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Cartoni pericolosi

Nicola Pedrazzi

Il messaggio della Disney prima di “Lilli e il vagabondo” contro il razzismo e gli stereotipi. Quello che la cancel culture non ha capito sulla nostra storia

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"Questo programma include rappresentazioni negative e o trattamenti errati nei confronti di persone o culture. Questi stereotipi e comportamenti erano sbagliati allora e lo sono oggi. La rimozione di questo contenuto negherebbe l’esistenza di questi pregiudizi e il loro impatto dannoso sulla società. Scegliamo invece di trarne l’insegnamento per stimolare il dialogo e creare insieme un futuro più inclusivo”.

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"Questo programma include rappresentazioni negative e o trattamenti errati nei confronti di persone o culture. Questi stereotipi e comportamenti erano sbagliati allora e lo sono oggi. La rimozione di questo contenuto negherebbe l’esistenza di questi pregiudizi e il loro impatto dannoso sulla società. Scegliamo invece di trarne l’insegnamento per stimolare il dialogo e creare insieme un futuro più inclusivo”.

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Leggere un messaggio del genere dopo aver selezionato Lilli e il vagabondo dal menu di Disney Plus non è un’esperienza facile. Di fianco a me, sul divano, c’era mia figlia di appena due anni, per la quale mi picco di confezionare sceltissime finestre televisive, in pendant con i libri che leggiamo la sera. I classici Disney del Dopoguerra rispondono a tutta una serie di esigenze del genitore medio contemporaneo in odor di lockdown: mettono al centro il regno animale (nulla è più interessante per i bambini, è l’unica cosa che ho capito sin qui), hanno trame e musiche letteralmente favolose, tanto sofisticate quanto riproducibili in zona nanna, ma soprattutto creano un immaginario condiviso con i propri pargoli, perché con quelle storie siamo cresciuti anche noi. La fiducia che da generazioni i genitori nutrono per questi prodotti non esclude che, a un certo punto della crescita, si specifichi che il punto di vista di quei cartoni è occidentale, o che le donne possano fare ben altro che aspettare un principe; personalmente non vedo l’ora di spiegare a Sofia cosa sia stato il soft power americano in Europa durante la Guerra fredda, ma quel pomeriggio mi illudevo di poterle offrire un grado di innocenza che non troverà nel mondo: la storia di cagnolini diversi che per amore finiscono sotto lo stesso tetto ad aprire i regali di Natale. Un sogno banale, forse conservatore, spero anche io che si ribelli presto.

  
Ma non deragliamo. Vorrei, per una volta, deporre le facili ironie sui paradossi del politicamente corretto e aprire un confronto con chi davvero ritiene che l’alert di cui sopra rappresenti un avanzamento culturale. Con lo stesso spirito ho aperto un dibattito nelle mie chat di gruppo. Cos’è che non va in Lilli e il vagabondo? Di cosa non mi ricordo? Da quali “rappresentazioni negative” dobbiamo proteggere i nostri bambini durante la visione?, ho chiesto, faticando a restare serio ma “laicamente”. Nessuno lo sapeva, tutti hanno risposto, e mi sono giunte varie ipotesi. La prima additava il cuoco italiano che serve i celebri e per noi bolognesi inammissibili “spaghetti al ragù”, con tanto di serenata ai promessi cani. Forse, hanno sostenuto alcuni, la comunità italo-americana si è finalmente emancipata dal giogo del mandolino, e in fondo è giusto, visto che a causa di questo stereotipo i nostri antenati ne hanno sofferte tante. Seconda ipotesi: il problema è il papà, “Gianni caro”, che quando nasce il figlio scende le scale urlando “è maschio, dottore è un maschio”, preferenza che nel 1910 (anno di ambientazione del film) si esprimeva senza vergogna, ma oggi? Che ne direbbe la tua bambina? Terza ipotesi: a  essere censurabile è la nazionalità dei randagi malconci che si trovano al canile, in maggioranza stranieri, russi o sudamericani (ho fatto avanti veloce per controllare, ma il cane che parla con cadenza russa lo fa in quanto “levriero russo” e non perché ladro, poveraccio o comunista – anzi è un filosofo).

   
Allo straparlo da chat come sempre è seguito Google, dal quale ho appreso che il problema “reale” sono i gatti siamesi della zia Sara, che fanno i dispetti a Lilli sulle note di un meraviglioso motivetto orientaleggiante, cosa che a livello subliminale discriminerebbe le popolazioni asiatiche. Colpisce ma è emblematico che il livello di plausibilità di questa spiegazione sia pari a quello delle ipotesi sparacchiate in chat private, con l’unico argomento aggiuntivo che il mercato asiatico conta un filo di più di Little Italy e Disney non essendo un mio amico lo sa.

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Va detto che non si può propriamente parlare di “censura”, perché nell’alert la rimozione dalla piattaforma viene soltanto menzionata come ipotesi valutata (una bella ipocrisia, visto che ne deprezzerebbe enormemente l’offerta) e solo il remake in live-action uscito nel 2019 sempre su Disney Plus è effettivamente ricomposto, con sequenze diverse  e nuove musiche. In larga parte si tratta di aggiornamenti imposti dai tempi, che hanno riguardato anche la riedizione di altri classici, da Dumbo ad Aladdin; ma concentrandosi sui loro “nuovi valori” e sull’economia di scala i nuovi adulti che governano la Walt Disney Company rischiano di perdere di vista il valore del patrimonio su cui sono seduti. Prima di essere, come qualsiasi cosa, opinabile, The Siamese Cat Song andrebbe raccontata come capolavoro musicale scritto da Sonny Burke (il direttore della Decca Records negli anni di Frank Sinatra) e interpretato dalla straordinaria voce blues di Peggy Lee, una cantante (e autrice) cresciuta nello swing della band di Benny Goodman. Stiamo parlando di due stelle della Hollywood Walk of Fame, di un pezzo di storia americana che ha incrociato fortunatamente il lavoro del compositore Oliver Wallace rendendo The Lady and the Tramp un prodotto culturale in grado di scollinare le generazioni – questo sì, andrebbe messo a premessa della proiezione, se proprio sentiamo il bisogno di una guida alla lettura. La verità (indicibile?) è che la sequenza “Siam siam siam Siamesi” è uno dei buoni motivi che abbiamo per continuare a mostrare il cartone originale ai bambini odierni, ed è una delle sequenze per cui continuano ad amarlo sopra ogni altra versione, sebbene a differenza dei remake e dei sequel sia un prodotto culturale di un altro tempo, più vecchio dei loro nonni.

   
Ma ho detto che voglio dialogare, e allora riporto qui sotto la ricostruzione storica della controparte, che evidentemente in California ha convinto. La tesi più elaborata è quella di Marcus Hunter, che sul blog di cultura newyorchese Flaworwire definisce i due gattini “un incubo coloniale”, “one of the most racist cartoon characters ever depicted on film” (la traduzione del passaggio che segue è mia):

   
Si potrebbe sostenere, sforzandosi molto, molto duramente, che queste associazioni razziali non sono altro che arbitrarie, ma la divisione tra l’Asse e le potenze alleate durante la Seconda guerra mondiale – durante la quale la Thailandia era un fermo sostenitore del Giappone dopo aver fatto la guerra contro la Francia durante la guerra franco-tailandese del 1940 – suggerisce fermamente il contrario. I campi di internamento giapponesi dei primi anni Quaranta – in cui si trovarono oltre 100.000 asiatici-americani, il 62 per cento dei quali erano cittadini statunitensi – sono stati al tempo stesso un sintomo e un’ulteriore fonte di ispirazione per un forte aumento del sentimento anti-asiatico, e non hanno fatto altro che aumentare la perenne abitudine americana di dipingere l’Asia come un monolite costituito da un patrimonio etnico e culturale distinguibile. Si e Am di Lady and the Tramp, che hanno debuttato appena un decennio dopo la fine della guerra, nascono indubbiamente dai rimanenti pregiudizi di questo milieu, sono simboli di un’epoca in cui qualsiasi cosa categoricamente o tipicamente “asiatica” veniva accolta con una paura ingiustificata e un’ostilità smisurata, usate per creare un’immagine disumanizzata dell’“altro” e inquadrarla come un attacco diretto all’egemonia occidentale, giustificando il pregiudizio contro di essa.

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Proprio per la sua pretesa di essere definitiva, una simile ricostruzione merita di essere dubitata, e su moltissimi piani. Anche non conoscendo nel dettaglio la storia produttiva del film, non bisogna sforzarsi poi così tanto per sostenere che in un esercizio di antropomorfizzazione del mondo animale un gatto originario del Siam finisca con il muoversi a ritmo di gong né per arbitrio né per razzismo, ma per semplici ragioni di funzionalità artistica. Ricorrendo a uno stereotipo consolidato? Certamente sì, come avviene da sempre nel gioco narrativo tra animale e uomo, dalle caverne ai fumetti passando per i bestiari medievali e la Divina Commedia, e come avviene di conseguenza in tutta la produzione Disney, dal Robin Hood guarda caso volpe al gatto Romeo, italiano di nome e di fatto, che intorta un’aristogatta snob e guarda caso… francese! Possiamo immaginare qualcosa di più riuscito, giocoso e divertente? E in che modo tutto questo sarebbe in contraddizione con l’impegno, dichiarato oggi dalla Disney, di “creare storie con temi ispiratori e aspirazionali che riflettano la ricca diversità dell’esperienza umana in tutto il mondo”?

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Chi, diversamente da me e da mia figlia, è così acuminato da non bersi la versione innocente dei siamesi estranei e antagonisti semplicemente perché gatti in un film a prospettiva canina, dovrebbe saper spiegare anche perché un gatto diverso che canta diverso perché viene da un altro luogo sia per forza discriminante, e non ci suggerisca invece qualcosa sul mondo. Attraverso una deformazione e un punto di vista storicamente determinato, senza dubbio, ma anche le angolazioni delle voci narranti, in questo caso situabili nel Dopoguerra americano, afferiscono alla diversità delle culture per le quali si dice di esigere rispetto.

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La sproporzione tra i fatti e l’interpretazione integralista di Flaworwire che la Disney ha fatto sua, invece di difendere la propria storia aziendale e artistica, ci racconta tre aspetti importanti di quella che stiamo imparando a chiamare cancel culture, aspetti che stanno a monte di ogni singolo caso più o meno raccapricciante e che a ben vedere afferiscono alla “natura” dell’ultimo capitalismo. In primo luogo la difficoltà ad accettare l’esistenza del male sulla Terra, che dai tempi dell’Odissea tutte le storie devono in qualche misura incorporare, e che in qualcosa andrà pure incarnato anche oggi se non vogliamo che qualsiasi creazione o intrattenimento si riduca al profilo Instagram di Chiara Ferragni. 

   
In secondo luogo, e a ben vedere è un derivato del primo appiattimento, l’assoluta mancanza di senso della prospettiva e delle proporzioni, testimoniata anche dal fatto che la “classifica del razzismo” (sic) cui l’articolo rimanda colloca Il libro della giungla dopo Lilli e il vagabondo in termini di gravità. Se proprio si vuole assumere quella postura intellettuale sul mondo, un orango che si chiama Luigi e che jazzando alla Louis Armstrong canta “io voglio diventare un uomo” mi accende qualche campanello in più dei due siamesi, a parità di capolavoro musicale s’intende (e tralasciando il fatto che già nel 1967 la produzione optò per rinunciare alla voce di Armstrong, per evitare messaggi equivocabili). Eppure entrambi i cartoni sono introdotti dallo stesso alert, perché la cancel culture non fa distinguo nemmeno internamente alle sue logiche, è ’a livella tanto quanto la morte. 

  

    

Infine, l’idea più distruttiva di tutte, e che il warning-rovina-visione ha il coraggio di mettere nero su bianco, è che esistano forme culturali deprecabili e denunciabili sempre e comunque, a prescindere dal tempo, dallo spazio e dai percorsi umani che le producono, e che la verità di cui disponiamo oggi in una porzione minuscola di mondo imprenditoriale occidentale sia così completa e definitiva e globale da consentirci di giudicare tutto con lo stesso metro, passato incluso. Come gli odierni Stati Uniti dimostrano queste idee non lavorano a una società più aperta, consapevole e solidale.

 

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