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Il foglio del weekend

Una statua per amica

Michele Masneri

Una vita in lotta contro la burocrazia artistica. In vent’anni Anna Coliva ha trasformato la Galleria Borghese. Contro i benecomunisti della cultura

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Anna Coliva fa parte della schiera più chic del mondo di oggi: quelli che il Covid l’hanno già avuto, gli immunizzati. Quelli invitabili a cena. Ma non ha chiuso solo col Covid: dopo vent’anni di trionfi la dama più temuta, ammirata, contestata, dell’arte romana, sta per lasciare la direzione della Galleria Borghese. “Franceschini non mi ha salutato, strano, tra tutti i direttori generali uscenti. Tutti maschi. Sarà mica che sono donna?”. Non mi fare il lamento femminista proprio tu. Hai fatto tremare le burocrazie artistiche di mezzo mondo: maschili, femminili, non binarie. “Quando decisi di andare alla Galleria Borghese i colleghi raccolsero le firme. Per salvarmi. Ritenevano che andare a dirigere un museo fosse una specie di avventatezza o disgrazia in cui m’ero andata a ficcare. Pare abbastanza incredibile, oggi, ma la galleria era chiusa al pubblico da quindici anni”. Come quindici anni? “Sì, erano cascati dei calcinacci, chiusero tutto per i restauri, poi se ne dimenticarono. Alla fine mi venne un’idea. Tramite Capucci, il sarto, che era un comune amico, riuscii a portarci Donatella Dini, moglie dell’allora premier. Feci il diavolo a quattro, per trovare un sistema. Dissi a Capucci: tu fammela venire, al resto penso io. La Dini salì su un’impalcatura, camminando sui ponteggi, e facendosi largo tra i teli di cellophane,  e sbucò in faccia al ratto di Proserpina del Bernini. Un’apparizione. Naturalmente bastò quello. In tre giorni il governo sbloccò i fondi”, e la Galleria Borghese fu salva.

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Anna Coliva fa parte della schiera più chic del mondo di oggi: quelli che il Covid l’hanno già avuto, gli immunizzati. Quelli invitabili a cena. Ma non ha chiuso solo col Covid: dopo vent’anni di trionfi la dama più temuta, ammirata, contestata, dell’arte romana, sta per lasciare la direzione della Galleria Borghese. “Franceschini non mi ha salutato, strano, tra tutti i direttori generali uscenti. Tutti maschi. Sarà mica che sono donna?”. Non mi fare il lamento femminista proprio tu. Hai fatto tremare le burocrazie artistiche di mezzo mondo: maschili, femminili, non binarie. “Quando decisi di andare alla Galleria Borghese i colleghi raccolsero le firme. Per salvarmi. Ritenevano che andare a dirigere un museo fosse una specie di avventatezza o disgrazia in cui m’ero andata a ficcare. Pare abbastanza incredibile, oggi, ma la galleria era chiusa al pubblico da quindici anni”. Come quindici anni? “Sì, erano cascati dei calcinacci, chiusero tutto per i restauri, poi se ne dimenticarono. Alla fine mi venne un’idea. Tramite Capucci, il sarto, che era un comune amico, riuscii a portarci Donatella Dini, moglie dell’allora premier. Feci il diavolo a quattro, per trovare un sistema. Dissi a Capucci: tu fammela venire, al resto penso io. La Dini salì su un’impalcatura, camminando sui ponteggi, e facendosi largo tra i teli di cellophane,  e sbucò in faccia al ratto di Proserpina del Bernini. Un’apparizione. Naturalmente bastò quello. In tre giorni il governo sbloccò i fondi”, e la Galleria Borghese fu salva.

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C’è tutta la Coliva in questa storia: genio, potere, mondanità. “Ma quale mondanità”. Ma se ti si vede solo alla Furibonda (la villa di Marisela Federici); “Tutto per lavoro”, sospira, sul divano damascato di casa sua, tra i mobili antichi. “Viecce te. Viecce te a fare questo lavoro. E’ tutta una cosa di contatti. E’ l’unico modo per trovare i soldi e le sponsorizzazioni”. (Esiste anche una sua foto in barca in cui spiega a una Naomi Campbell perplessa le sculture del Bernini). Piglio da rezdora bolognese, anche se lei, che tutti chiamano “la bolognese”, a Bologna ci è solo nata. “Sono venuta via a pochi mesi. Mio padre, che era ingegnere, progettava macchinari per costruire i carburatori della Ducati, che aveva appena messo su uno stabilimento a Roma. Ha studiato dalle suore via Druso, sotto la casa di Alberto Sordi. Mai visto nessuno entrare o uscire. Da bambina pensavo che fosse una bugia dei miei genitori per allietarmi il percorso da casa a scuola. Invece poi era vero”. E poi il liceo. “Manuale di storia dell’arte di Argan. Io decido: nella mia vita voglio fare quello che fa quel signore lì. Volevo studiare la storia dell’arte, e volevo studiarla con lui. Così poi all’università mi presento e  scopro che c’erano due cattedre, a seconda dell’ordine alfabetico. C’erano Argan e Cesare Brandi.” Beh, due pazzeschi. “Beh, insomma, Brandi tanto caruccio, però non c’è paragone. Finisco con Argan, un modo completamente diverso di studiare la storia dell’arte, senza le date”. E poi, una vita al ministero dei Beni culturali. Un sogno. O un incubo. Prima un sogno. ”L’emozione di vedere incarnata una disciplina. Le soprintendenze come avamposti politici. Nel senso alto del termine, perché il nostro patrimonio è sempre e costantemente a rischio, incredibilmente. Sempre sulle barricate”. Barricadera e felice.

 

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Prima destinazione a Parma, dopo aver vinto il concorso: e siccome un altro mio idolo era Palma Bucarelli, i miei amici artisti della scuola romana cominciano a sfottermi: ecco Parma Bucarelli. A Parma però si lavorava bene, si arrivava alle otto, non si andava neanche a prendere il caffè. Poi sono arrivata a Roma e pensavo che fosse uguale”. Non proprio. “Tento di far battere a macchina delle lettere a quello che era il nostro segretario: ‘a dottoré, io devo uscì; a dottoré, io oggi nun jaa faccio’. Come doppio lavoro faceva il commesso in un negozio di abbigliamento in centro. Io ho avuto tre denunce per comportamento antisindacale, e sai, le ho vinto tutte e tre. Ho speso tutto quello che ho guadagnato in avvocati”. Tra le disavventure, anche una denuncia anonima qualche anno fa, le danno dell’assenteista, poi tutto rientra. Le dicono che scappava in palestra. In effetti sei molto in forma, dicono anche che non mangi. “Ma chi mangia più oggigiorno”. A tenerla in forma anche gli slalom tra le burocrazie romane. “Alla Galleria Borghese il telefono era di quelli neri di una volta, di bachelite, e la cornetta era rotta da vent’anni, ed era attaccata con un cerotto, e loro ogni volta alzavano il cerotto, lo toglievano, poi lo rimettevano, per vent’anni così”.

 

Lei ha tolto il cerotto, ha inaugurato una stagione di mostre leggendarie, portando alla Galleria Borghese anche l’arte moderna e – orrore – la moda. Fontana, recentemente, ma è rimasta storica quella su Azzedine Alaïa. Ma lei ricorda soprattutto “quella sui Borghese e l’antico, una cosa irripetibile, ricostruzione della collezione. Come vedere il Colosseo con tutti i marmi e tutte le statue”. Avevi le chiavi del più bel museo del mondo. Di notte giravi di nascosto? Parlavi con la Paolina? “In realtà sono più affezionata alla Proserpina del Bernini. Anche se quando c’è la luna piena grazie alla luce che entra da una certa finestra la Paolina diventa tutta di ghiaccio blu, una cosa incredibile”. “Ma il gioco che mi piaceva di più era osservare quei visitatori che entravano nella stanza degli Imperatori e rimanevano sconvolti davanti al ratto di Proserpina. Quella scena l’ho vista migliaia di volte, loro che rimangono senza fiato. E’ sempre più raro oggi. Tutti arrivano con le loro app, che ti spiegano tutto prima. Anche i musei, in questa fase di transizione che stiamo vivendo, fanno le app. Tutti fanno queste app: perché prendi un qualunque ragazzotto e ti fa la app, e tu ti sei scaricato la coscienza”. Intanto i musei stanno chiusi. “Il Louvre o la National Gallery hanno lo stesso problema nostro, al momento, non guadagnano. Ma i nostri sono più fragili. Il pericolo è che l’autonomia dei musei finisca, visto che col crollo dei biglietti sarà il ministero a dover dare soldi ai musei, e non viceversa”.

 

Per questo all’estero si vendono i quadri, uno scandalo. “Ma che scandalo. Intanto sono musei che i quadri se li son comprati, e dunque se li possono anche vendere. E poi si vendono gli avanzi di magazzino, mica i capolavori. Girano certe croste”. La Ferragni agli Uffizi va bene? “Benissimo. Anche al Louvre il direttore Martinez ha fatto andare Beyoncé. Però c’è una differenza: al Louvre Beyoncé ti fa vedere un sogno, lei che si aggira tra i capolavori. Un sogno per un’audience globale, di inarrivabilità. A Firenze invece il direttore Schmdt è sceso giù e è andato a farsi fotografare con la Ferragni, col gomitino, come usa adesso col Covid. Ma come si fa! Il gomitino, capisci! Passi dal sogno planetario alla roba per andare sui giornali locali”.

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Ma a parte il gomitino, cosa dovrebbero fare i poveri musei? “Studiare. Non studia più nessuno, fanno le app. E intanto quando riapriranno, quando tutto ricomincerà, a Roma non verrà più nessuno. Giusto i turisti dell’Europa dell’est, quelli col torpedone”. Non essere così catastrofista. “Gli americani di sicuro non tornano. Gli americani se tornano tornano solo per vedere degli oggetti. Il Colosseo, la Domus Aurea. Oggetti, appunto. Non cultura. Del resto il ministero si chiama dei beni culturali. Non della cultura”

 

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Che ne facciamo di questi oggetti? “Li facciamo visitare. Li mostriamo. Li usiamo in forma parassitaria. Siamo sfruttatori maldestri e furbastri, oltretutto, che pensiamo si possa fare cultura senza lavorare. I grandi studi poi non si fanno più in Italia. Se tu prendi una bibliografia su Raffaello, ormai all’ottanta per cento è anglofona. E stiamo parlando di Raffaello”. Ma l’Italia è il paese più bello del mondo, abbiamo la maggior parte delle opere d’arte. “Non è mica vero”. Ma come. “Abbiamo una percentuale molto alta di un patrimonio che va dal XIII fino agli inizi del XVIII. Il gotico per esempio non ce l’abbiamo. Archeologia ce n’è molto più in Siria”. Quindi siamo un paese di mitomani.  “No, di parassiti”.

  

Va bene, dacci la tua ricetta per risollevare la cultura in Italia. “Hai visto Emily in Paris?”. Non è il riferimento che ci si aspetterebbe da una esimia storica dell’arte, ma certo che sì. “Ecco, quando la ragazzotta arriva da Chicago, è intimidita. Si mette sull’attenti. Quando tu arrivi da Chicago il tuo massimo desiderio è essere accettata dalla cultura francese, da Parigi: farne parte, come qualcosa di molto esclusivo e inaccessibile. Gli americani, vedi come si rimettono in sesto quando passeggiano a Avenue Montaigne. Mica stanno in ciabatte come da noi. Perché da noi arrivano solo i poveri”. Ma sei matta? L’arte dev’essere accessibile, le città inclusive. Così ci insegnano i professori benecomunisti. “Ai professori benecomunisti, che non sanno gestire manco ‘na zucchina, auguro la legge del contrappasso. Devono andare a dirigere la pinacoteca delle Marche, e il loro stipendio dovrà essere basato sul numero dei biglietti che riescono a vendere”. Ma le nostre città d’arte… “Ahhh!”. Sobbalza. “Quest’orrenda espressione che ci siamo inventati noi: In verità sono parchi te-ma-ti-ci. L’unica forse è Venezia, che si salva perché succedono delle cose internazionali, grazie alla Biennale, al festival del Cinema, alle fondazioni. Ma Roma e Firenze sono due parchi. Non c’è vita. Ci sono i percorsi obbligati tra oggetti e luoghi. E poi che fai a Roma? Quale americano vorrebbe vivere la cultura romana? Qui c’è il folklore. Venire a Roma è come andare a Marrakesh”.

  

Tento di obiettare, disperatamente. “Ah, no? Allora dimmi. Oggi dov’è che sei stato? Hai visto qualcosa di interessante? Un ristorante fico. Dimmi un ristorante fico. Quando sei stato al Moro e al Bolognese, basta”. Solo Folklore. Meo Patacca. Si fa seria. “L’improvvisa mancanza dei turisti crea aree totalmente desertificate in città già stremate come Roma, soprattutto in quello che si chiama con un’orribile espressione, centro storico: è un gergo da agenzia immobiliare, come ‘finiture di pregio’. E se hai già deciso che questo è centro storico, vuol dire che ritieni il resto uno scarto. E’ per questo che le nostre città coi nostri centri storici sono città orrende. A Parigi e a Londra non hai il centro storico”. Niente, è un fiume in piena. “Roma parte già scarnificata e abbrutita, sembra che si sia ritirata la marea, con le sue navi e con gli abitanti morti, tutti gli impiegati pubblici in smart working, le transenne abbandonate e i monopattini sparsi per tutta la città, anzi per il centro storico. E la monnezza stratificata e forse ormai tutelata dalla soprintendenza”. Evviva. Pensiamo positivo. “Alla fine anche il Covid è arrivato in ritardo a Roma, in questa città morta, residuale. A Milano il Covid si prende lavorando, a Roma i romani l’avran preso a Porto Rotondo, a Ibiza, a Cortina, quest’estate. Comunque in vacanza”. Ma l’hai preso pure tu! “Credo da una segretaria, che sarà stata a Porto Rotondo: io a Porto Rotondo non ci sono mai stata in vita mia”.

  

Torniamo a Parigi, che è meglio. “Parigi, come Londra, come Berlino, sono global town. La loro meraviglia è che tu ci vai perché sogni di essere ammesso alla vita normale di queste città, non è che vai a vedere i monumenti. Berlino per esempio è orrenda. Ma tutti ci vogliono andare. L’unica global town in italia è Milano. A Milano non è che vai per andare a vedere il Cenacolo. Peccato però che è piccola, troppo piccola. Però è sulla vita normale delle città che dobbiamo puntare. Quando tu vai a Parigi, loro ti costringono a fare la loro vita, non sei tu abitante che ti devi adeguare al livello dei turisti dell’Europa dell’Est che arrivano col torpedone, come a Roma”. Ce l’hai con questi turisti dell’Est col torpedone. “Ma bisogna capire che il turismo non è un bisogno primario: è un lusso. Bisogna lavorare sul concetto di lusso di massa, quello che ha fatto la Francia negli ultimi duecento anni. La cultura in sé non interessa a nessuno. Interessa il rito, essere in una condizione di esclusività”.  

  

A proposito di esclusività, oltre alle mostre, anche pranzi leggendari nella tua Galleria Borghese. Quello per Valentino, finito nel “Last emperor”. Quello per un grande imprenditore musicale russo, “figlio di professori eh, non un russo mafioso. Dodicimila euro solo di glicini appesi. Confezioni di caviale da mezzo chilo”. Sospira. “La serata la fa il pubblico, si creava un’aspettativa. E’ da lì che la gente è disposta a spendere per la cultura, ma tu devi darle il sogno. Devi far credere che entrare al museo è un lusso e un privilegio, entri a far parte di un rito. Altrimenti chissenefrega: è chiaro che al cinema ti diverti di più. Ma noi mica possiamo dirglielo. Se fai come quelli che dicono: venite al museo, che è gratis, non ti ci va più nessuno”. Musei solo per ricchi, dunque. “No, anzi, è il contrario: il lusso è per i poveri. Come nella moda, quello che fa guadagnare lo stilista mica è il vestito haute couture da diecimila euro. Sono le magliette che vendi a cento euro e ne valgono due. La cultura deve essere fintamente inaccessibile, ma in realtà accessibilissima, perché quando il turista poi si decide, devi accontentarlo subito col biglietto pronto. Però le macchine con scritto exclusive costano di più e vendono di più! Ma costano undicimila euro, mica trecentomila”.

 

Più lusso per tutti! “E desiderio. I francesi ti fanno desiderare pure di avere un quadro di Pissarro. Ma io dico: esiste nella storia un pittore peggio di Pissarro?  Non credo. Eppure ne hanno riempiti i musei del mondo. Però a Parigi anche nei posti più turistici a ora di pranzo vedi dei francesi veri, ti illudi di essere un po’ francese pure tu. Ma a Roma, vicino ai Musei vaticani, chi vedi? Chi ci va a mangiare quelle pizze al taglio, o quei gelati al sapore di liquerizia o salame? Lo sai che vicino al Pantheon fanno il gelato al gusto salame?”.  Veramente no. Tra rifiuti stratificati e gelato al salame fai un ritratto della capitale non molto invitante.  

 

Ti hanno chiesto di candidarti a sindaco? “Sì” Lo farai? “No”. Una ricetta per Roma turboliberista? “Reimpossessarsi del mare. Metti un treno veloce per Ostia, in dieci minuti sei al mare. La stazione Ostiense è bellissima. Ostia può essere Biarritz, anche più bella, ma non lo sa. Così i turisti si fermano di più. Il turista si ferma a Ostia e poi da lì va a vedere il Colosseo. E poi ci metti una spa. Ma carissima! La gente non ci va, se non è carissima!”. 

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