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Senza legge. Essere ripudiati in nome della civiltà

Marco Archetti

Da mercante a demonio: “Michael Kohlhaas” di Von Kleist è la storia di un ripudiato dalla Giustizia

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Franz Kafka – lo scrittore che più di qualsiasi altro, con un mazzetto di pagine, ha influenzato l’umanità inchiodandola per sempre al ritratto della propria insettificazione – usciva poco la sera, ma dedicò una delle due apparizioni pubbliche di cui si ha notizia alla lettura di ampi stralci di un romanzo che amava molto e che molto aveva a che fare con la sua sensibilità. “Non riesco a pensare a quest’opera senza essere travolto dalla commozione e dall’entusiasmo,” diceva. Insomma, l’inventore dell’uomo che aspetta invano davanti alla porta della Legge ammirava incondizionatamente la storia dell’uomo che la porta di quella Legge decide di buttarla giù: stiamo parlando di “Michael Kohlhaas” (Fazi, pag. 124, euro 17), romanzo di Heinrich von Kleist ispirato a un fatto di cronaca accaduto in Germania nel sedicesimo secolo.

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Franz Kafka – lo scrittore che più di qualsiasi altro, con un mazzetto di pagine, ha influenzato l’umanità inchiodandola per sempre al ritratto della propria insettificazione – usciva poco la sera, ma dedicò una delle due apparizioni pubbliche di cui si ha notizia alla lettura di ampi stralci di un romanzo che amava molto e che molto aveva a che fare con la sua sensibilità. “Non riesco a pensare a quest’opera senza essere travolto dalla commozione e dall’entusiasmo,” diceva. Insomma, l’inventore dell’uomo che aspetta invano davanti alla porta della Legge ammirava incondizionatamente la storia dell’uomo che la porta di quella Legge decide di buttarla giù: stiamo parlando di “Michael Kohlhaas” (Fazi, pag. 124, euro 17), romanzo di Heinrich von Kleist ispirato a un fatto di cronaca accaduto in Germania nel sedicesimo secolo.

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La lista degli apprezzatori di rango è molto lunga, parte da Kafka e annovera Thomas Mann, Rainer Maria Rilke e Hermann Hesse. Non serve molto per capire perché. È sufficiente leggere le prime righe e lasciarsi portare da quel tono asciutto da parabola, e servono davvero poche pagine per comprendere le ragioni per cui Kafka sentì consustanziale alle proprie quella storia che parte piano, cresce e poi infuria in un climax disperato, trasformando il torto in ragione e la ragione in follia: il prezzo della giustizia che Michael Kohlhaas reclama con crescente ferocia non è un problema etico che lo trafigga mai per davvero, anzi. Il mite brandeburghese si trasforma in un demonio senza batter ciglio, senza soluzione di continuità con se stesso, quasi lo custodisse già, e infatti scatena una guerra a dispetto del danno collaterale ed è disposto a tutto in nome di ciò che forse sembra poco, cioè, alla fine, in buona sostanza – perché è di questo, che stiamo parlando – di due cavalli morelli.

 

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I fatti: un giorno, giunto sulle rive dell’Elba alle soglie di una strada sbarrata che gli impedisce di raggiungere il mercato dei cavalli, sprovvisto del lasciapassare e tuttavia intenzionato a procurarselo, a causa dell’obbedienza alle regole, cadrà vittima di una truffa, scoprirà che il lasciapassare pagato caro è un imbroglio e che i due cavalli lasciati in pegno durante il breve viaggio necessario a entrare in possesso del documento sono stati sfruttati a morte da un principe arrogante. Non solo: il servo a loro guardia è stato pestato selvaggiamente – impossibile, per il povero Kohlhaas rientrare in possesso degli uni e dell’altro. Il mercante non la prende sportivamente e deciderà di andare fino in fondo.

 

Si rivolgerà prima a chi detiene il monopolio della giustizia, cioè al Tribunale supremo (che lo metterà ancor più nei guai) e poi a un manipolo di sbandati che lo seguiranno devastando ogni terra attraversata e commettendo atroci ingiustizie in nome della giustizia, sempre – sempre – sentendosi nel pieno diritto di fare ciò che fa: donchisciottesco e criminale, Michael Kohlhaas darà fuoco alla casa per arrostire il maiale, e alla fine ne pagherà le conseguenze. Dal punto di vista narrativo il romanzo può essere considerato il prodromo di un altro che, se non gli somiglia, lo interseca certamente, pur seguendolo di un centinaio di anni: il “Crainquebille” di Anatole France.

 

Molte le differenze, medesima la domanda: che cosa significa giustizia? In che relazione è con la legge? Qual è la linea che divide il colpevole dalla vittima e il giudice dal giustiziere? Selah Lively, giudice di bassissima statura dell’“Antologia di Spoon river”, si fa portatore di una verità terribile che Kohlhaas non è abbastanza smaliziato da capire: la vendetta può essere perfetta solo se la si scatena indossando una toga, cioè dopo che ci si è messi dalla parte della Legge per manipolarla a proprio favore, non certo agendo al di fuori di essa. Ma soprattutto: chi è davvero Michael Kohlhaas? Un “libero signore”, in principio. Ma poi, rotolando lungo la china di se stesso fin nelle gole della propria sete paranoide, uno spietato luogotenente dell’Arcangelo Michele (titolo autoattribuitosi), un lupo nel deserto (definizione di Martin Lutero, bellissima la scena che racconta il loro incontro), infine un angelo sterminatore che verrà sterminato.

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Lui però continuerà a definirsi un ripudiato, “come chiunque a cui sia stata ripudiata la protezione della Legge”. Il romanzo brucia, scintilla e divampa, e racconta le numerose inciviltà che l’uomo cavalca in nome della civiltà e le regole che invoca proprio mentre contribuisce alla loro polverizzazione. E anche quanto sia sottile il filo dell’equivoco e terribile sentirsi espulsi, ai margini di una cultura che insegna codici e sistemi di significato e poi ci inabilita al diritto di farcene forti. Perché ogni battaglia è morale quanto meno proclama di esserlo. Ma soprattutto lo è quanto più conosce – e sorveglia – il fragile confine tra quella forza e ogni sua degenerazione violenta.

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