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La biografia che rese vero e ammirato Nat Tate, un artista mai nato

Vanni Santoni

Nel 1998 la 21 Publishing, la casa editrice di David Bowie, pubblicò una monografia scritta dal romanziere William Boyd e dedicata a un pittore sconosciuto alla comunità artistica. Storia di una beffa, e qualcosa di più

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Cosa si chiede a un artista, a ogni artista? Di essere bravo. Anzi, geniale. Fin qui ci siamo. Poi? Di essere incompreso! Di essere povero! Di aver frequentato i più grandi del suo tempo senza però riuscire a sfondare! Di morire tragicamente! Di restare sconosciuto per anni, ma poi venir riscoperto, celebrato, portato in trionfo! Iniziamo a esserci davvero. Certo, qualcuno potrebbe far notare che a ogni artista si chiede, quindi, di essere Vincent van Gogh. Una boutade che cela una verità: se van Gogh è stato a ogni effetto un ponte verso l’arte contemporanea, lo è stato anche riguardo ciò che dall’artista ci si aspetta oggi. E dall’opera d’arte? Dall’opera d’arte ci si aspetta che sia bella? Nah, può essere anche brutta: a volte se ne parla di più. Che sia nuova? Già meglio. Ma dall’opera d’arte ci si aspetta prima di tutto che sia vera. Ce lo raccontano bene la storia recente del Salvator mundi, attribuito a Leonardo, probabilmente fasullo, definito fasullo da almeno sette grandi esperti, eppure dato per vero (e per vero venduto: a 450 milioni di dollari al dipartimento di Cultura e Turismo di Abu Dhabi), o ancora quella delle “teste” di Modigliani: lo scherzo funzionò anzitutto perché tutti volevano che fossero vere. Funzionò, e continua a funzionare ogni volta che qualcuno tenta un’operazione simile, specie se di mezzo c’è un artista che risponde alle caratteristiche di cui sopra. Facciamo un passo indietro. Di ventidue anni.

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Cosa si chiede a un artista, a ogni artista? Di essere bravo. Anzi, geniale. Fin qui ci siamo. Poi? Di essere incompreso! Di essere povero! Di aver frequentato i più grandi del suo tempo senza però riuscire a sfondare! Di morire tragicamente! Di restare sconosciuto per anni, ma poi venir riscoperto, celebrato, portato in trionfo! Iniziamo a esserci davvero. Certo, qualcuno potrebbe far notare che a ogni artista si chiede, quindi, di essere Vincent van Gogh. Una boutade che cela una verità: se van Gogh è stato a ogni effetto un ponte verso l’arte contemporanea, lo è stato anche riguardo ciò che dall’artista ci si aspetta oggi. E dall’opera d’arte? Dall’opera d’arte ci si aspetta che sia bella? Nah, può essere anche brutta: a volte se ne parla di più. Che sia nuova? Già meglio. Ma dall’opera d’arte ci si aspetta prima di tutto che sia vera. Ce lo raccontano bene la storia recente del Salvator mundi, attribuito a Leonardo, probabilmente fasullo, definito fasullo da almeno sette grandi esperti, eppure dato per vero (e per vero venduto: a 450 milioni di dollari al dipartimento di Cultura e Turismo di Abu Dhabi), o ancora quella delle “teste” di Modigliani: lo scherzo funzionò anzitutto perché tutti volevano che fossero vere. Funzionò, e continua a funzionare ogni volta che qualcuno tenta un’operazione simile, specie se di mezzo c’è un artista che risponde alle caratteristiche di cui sopra. Facciamo un passo indietro. Di ventidue anni.

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Nel 1998 la 21 Publishing, casa editrice inglese con un presidente molto particolare – David Bowie – pubblicò una monografia scritta dal romanziere William Boyd e dedicata a un pittore sconosciuto alla comunità artistica: Nat Tate, classe 1928. Corredata da foto del pittore in vari contesti, nonché da due suoi – invero mediocri: ma il lettore tenderà a non farci caso – disegni, quel testo di non-fiction ricostruiva la breve e tragica esistenza di un artista nato nel New Jersey, rimasto orfano e poi adottato da una ricca coppia di Long Island. Mostrando un significativo talento per il disegno e la pittura, frequentò l’accademia e poi gli ambienti artistici del Greenwich Village: proprio il luogo in cui negli anni Cinquanta imperversava l’espressionismo astratto, a cui Tate aderì, e in cui già si scorgevano gli embrioni delle successive tendenze dell’arte contemporanea. L’incontro – e il confronto – con due geni della pittura, George Braque e Pablo Picasso, gettò tuttavia Tate in una condizione di grande instabilità psicologica, esacerbando la sua dipendenza dall’alcol. Cominciò a dubitare delle proprie capacità e finì per fare un rogo delle sue opere. Il sigillo ultimativo arrivò poco dopo, quando si gettò nelle fredde acque dello Hudson. Il corpo non fu mai trovato. Tutto falso, tutto inventato da quel sornione di William Boyd.

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Pure, il resto è storia: la monografia ebbe grande risonanza sulle pagine culturali dei giornali e sulle riviste d’arte britanniche e americane, Bowie organizzò un party nello studio di Koons a Manhattan per la presentazione del libro, dove accorsero gli esponenti più in vista del mondo dell’arte, tutti pronti a giurare di conoscere Nat Tate (a volte personalmente) e un suo disegno, naturalmente uno scarabocchio dello stesso Boyd, venne pure battuto all’asta da Sotheby’s. Oggi l’intera esistenza di Tate, sia virtuale che reale, arriva in Italia per Neri Pozza con "Nat Tate. Un artista americano. 1928-1960", che raccoglie sia la monografia originale di Boyd, sia il suo commento alla vicenda. Un libro che racconta una beffa? Sicuro. Eppure è anche qualcos’altro: perché, in ultimo, preferiamo far finta che l’artista sia presente, accettare che di cognome faccia Tate (come la Tate Gallery) e di nome Nat (come la National Gallery); preferiamo credere che sia esistito, che abbia sofferto, che sia stato geloso di Braque e che sia morto tragicamente, e non importa se i suoi disegni residui sono così brutti, del resto è noto che i veri capolavori, Tate li ha bruciati quell’infausto giorno là.

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