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Paul Celan, in frammenti

Matteo Marchesini

Esce per Mondadori “Microliti”, una raccolta di aforismi cupi che raccontano il sentimento di una persecuzione

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A vent’anni stavo con una ragazza che studiava Paul Celan. Di lui allora conoscevo appena i dati biografici più eclatanti (genitori scomparsi in un lager, suicidio nella Senna) e due poesie famose: la “Todesfuge”, dove i forni crematori sono tombe scavate nell’aria e la morte è “un maestro di Germania”, e il “Salmo”, una specie di anti-Genesi che abbozza un’atroce parodia di preghiera cristiana lodando un Dio chiamato “Nessuno”. In quel periodo cominciai a leggerlo sul serio. Il tedesco era diventato un lessico di coppia, così cercavo di decifrare i testi originali. Mi aiutava l’insistenza del poeta su alcuni dettagli: mandorle, bocche, capelli (ma Haar ha un senso più ampio), rose, ceneri, respiri, e soprattutto pietre e nevi, cioè i sepolcri anonimi delle masse cancellate dallo sterminio. Quei vocaboli mi facevano pensare a fossili incastrati nella pagina, irrelati e statici - finché di colpo non li scuoteva arbitrariamente un verbo come werfen, “gettare”. A ogni scena attribuivo lo sfondo della Shoah, anche quando il buio e l’immobilità dei corpi alludevano forse a un amplesso. Sottolineavo le sentenze più terribili. “Nessuno / testimonia per il / testimone” conclude Celan in una lirica della maturità. In “Dinanzi a una candela” sembra presentare alla madre scomparsa una sposa che è “del tuo esser morta, / la figlia”. “La morte, / che ancora mi dovevi, io / la porto / a termine” dice un altro passo che mi torna in mente con la lapidaria Amelia Rosselli di “E’ vostra la vita che ho perso”.

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A vent’anni stavo con una ragazza che studiava Paul Celan. Di lui allora conoscevo appena i dati biografici più eclatanti (genitori scomparsi in un lager, suicidio nella Senna) e due poesie famose: la “Todesfuge”, dove i forni crematori sono tombe scavate nell’aria e la morte è “un maestro di Germania”, e il “Salmo”, una specie di anti-Genesi che abbozza un’atroce parodia di preghiera cristiana lodando un Dio chiamato “Nessuno”. In quel periodo cominciai a leggerlo sul serio. Il tedesco era diventato un lessico di coppia, così cercavo di decifrare i testi originali. Mi aiutava l’insistenza del poeta su alcuni dettagli: mandorle, bocche, capelli (ma Haar ha un senso più ampio), rose, ceneri, respiri, e soprattutto pietre e nevi, cioè i sepolcri anonimi delle masse cancellate dallo sterminio. Quei vocaboli mi facevano pensare a fossili incastrati nella pagina, irrelati e statici - finché di colpo non li scuoteva arbitrariamente un verbo come werfen, “gettare”. A ogni scena attribuivo lo sfondo della Shoah, anche quando il buio e l’immobilità dei corpi alludevano forse a un amplesso. Sottolineavo le sentenze più terribili. “Nessuno / testimonia per il / testimone” conclude Celan in una lirica della maturità. In “Dinanzi a una candela” sembra presentare alla madre scomparsa una sposa che è “del tuo esser morta, / la figlia”. “La morte, / che ancora mi dovevi, io / la porto / a termine” dice un altro passo che mi torna in mente con la lapidaria Amelia Rosselli di “E’ vostra la vita che ho perso”.

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Nell’insieme, quei versi mi lasciavano un’impressione ambigua: oscillavo tra un’ammirazione non so quanto aprioristica e una perplessità che mi imbarazzava. Così sospendevo il giudizio, intimidito. In fondo anche la mia ragazza lo sospendeva, occupandosi soprattutto di questioni filologiche e culturali. Come lei, me ne accorsi a poco a poco, avevano fatto altri lettori elusivi e intelligenti, spesso animati da interessi storici o teologici. Lo stesso ‘agente in Italia’ di Celan, Giuseppe Bevilacqua, era uno studioso acuto ma non troppo sensibile alla poesia. Infilandomi in qualche convegno, scoprii che quasi sempre gli apologeti dei componimenti celaniani appartenevano invece alla categoria degli intellettuali confusionari, che abusano dei gerghi misticheggianti e dei toni apocalittici. I più giovani erano patetici, i più anziani irritanti: se in uno studente universitario la scelta di posare a custode di verità ineffabili o di chiamare il proprio cane Paul può considerarsi uno strascico di adolescenza, subito dopo la laurea si entra nel campo del grottesco o della falsa testimonianza.

Sono passati vent’anni, e da questo punto di vista non mi pare che sia cambiato granché. Io sono meno timido, ma i sacerdoti continuano ad avvolgere il poeta nel loro chiacchiericcio pseudoprofondo. Si dirà che Celan non è responsabile della deriva idolatrica. D’accordo; però viene da chiedersi perché attiri tanti tipi del genere. In parte, è vero, la sua storia sembra fatta apposta per nutrire il parassitismo culturalista di accademie e media: un poeta esule, poliglotta, cresciuto in una terra ex asburgica dove si mischiano tedesco, yiddish, rumeno e ucraino, che scrive nella lingua della madre e dei suoi uccisori, che subisce le violenze naziste e sovietiche, che cerca invano un dialogo con Heidegger e con Adorno sullo sfondo della natura mitteleuropea, che passa dal rifiuto del sionismo paterno a un viaggio in extremis a Gerusalemme e si butta dall’apollinairiano Pont Mirabeau… Ma c’è dell’altro; e quest’altro riguarda la forma intrinseca dell’opera. Mentre si diffondeva la fama della “Todesfuge”, l’autore cominciò a esserne infastidito. Quella musica rischiava di confermare l’idea adorniana secondo cui, dopo Auschwitz, qualunque poesia suona come un abbellimento indecente dell’orrore. Per sottrarre l’esperienza estrema sia all’“oblio” sia all’“oro” di parole ormai “corteggiate dalle orecchie puttane dei boia”, Celan scelse quindi una scrittura più ardua, e si mise a tracciare ponti di metonimie sospesi nel vuoto. Eppure proprio questo balbettio cifrato e perentorio lo ha consegnato alle manipolazioni degli interpreti.

Forse però il problema è alla radice. Alla fine degli anni ’50 Celan si entusiasmò per Mandel’štam. Anche il russo, morto senza tomba come i suoi, era un ebreo ramingo, perseguitato, accusato di plagio; anche lui era un poeta di orizzonti amorosi e cosmici costretto a farsi civile; e anche lui usava la lingua come metafora, concepiva la poesia come una possibilità da attuare sotto la pressione dell’attimo, ovvero ribatteva sull’“accento acuto del presente”. Ma per ammirare senza condizioni i versi di Mandel’štam, perfino in traduzione, non occorre diventare mandelstamiani, mentre per aderire convintamente all’opera di Celan bisogna lasciarsi iniziare al suo culto. Mandel’štam secerne poesia come respira; Celan ha sempre bisogno di trovare un sostegno esterno. Quando gli studiosi citano i suoi esordi di epigono rilkiano, sedotto dal ritmo di Verlaine e dai riti surrealisti, ne riconoscono la mediocrità per evidenziare il successivo balzo in avanti; ma così trascurano il fatto che anche il Celan maggiore allestisce preventivamente uno spazio liturgico, si appoggia a una retorica per impostare la voce. E ci si può chiedere se i suoi frammenti ‘abissali’, anziché scoraggiare un’arte consolatoria e una critica mistificatoria, non tendano viceversa a stimolarle.

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Come spesso succede, la conferma di una fragilità poetica viene dalla prosa: che non di rado in Celan è involuta, altisonante, e che dove tenta la via dell’arguzia cade in rovesciamenti un po’ meccanici, o addirittura in calembour pedestri. Lo si può verificare nei discorsi pubblici sulla lirica, nei paragrafi giovanili di “Controluce”, e oggi nel pur notevole “Microliti”, una raccolta di aforismi, narrazioni scorciate e dialoghetti stesi in rumeno, tedesco e francese tra il ’47 e il ’70, e pubblicati da Mondadori in questo doppio anniversario celaniano. “Microliti sono, pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso della tua esistenza – e ora tenti, povero di parole e forse già irrevocabilmente condannato al silenzio, di raccoglierli a cristalli?” si domandava il poeta nel 1956, chiudendo l’interrogativo su una materia cara all’inarrivabile Mandel’štam. Secondo il curatore Dario Borso, oltre che alle precoci traduzioni di Čechov e Kafka, le prove “narrative” devono qualcosa a Jean Paul, Lichtenberg, Nietzsche e Thomas Wolfe. Borso osserva anche che dopo il ’60 il sentimento di persecuzione trasforma gli aforismi in epigrammi e i racconti in apologhi: Celan attacca e si difende con satirica o ieratica brevità, in modi via via più astiosi e cupi.

Si può seguire questo processo attraverso tre motivi ricorrenti: l’ebraismo, la poesia, e il destino personale. Non sono pochi i pezzi sdegnati e sarcastici contro gli antisemiti: “Quando leggono Pound, capiscono perfino il cinese. Questo pound, lo prestano a strozzo volentieri – non da ultimo anche perché vogliono tenere in vita Shylock come cliché”; oppure: “Quando un gentile incontra una mosca stercoraria, volano imprecazioni contro la mosca, e invero fin quando non rimane uccisa. Poi, con la massima cautela, viene infilzata e catalogata bene in vista come mosca stercoraria ebrea. / Se un ebreo ha la fortuna d’incontrare una mosca stercoraria, da allora si dirà di lui: l’ebreo stercorario. Della mosca si sa ammirare le ali smeraldine”. Quanto alla poesia, è senz’altro il tema prevalente. A un certo punto Celan riprende l’immagine del suo discorso più noto, quella del “meridiano”, linea terrestre e immateriale che torna a sé stessa dopo avere intersecato il mondo, e che qui diventa “la rima segreta, resa viva all’invisibile”. Ma più interessante è la sua lotta contro una tradizione simbolista di cui non si può disfare, anche perché “Tanta l’angoscia, altrettanto il simbolismo!”. In realtà, per Celan “la poesia conosce l’argumentum e silentio. / C’è dunque un’ellissi che non è lecito fraintendere come tropo o addirittura raffinamento stilistico. Il dio della poesia è incontestabilmente un deus absconditus”. La poesia genuina è oscura come tutti gli oggetti reali. E’, la sua, l’oscurità dell’ovvio: provoca “lo sconcerto di ogni incontro con un estraneo”. Ma arriva un momento in cui non appare più abbastanza reale; e allora, se si vogliono incontrare davvero le ombre che evoca, occorre abbandonarla per raggiungerle. E’ qui che la sorte poetica e la sorte umana di Celan sembrano fondersi sinistramente. Per sfuggire allo “strapotere”, il poeta ha tentato a lungo di parlare “da prigioniero una lingua incomprensibile”. Solo che a volte non basta. “‘Parli in modo così incomprensibile’ fece il morto al morente, ‘balbetti solamente, balbetti come un neonato. Parla più chiaro, parla più mortifero!’” recita un brano del 1949. “Ci sono occhi che vanno al fondo delle cose” afferma l’autore molto tempo dopo, alla soglia dei quarant’anni. “Essi scorgono un fondamento. E ce ne sono altri che sprofondano nelle cose. Questi non scorgono fondamenti. Ma vedono più profondo”.

Come non pensare allo sprofondamento di Celan nell’ultimo decennio di vita, alla sua prolissa messa in scena dell’afasia conclusa nel 1970 dal suicidio? Non si può leggere senza un brivido l’appunto beffardo su Ofelia “primatista di nuoto”. E’ come se il cammino percorso dal ’45 in poi fosse legato a un elastico che a poco a poco si tende e riporta il poeta indietro, al trauma della guerra. “Nulla è più nero dell’alba luminosa del ricordo” scriveva già il giovane Paul, giocando su un ossimoro che ricorda il “negro latte dell’alba” di “Todesfuge”. Il nero coincide con il bianco più estremo, e viceversa: in Celan, notava Bevilacqua, il contrario è “la forma mistica del superlativo”.

Sì, nei “Microliti” c’è parecchio Kafka; ma un Kafka storpiato da una specie di solennità rancorosa. Ogni tanto però si trova una pietruzza degna del modello. “I miracoli sono verità tenute sotto a lungo, che si condensano fino a far massa” azzarda Celan nel 1962. Un’intuizione che il ‘900 ha dimostrato in forma di superlativo mistico, esemplificando abbondantemente il contrario del miracolo.

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