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Alessandro Michele e Gus Van Sant, così la moda diventa Film Fest

Fabiana Giacomotti

Il direttore creativo di Gucci insieme al regista di Elephant. Sette film codiretti per sostituire la ritualità stanca delle sfilate

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Lunedì sera e per tutta la prossima settimana, sulle piattaforme social mondiali più importanti, il direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, renderà pubblico il primo di sette film che codificano la sua nuova narrativa per la maison. Li ha co-diretti con Gus Van Sant, il regista che “da trent’anni accompagna la mia vita”, come ha raccontato durante una conferenza stampa video evocando la profonda influenza che “my private Idaho” ebbe sulla sua adolescenza e sulla scoperta del proprio io più profondo.

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Lunedì sera e per tutta la prossima settimana, sulle piattaforme social mondiali più importanti, il direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, renderà pubblico il primo di sette film che codificano la sua nuova narrativa per la maison. Li ha co-diretti con Gus Van Sant, il regista che “da trent’anni accompagna la mia vita”, come ha raccontato durante una conferenza stampa video evocando la profonda influenza che “my private Idaho” ebbe sulla sua adolescenza e sulla scoperta del proprio io più profondo.

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La pandemia e i due successivi lockdown, nelle loro forme non troppo diverse e comunque entrambe gravate da una differente percezione dello scorrere del tempo, gli hanno permesso di riflettere e lungo sugli stilemi della rappresentazione della moda e sulle sue stesse cadenze. Già prima dell’estate, Michele aveva dichiarato che non avrebbe più seguito i calendari imposti dal sistema, presentando le proprie collezioni, già ampiamente a-stagionali, quando fosse stato pronto a farlo.

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Questo progressivo svincolarsi dalle logiche commerciali della moda nel suo senso più ampio (produzione, distribuzione, settimane della moda, presentazioni dal vivo per molte persone) gli ha permesso anche di approcciare il racconto delle proprie collezioni nella forma mediatica che sente più vicina a sé in quel momento. Per questa stagione o, per meglio dire,per questo momento della storia di Michele e di Gucci, il mezzo scelto è stato il film; addirittura un Film Fest, cioè un festival, una “festa” di racconto per immagini e parole e di messinscena che, oltre a un racconto in sette puntate, promuoverà in altrettante brevi pellicole il lavoro di quindici stilisti emergenti come Ahluwalia, Shanel Campbell, Stefan Cooke, Cormio , l’eccezionale, giovanissimo Charles De Vilmorin (lontano parente della celeberrima Louise, musa di Jean Cocteau e grande scrittrice), Jordan Luca, Mowalola, Yueqi Qi, Rave Review, Gui Rosa, Rui , Bianca Saunders, Collina Strada, Boramy Viguier e Gareth Wrighton.

 

Un “lusso straordinario”, ha dichiarato Michele, e siamo d’accordo con lui. L’azienda gli ha dato nuovamente carta bianca e lui ha saputo farne buon uso. Abbiamo visto in anteprima il primo episodio (qualcosa ci dice che i film, realizzati tutti il mese scorso a Roma, siano in via di finalizzazione definitiva in queste ore), apprezzandone infinitamente la tecnica di racconto fluida, la concatenazione non lineare di eventi che assomiglia alla vita. In particolare abbiamo apprezzato la prima ripresa, che risucchia letteralmente l’aria, la concentrazione, il focus all’interno dell’appartamento dove si svolge l’azione di questo primo racconto di sincronicità empirica bergsoniana.

 

Ne è interprete l’artista e performer Silvia Calderoni (il grande pubblico la sta vedendo nel serial para-storico “Romulus”, anzi l’ha già vista nel trailer dove pronuncia una di quelle battute “à la Gomorra” - “liberati dalla paura, dimostra che sei parte del branco”, che piacciono tanto al momento) che, un episodio dopo l’altro, in una realtà quotidiana al tempo stesso reale e surreale, incontra o interagisce con nomi cari alla maison Gucci, referenti di pensiero o artistici come ABO- Achille Bonito Oliva, Harry Styles, Florence Welch, Jeremy O.Harris e Paul B. Preciado,di cui scriveremo a breve.

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Se il fashion film non è certo una modalità espressiva nuova per la moda - se ne rintracciano prove con finalità promo-pubblicitarie perfino nell’opera di Paul Poiret - questo di Michele rappresenta invece e appunto un approccio completamente nuovo,sia per le finalità (sostituire la ritualità oggettivamente stanca e ripetitiva  delle sfilate, che la pandemia ha reso evidente), sia per la riflessione che gli ha permesso di fare, e di proporre agli spettatori,attorno alla natura dell’abito e alle sue trasformazioni con la modalità d’uso.

 

Un approccio già ampiamente sperimentato da Roland Barthes nel rapporto fra testo, scrittura, rappresentazione fotografica e reale dell’abito, ma decisamente meno nella relazione fra abito e costume cinematografico. La differenza, che pure Michele percepisce come“sottile”, è invece alla base di una lunga e molto stucchevole diatriba pluridecennale fra esperti di costume: quando un abito smette di essere tale e diventa costume, cioè mezzo narrativo? Non dovrebbe invece  esserlo per ogni persona nel momento stesso in cui viene tolto dalla gruccia e indossato, trasformandosi in mezzo espressivo e di definizione della personalità di ciascuno?

Se l’è domandato anche Michele nella lettera aperta che accompagna il film: ”Verso quali nuovi orizzonti può spingersi la moda quando decide di lasciare i suoi ancora oggi confortanti? Che vita hanno i vestiti quando smettono di sfilare? Quali storie sono capaci di disegnare nello spazio dell’esistenza? Cosa accade loro quando si spengono i riflettori della passerella? Sono le domande che vengono a farmi visita in questo presente incerto ma gravido di premonizioni. (…) È stato per me un salto spericolato ma necessario perché avevo bisogno di uno strumento che mi consentisse di gettarmi nella vita, di raccontarla dal suo interno. Quella vita che scorre in maniera apparentemente banale ma che rivela, nel suo dispiegarsi, epifanie inattese. Quel flusso di micro-accadimenti casuali e di relazioni sottili che sfidano la ricerca di senso e danno forma al nostro stare. (Con Gus) ci siamo scelti per l ’affinità dello sguardo e per la cura che entrambi mettiamo nel costruire narrazioni inclusive. Amo il suo essere ribelle e spudorato,la sua capacità di raccontare la strada e il margine, la sua visionarietà trasversale e la sua delicatezza. Insieme abbiamo provato a scrivere un’ode a quell’organismo misterioso che è la vita”.

 

Vasto programma, avrebbe detto qualcuno, che da questa prima mezz’oretta di visione ci pare comunque avvicinato con diligenza e una forte volontà poetica. Salvo qualche inciso che avrebbe meritato una contestualizzazione diversa, soprattutto, e stiamo parlando delle dichiarazioni sul gender dello scrittore e maitre à penser della causa Paul B. Preciado, primo “incontro” di Silvia Calderoni. Con un abilericorso scenico, Gus Van Sant ne ha inserito i proclami sul rapporto fra genere e storia sociale, non necessariamente condivisibili, in parte storicamente confutabili, nell’ambito di una fittizia intervista televisiva. Non ci è sembrato né il luogo né il modo per affrontare temi come questi, al momento al centro di un dibattito a tratti violento sul tema dell’identità e l’affermazione del genere attraverso la lotta queer, che una frangia del femminismo ritiene come un’altra e nuova espressione, particolarmente aggressiva, del patriarcato.

 

Non ci sembra nemmeno questo, questo articolo intendiamo, lo spazio adatto per farlo, così come ci pare che lo stesso cinema abbia affrontato questo argomento in modo meno didascalico e apodittico, in pochi secondi prividi contraddittorio. E’ importante che la moda si faccia finalmente portatrice a livello popolare di istanze come l’evoluzione del corpo,biologico e sociale, e della dimensione che più gli è connessa, il tempo. Sono entrambi aspetti profondamente legati alla natura stessa del vestire, e per troppo tempo il giudizio morale che in occidente grava sul vestire e sulla moda come espressione di fatuità, di vanità, di esibizione, ha preso impossibile al cosiddetto fashion discourse, agli studi sulla moda, di svilupparsi. Però da questa dimensione non si può prescindere, essendo essa stessa connaturata alla storia che alla moda di oggi ha portato e al nostro essere. Noi siamo il prodotto della nostra storia, personale e collettiva: si può cambiare il corso della storia, certamente, ed è certamente vero, come sostiene Francesco Remotti a partire dalla lezione di Foucault e Bourdieu, che tutte le società (nessuna esclusa, smettiamola di puntare costantemente il dito su quella occidentale) si adoperino per plasmare e fabbricare i propri membri secondo un loro modello di umanità.

 

Ma una riflessione su nodi fondamentali come questi non possono esimersi da un confronto. E’ pur vero che una minima parte dei soggetti che vedranno questo film si concentrerà sul loro significato, e che tutti apprezzeranno invece gli abiti impalpabili che indossa Silvia, a partire dalla strepitosa combinaison di pizzo in cui si sveglia. Ma in ogni caso, se l’intento di questa iniziativa travalica la sola esibizione di capi desiderabili, se Gucci intende presentarsi come soggetto politico e non (solo? Più?) come azienda di beni di lusso destinata a milioni di persone, aprire un microfono a chi sostiene da vent’anni che “la trasformazione del femminismo sarà completata attraverso successivi decentramenti del soggetto donna”, forse sarebbe corretto, equo, che qualcuno, e sono molti, potesse ribattere di pensarla diversamente. 

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