica. Nacque così l’industria del tè indiana.

  

I primi tentativi furono risibili. Fu mandata una spedizione in Cina per reclutare esperti della coltivazione del tè, ma gli inglesi che partirono alla ricerca pensavano che bastasse essere cinesi per essere intenditori, e tornarono con un bel gruppetto di carpentieri e macellai. Con gli anni, però, l’industria del tè in India divenne sempre più forte, e cominciò a competere duramente con quella cinese. Questa competizione è la “Tea War” di cui si occupa Andrew B. Liu nel suo libro, ed è importante perché – ormai lo si sarà capito – nel Diciannovesimo secolo il tè era diventato una commodity globale, il cui business aveva diramazioni e conseguenze in tutto il globo. La grande competizione tra il tè cinese e quello indiano fu la prima lotta commerciale globalizzata e, sostiene Liu, fu molto moderna: i mercati (cinese, indiano, britannico, più tutti gli altri che abbiamo citato) erano fortemente integrati tra loro.

 

Anche i modi di produzione erano sorprendentemente moderni. Il capitalismo prima della Rivoluzione industriale è spesso chiamato “capitalismo commerciale”, e non è vero capitalismo: è una forma primitiva di accumulazione di capitale che prevede lo spostamento di beni da un mercato in cui sono economici a uno in cui valgono molto. Le prime fasi del commercio del tè erano così. Ma l’avvento della lotta per il dominio del mercato tra Cina e Assam cambiò le cose: spinte dalla competizione e dall’aumento della domanda globale, in assenza di macchinari agricoli le industrie del tè cinese e indiana utilizzarono metodi di incremento della produttività arcaici, ma molto moderni nella loro concezione. In Cina, per esempio, se fino al Diciottesimo secolo la coltivazione e la lavorazione del tè era opera di monaci e di piccole aziende famigliari, nel Diciannovesimo le fabbriche del tè diventarono enormi. Al loro interno, si bruciavano bastoncini di incenso per segnare il tempo, e ogni operaio doveva aver prodotto una certa quantità di tè prima che il bastoncino bruciasse: sembra quasi un’idea fordista. 

   
Secondo Liu, il tè è importante per la storia del capitalismo non soltanto perché aiutò gli operai a lavorare di più; non soltanto perché il commercio triangolare di tè e oppio diede impulso alla potenza commerciale britannica, ma anche perché la sua storia mostra che il capitalismo, quanto meno come logica sociale, è nato ben prima e ben più lontano di quanto si immagini. Mostra anche come certe civiltà, che al tempo erano definite “feudali”, in realtà tanto feudali non erano. La guerra del tè, alla fine, fu vinta dall’India: verso la fine del Diciannovesimo secolo la produzione di tè indiana superò di gran lunga quella cinese, e soltanto alla fine del Ventesimo secolo la Cina è tornata a essere il più grande produttore al mondo. 
Oggi di guerre per il tè non se ne combattono più, ma il tè ha ancora un ruolo politico. Negli ultimi mesi i manifestanti per la democrazia a Hong Kong, in Thailandia e a Taiwan hanno creato la “milk tea alliance”, una specie di gemellaggio dovuto al fatto che nei tre paesi il tè si beve col latte (e con molto zucchero e altri ingredienti), mentre nella Cina autoritaria, per esempio, si beve senza. Così il tè, dopo le guerre combattute in suo nome, è diventato anche un simbolo di democrazia. Il caffè è una bevanda leggera.

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