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"Non ho inventato il cubo, l’ho solo scoperto". Parola di Rubik

Nicola Baroni

A 30 anni la sua camera da letto sembrava la tasca di un bambino. Poi l’idea delle facce colorate e la scoperta che una volta mescolate era quasi impossibile riportarle allo stadio iniziale. L'autobiografia di Ernoő Rubik, creatore di uno dei più celebri rompicapi

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“Non ho inventato il cubo, l’ho scoperto. È tutto basato sulle potenzialità della fisica, sulle regole e la natura dello spazio: ho solo fatto emergere quello che già c’era”. A 76 anni, dalla sua casa di Budapest, Ernoő Rubik continua a interpretare il ruolo del dilettante, quello che, per dirla alla Savinio, può “guardare le cose dall’alto e con disinteresse… con amore leggero, con amore vaporizzato”. “Non mi reputo un professionista in alcun campo. L’amatore è motivato solo dall’amore per ciò che fa, gode per il processo di scoperta, mentre il professionista deve sempre pensare all’obiettivo”, spiega commentando il suo saggio autobiografico Il cubo e io (Utet).

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“Non ho inventato il cubo, l’ho scoperto. È tutto basato sulle potenzialità della fisica, sulle regole e la natura dello spazio: ho solo fatto emergere quello che già c’era”. A 76 anni, dalla sua casa di Budapest, Ernoő Rubik continua a interpretare il ruolo del dilettante, quello che, per dirla alla Savinio, può “guardare le cose dall’alto e con disinteresse… con amore leggero, con amore vaporizzato”. “Non mi reputo un professionista in alcun campo. L’amatore è motivato solo dall’amore per ciò che fa, gode per il processo di scoperta, mentre il professionista deve sempre pensare all’obiettivo”, spiega commentando il suo saggio autobiografico Il cubo e io (Utet).

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Tutti, lamenta, gli chiedono sempre le stesse cose: come l’ha inventato e perché. La beffa è che le genesi del cubo non ha nulla di straordinario. Dopo gli studi in scultura e architettura, Rubik entra in un’accademia d’arte, prima come studente e poi come insegnante di geometria descrittiva. La sua camera da letto a trent’anni sembra la tasca di un bambino: pezzi di carta e legno, matite, bastoncini, viti. Qui nel 1974 comincia ad assemblare otto piccoli cubi per formarne uno più grande, costruisce i primi prototipi in legno legati all’interno da un elastico. Infine l’idea delle facce colorate e la scoperta che dopo averle mescolate era quasi impossibile riportarle allo stadio iniziale.

 

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La prima volta ci ha messo un mese per risolverlo. (Oggi lo speedcubing è uno sport e il cinese Yusheng Du lo risolve in 3,47 secondi). Non aveva alcuna voglia di scrivere questo libro, giusto? “Non credo che il mio talento, sempre che ne abbia uno, sia mai stato nella scrittura. Mi piacciono gli oggetti, i materiali, che sono sempre amichevoli quando ne conosci la natura, al contrario delle parole, che sono molto più sofisticate, e non puoi mai essere sicuro che per il destinatario significhino quello che tu vorresti significassero”. Come può non essere invecchiato in cinquant’anni? “Credo che la sua forza stia nelle contraddizioni che incarna: semplice e complicato, solido e fluido, compatto e disgregato”.

 

Prima della rivoluzione digitale, il cubo era già un passo oltre il mondo analogico: più di 43 quintilioni di combinazioni possibili, nessuna possibilità di sfumatura o posizionamento intermedio. In poche parole un codice, sintetizzabile in un algoritmo, di cui recentemente è stato calcolato anche il “numero di Dio”, cioè il numero massimo di mosse per arrivare alla soluzione (sono 20). “Tra digitale e analogico il cubo sta in un’intermedia terra di nessuno. Negli ultimi anni sono nate tremila app su di lui”, racconta. “Dall’altro lato però sono convinto che il fatto di poter essere descritto come un algoritmo non sia una sua esclusiva: credo che tutto nella realtà si possa descrivere con un algoritmo, anche le nostre emozioni. Non sappiamo ancora farlo ma ci arriveremo presto”.

 

Dopo una prima fase di vendite solo in Ungheria, nel 1980 il cubo cominciò a venire esportato: a oggi ne sono stati venduti 350 milioni di pezzi e nel mondo ci ha giocato una persona su sette. Quando ricevette il passaporto azzurro, non ebbe la tentazione di lasciare il paese, allora oltrecortina? “Non avevo bisogno di particolari strumenti per lavorare e ho sempre creduto che i problemi ti inseguano ovunque tu vada”. Una questione che lo incuriosisce è se le società del futuro saranno più simili a distopie o utopie.

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L’Ungheria oggi a cosa è più simile? “La realtà è sempre nel mezzo, non possiamo immaginare un mondo senza male, una vita senza fine. Le persone vivono le circostanze che creano. L’importante è lasciarle libere di fare quello che vorrebbero”. Nel libro confessa che nel primo viaggio a New York, quando non capiva una domanda rispondeva a quella che credeva “avrebbero dovuto fargli”. Oggi che l’inglese lo parla bene, l’abitudine resta. Le persone possono fare ciò che vogliono in Ungheria? Sorride. “Tu puoi pensare tutte le volte a quello che vorresti fare”. Il cubo è tornato a mischiarsi, come quando per cercare di risolvere due facce disfi anche l’unica che eri riuscito a completare.

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