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Il gioco di Modiano, tra improvvise illuminazioni e indecifrabili oscurità

Sandra Petrignani

Nel suo ultimo libro, Patrick Modiano procede su doppi binari: contrapposizione di passato e presente, vaghezza del ricordo e non meno vaga realtà. "Il nostro debutto nella vita", rievocando Beckett

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La scrittura di Patrick Modiano è un’arma a doppio taglio, basti pensare a un suo titolo fra i più famosi e più belli, Nel caffè della gioventù perduta, che si può leggere: giovani che perdono se stessi o rimpianto per la giovinezza andata. Anche quando dal romanzo si sposta al teatro, come nel recente Il nostro debutto nella vita (Einaudi, 55 pp., 12 euro) Modiano procede su doppi binari, contrapposizione di passato e presente, vaghezza del ricordo e non meno vaga realtà. Jean ha vent’anni, vuole fare lo scrittore. Dominique, la ragazza di cui è innamorato, ha vent’anni e fa l’attrice. È il 19 settembre del 1966, è impegnata nelle prove del “Gabbiano” di Cechov.

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La scrittura di Patrick Modiano è un’arma a doppio taglio, basti pensare a un suo titolo fra i più famosi e più belli, Nel caffè della gioventù perduta, che si può leggere: giovani che perdono se stessi o rimpianto per la giovinezza andata. Anche quando dal romanzo si sposta al teatro, come nel recente Il nostro debutto nella vita (Einaudi, 55 pp., 12 euro) Modiano procede su doppi binari, contrapposizione di passato e presente, vaghezza del ricordo e non meno vaga realtà. Jean ha vent’anni, vuole fare lo scrittore. Dominique, la ragazza di cui è innamorato, ha vent’anni e fa l’attrice. È il 19 settembre del 1966, è impegnata nelle prove del “Gabbiano” di Cechov.

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“Ho l’impressione” dice Jean, standole accanto in camerino “che la data di queste prove generali segnerà il nostro debutto nella vita”. Cosa c’è di meglio di un teatro, soprattutto quando la sala è vuota, per ingaggiare un colloquio con i propri fantasmi? Infatti non siamo nel ’66. Sono passati gli anni, molti anni. Jean non è più il ragazzo di allora. Ed è probabilmente diventato lo scrittore che desiderava diventare. La madre assillante (attrice anche lei, nella pièce come nella biografia di Modiano) e il suo compagno, che pretende di essere per Jean un padre, non esistono più. Però appaiono di notte nel gioco di luce e buio del palcoscenico, come fossero vivi, a suscitare antichi risentimenti.

 

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E di nuovo non siamo sicuri di nulla, chi è morto e chi è vivo, chi ha realizzato i suoi sogni e chi no. È diventata una grande attrice Dominique? Forse è morta anche lei, lei che cercava di sentire le voci del passato, di altri attori che avevano recitato Cechov in vecchie rappresentazioni. E che vuol dire, poi, realizzare i propri sogni se “ogni giorno è una lotta contro la solitudine” e tutto ciò che si vorrebbe è riascoltare a sorpresa il suono della risata di quella ragazza dietro le spalle? Il presente non essendo altro che la locandina più recente di uno spettacolo teatrale, e se la gratti, spunta fuori la locandina precedente e sotto c’è quella di prima ancora e così via nello scorrere inarrestabile del tempo che è comunque perdita.

 

Salvo il fermo-immagine di un ricordo, di un’apparizione, di un suono che, sul palcoscenico della vita, diventa la voce dimenticata che era, magari, la colonna sonora della nostra giovinezza, di quel debutto pieno di aspettative, che poi è indifferente se si sono realizzate o no. In questo brevissimo testo lo scrittore francese non fa i soliti conti con guerra e persecuzione degli ebrei, ma approfitta della situazione teatrale per giocare più direttamente con improvvise illuminazioni di un dettaglio e con l’abisso di una indecifrabile oscurità.

 

È il solito Modiano, è la sua solita voce, un po’ afasica, ripetitiva, ma qui – complici le travi scricchiolanti del palcoscenico, c’è soprattutto un conflitto generazionale contro un padre che non è un padre, ma tenta una dichiarata castrazione: vuole distruggere il manoscritto di quello che chiama “figlio”, per lui privo di genialità. Ma il figlio resiste, chiude il manoscritto in una valigetta che si ammanetta al polso e va in giro così, come un personaggio beckettiano, inchiodato alle sue ossessioni. È forse questo elemento, il più estraneo al mondo di Modiano, la cifra che segna meglio la novità della commedia, come se, invadendo un campo non suo, quello del teatro appunto, avesse avuto bisogno di aggrapparsi al congeniale Beckett, che si sarebbe ritrovato a suo agio nell’idea di vivere “in balìa di alcuni silenzi” perché, per dirla con Cechov, “l’essenziale non è la gloria, ma la capacità di soffrire”.

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