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Il mito e "il mondo greco come un romanzo"

Quella lingua morta che suscita ancora meraviglia e sgomento della vita

Sergio Belardinelli

In ogni capitolo del libro di Maria Grazia Ciani il racconto di una storia che sorprende ogni volta. Il corpo a corpo fatto di pensiero e immaginazione a cui ci costringe la lingua greca

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Se volete trascorrere un pomeriggio di assoluto godimento, leggetevi questo libro: Maria Grazia Ciani, Le porte del mito. Il mondo greco come un romanzo (Edizioni Marsilio, 2020). Uno dei massimi grecisti del nostro paese, traduttrice dell’Iliade e dell’Odissea, già professore di Letteratura greca e storia della tradizione classica all’Università di Padova, l’autrice si schermisce per essersi concessa questa “specie di evasione”, per essersi lasciata andare alle impressioni, alle ipotesi, alla sperimentazione su quegli stessi temi indagati per anni con il rigore e l’acribia del filologo. Ma è una fortuna che l’abbia fatto.

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Se volete trascorrere un pomeriggio di assoluto godimento, leggetevi questo libro: Maria Grazia Ciani, Le porte del mito. Il mondo greco come un romanzo (Edizioni Marsilio, 2020). Uno dei massimi grecisti del nostro paese, traduttrice dell’Iliade e dell’Odissea, già professore di Letteratura greca e storia della tradizione classica all’Università di Padova, l’autrice si schermisce per essersi concessa questa “specie di evasione”, per essersi lasciata andare alle impressioni, alle ipotesi, alla sperimentazione su quegli stessi temi indagati per anni con il rigore e l’acribia del filologo. Ma è una fortuna che l’abbia fatto.

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Ogni capitolo di questo libro è un breve, intenso racconto di una storia che anche per coloro che la conoscono o la riconoscono va sempre a finire in modo sorprendente. Faccio soltanto un esempio. Il primo capitolo intitolato Il signore del sette è dedicato alla porta, al suo significato simbolico, al suo essere “apertura e chiusura”, quindi alla sua ambivalenza, alla sua fragilità: “un punto che diventa il perno di ogni guerra d’assedio”. Immediato l’andare della memoria alle porte Scee dove si giocano i destini della guerra di Troia o alle mitiche sette porte di Tebe intorno alle quali si dipanano le tragedie di Eschilo.

 

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E precisamente a queste porte nonché ai personaggi che le hanno rese tanto famose fa riferimento Maria Grazia Ciani, prima di sorprenderci con una conclusione piena di maestria e di bellezza: “Tutta la letteratura che i Greci ci hanno lasciato non somiglia forse, nella polivalenza dei suoi significati, a una cittadella cinta da una ragnatela invisibile ma solida come l’acciaio, nella quale si aprono – a volte misteriose e incomprensibili – le porte di un significato occulto, che sembra derivare da una sfera sconosciuta, protetta da una fantomatica porta e da un dio che è il dio della luce, della poesia e degli oracoli?”. Ecco l’ingresso di Apollo, senza il cui aiuto “non saremo mai certi di aver penetrato il mistero che avvolge la lingua greca come un’invisibile cinta di mura perpetuamente in stato d’assedio”.

 

Ed ecco l’ingresso di quello che certamente è il vero protagonista di questo libro, il mito che ha prodotto tutti i miti: la lingua greca, una “lingua morta” che proprio per questo, per comprenderla almeno un po’, riducendo in qualche modo la “lontananza”, ci costringe a una sorta di corpo a corpo fatto di ascolto, pensiero, immaginazione, in una parola, capacità di “guardare”. “Guardare: finché tra i serpenti della testa di Medusa si riesce a intravedere il satiro ghignante, finché l’occhiaia vuota non diventa sguardo, finché lo sfregio che cancella la bocca non si trasforma in un grido soffocato”, verrebbe da aggiungere: finché tutto non riprende vita, ma in un modo inevitabilmente mediato, esposto al rischio dell’arbitrio e dell’errore, dal momento che si lavora “per ipotesi”: “le mille congetture della filologia!”, dice la Ciani.

 

Seguono i capitoli sulle parole per dire la luce e l’oscurità, l’Olimpo e il regno dei morti, il “bagliore riflesso” delle armi e il “chiarore rossastro” del fuoco che incute paura, il prodigio che è l’uomo e gli artifici sotto i quali vengono nascoste le umane, grecissime miserie, che si riverberano nella morte di Socrate e degli eroi delle Arginuse. Bellissime le pagine dedicate all’Iliade come “il poema dei corpi”, corpi straziati, divelti, aperti e in questo modo resi disponibili ai medici che si aggregano agli eserciti come una sorta di esame autoptico. Tramite le parole di una lingua morta, veniamo insomma accompagnati capitolo dopo capitolo in un mondo che, forse proprio in virtù delle sue ambivalenze e delle sue intrasparenze, è ancora in grado di suscitare la meraviglia e lo sgomento della vita colta nella sua originaria e spesso brutale immediatezza.

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Sintomatiche, almeno secondo me, le molte pagine dedicate a Odisseo: polytropos, ma anche polymechanos, l’astuto inventore di strumenti, l’uomo che all’occorrenza sa farsi nessuno, l’uomo paziente che sa essere anche crudele, e soprattutto, almeno nel nostro immaginario liceale, l’uomo che ha osato sfidare l’ignoto. Come dice la Ciani, “Le inviolate mura di Troia non cedono alla forza di Achille (ed era questo il suo sogno), ma all’abile escamotage di Odisseo. Le armi non serviranno a fronteggiare un avversario agguerrito, ma a scannare i troiani, uomini donne bambini, colti nel sonno. Non è guerra, ma strage. Su quel cavallo Achille non sarebbe mai salito. È il segno di un passaggio epocale”. Erano incominciati i tempi moderni, verrebbe da dire. Ma sarebbe un’altra storia.

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