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il foglio del weekend

Matisse, il pittore che si fece scrittore

Ugo Nespolo

Così “Jazz” di Henri Matisse rovesciò l’idea del libro d’artista e mise le parole dove non erano mai state

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“Chi vuole darsi alla pittura deve cominciare col farsi tagliare la lingua”
H. M. 1942

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“Chi vuole darsi alla pittura deve cominciare col farsi tagliare la lingua”
H. M. 1942

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Louis Aragon nelle sue “Lettres Françaises” il 30 dicembre 1948 scriveva a proposito del Florilège des Amours de Ronsard: “Nel ciclo dei libri che Henri Matisse dava alla propria fantasticheria, quale remota cerniera, risalendo il corso del tempo, andava egli ricercando? In diciotto anni, rinnovando il concetto stesso di illustrazione, questo grande pittore nei suoi libri principali si è sempre identificato con un aspetto del testo cui si interessava. Tutto si svolgeva come se, sul tardi della sua vita, in occasione di certi libri, raccontasse la sua vita”.
Dagli anni Trenta, per un periodo lungo più di vent’anni, Matisse si dedica con ogni forza all’impresa di render parte viva e autonoma – mai soltanto illustrativa o d’accompagnamento decorativo – il suo rapporto con alcune delle più importanti voci poetiche di Francia. Lo fa eroicamente pur attraversando periodi di crisi profonda, la grave malattia innanzitutto, che lo perseguiterà sino alla fine, l’angoscia per i drammi in seno al matrimonio e alla famiglia, la cupezza, l’incubo e la crudeltà della guerra. Sono propri questi gli anni in cui egli – dolorosamente – mette in questione persino la sua stessa posizione d’artista, un desiderio bruciante di porre a lato – almeno pro-tempore – quel suo infinito talento esecutivo in chiave pittorica per votarsi a un vasto e profondo gesto intellettuale che lo impegnerà nel confronto con la letteratura e la poesia, un gesto autoriale e davvero paritario. “E’ piacevole vedere un buon poeta trasportare la fantasia di un artista di altro tipo e permettergli di creare un suo proprio equivalente della poesia”. Sono parole sue. 

 
Recentemente la scrittrice e traduttrice inglese Louise Rogers Lalaurie ha pubblicato un prezioso e molto documentato studio raccolto in un elegante volume, stampato da Thames & Hudson e dalla University of Chicago Press, e ora anche in edizione italiana da Einaudi, dedicato ai libri cardine di Matisse, riuscendo a porli in relazione con le vicende storiche e personali vissute dall’artista negli anni della guerra, e a porre in evidenza un processo – nient’affatto semplice – in cui quei preziosi volumi poterono vedere la luce e la forma creativa.

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Come bene racconta Claudio Parmiggiani, il vero libro d’artista ha una parentela molto lontana col cosiddetto livre de peintre, quello in cui l’artista è sovente chiamato ad “illustrare” opere letterarie lavorando con un’autonomia spesso limitata. Proprio nel Novecento prende il via un percorso autonomo e originale che trasforma il libro in opera totale, sovente eseguito in pochissime copie dall’artista stesso mimando l’identico processo che si pone in atto nel creare le opere d’arte. Un percorso straordinario che prende vita ed energia dalle bizzarrie del Futurismo (“Il Libro Imbullonato” di Depero, i “Litolatta” di Marinetti) sino agli anni Settanta-Ottanta del Novecento con i libri della Poesia Visiva, i libri Fluxus, l’infinita varietà delle opere dell’èra concettuale e minimale. Nella tradizione i libri vivevano di spazi ben definiti, l’immagine e il testo rispettavano i territori loro assegnati, per esempio vivendo separati dall’inizio alla fine, ricchi solo degli ornamenti o dei culs-de-lampe, decori sistemati ad arte per dare ritmo e respiro alla pagina. 

 
Conviene subito ricordare, ancora in ambito ottocentesco, le creazioni di Édouard Manet per “Le Corbeau” di Edgar Allan Poe o quelle di Maurice Denis per “Le Voyage d’Urien” di André Gide o ancora, agli albori del Novecento, le fantasie di Toulouse-Lautrec per l’“Histoires Naturelles” di Jules Renard. In Inghilterra William Morris, ispiratore del Movimento Arts e Crafts, con la Kelmscott Press, casa editrice da lui fondata e condotta, che nel 1896 pubblicherà, dando nuova linfa all’editoria d’arte, “The Works of Geoffrey Chaucer” con le splendide illustrazioni preraffaellite di Edward Burne-Jones.

 
Una vera svolta sembra prendere il via nel 1900 proprio quando Ambroise Vollard a Parigi pubblica il testo di Paul Verlaine “Parallèlement”, ricco delle famose litografie rosa di Pierre Bonnard. Eccoci di fronte a un vero livre-de-dialogue, dialogo appunto tra due artisti in cui nessuno dei due potrà – né vorrà – prevaricare l’altro.

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I nomi sono tanti ma si può dire che tutti i più grandi artisti che si porranno all’opera in questo senso sapranno attenersi a regole non scritte alla ricerca di una fusione perfetta di testo e immagine. Non si può non pensare a “Le Chef-d’oeuvre inconnu” di Balzac illustrato molto liberamente da Picasso e stampato da Vollard, o “La fin du monde, filmée par l’Ange N.-D. Roman” di Blaise Cendrars e illustrato da Fernand Léger nel 1919. Capolavoro inimitato “La Prose du Transsibérien et de la Petite Jehanne de France”, ancora di Blaise Cendrars, con le splendide opere di Sonia Delaunay, tripudio di collages, pochoir e intrecci di colori scintillanti.

 
L’elenco è davvero vasto e si snoda con lentezza per arrivare quasi ai nostri giorni, ma – si deve dire – che sarà proprio Matisse a trasformare la tradizione del libro d’artista in quella di libro-opera con la straordinaria invenzione, messa in atto nel 1947, nel suo “Jazz”in cui, insieme ai famosi “disegni con le forbici” egli compone i testi e li trasporta in forma di manoscritti a fare da controcanto alle folgoranti immagini. Senza quest’opera non sarebbe forse mai esistito il capolavoro a quattro mani di Pierre Reverdy con le poesie manoscritte e i violenti, gestuali, rossi interventi di Picasso per Le Chant des morts pubblicato da Tériade nel 1948. Stesso discorso per il Cirque di Fernand Léger del 1951. 

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Nel 1930 il giovane Albert Skira commissiona a Matisse le illustrazioni per le “Poésies” di Stéphane Mallarmé. Ne nasce “un libro in una scatola. Spessi fogli di carta Arches color crema, racchiusi in cartelline di carta anch’essa color crema, contenuti a loro volta in un raccoglitore rigido di cartone senza immagini, il tutto presentato in un cofanetto marrone”. Questo libro dall’apparenza povera ed essenziale contiene una raccolta di cinquanta poesie del poeta simbolista Mallarmé intervallate da ventiquattro illustrazioni a piena pagina stampate all’acquaforte e incise da Henri Matisse che, pur avendo già negli anni Venti pubblicato volumi con delle  sue illustrazioni, vuole considerare questo “il mio primo libro”. In effetti l’artista lavora con un atteggiamento nuovo rispetto al semplice intervento illustrativo in voga. Il suo segno, tanto essenziale quanto incisivo, crea una relazione profonda con quelle “nuvole di parole”, danzanti in una metrica dal ritmo ipnotico che si popola di figure evanescenti, curvate ed avvolgenti e sicuramente molto legate alle profonde suggestioni ricevute dal suo recente viaggio a Tahiti. Un segno liberato dalle trappole della “civilizzazione” ed intriso dall’energia e dallo splendore dei mari del sud. 

 

   

Matisse dice ad Aragon d’esser stato tormentato a lungo dalla poesia di Mallarmé, forse come risposta a questo tormento e con il medesimo atteggiamento di sfida mostrato nel lungo solitario viaggio in terre lontane, Matisse vive il tentativo di affrancarsi dall’incubo di non riuscire a vincere la sua crisi da “blocco del pittore”. Nel 1951, a vent’anni dalla pubblicazione del libro, Alfred H. Barr, primo direttore del MoMA, definisce quell’opera “uno dei più bei libri illustrati mai stampati”.

 
Gli anni tra il 1930 e il 1932 son quelli in cui l’artista lavora alle “Poésies” di Mallarmé, nel viaggio per Tahiti, via New York e San Francisco, visita a Merion (Pennsylvania) la Fondazione Barnes dove accetta la commissione per la grande decorazione La Danse che installerà definitivamente nel 33. Devono passare dieci anni prima di incontrare il secondo libro di Matisse, un libro in cui il pittore è anche autore nella scelta dei lavori da pubblicare e nella sua disposizione in pagina. Il dotto testo che accompagna il corpus dei disegni è dell’amico Louis Aragon che Matisse considera “uomo intelligente, sensibile, ardente e molto sincero”. Di non poco valore è il fatto che Aragon, intellettuale comunista e membro della Resistenza, di fatto latitante, desse a questo “Dessins, Thèmes et Variations” un alone di non blanda resistenza creativa che sfidava apertamente l’autorità del governo di Vichy, dal momento che il nome di Aragon compariva nella lista degli autori banditi dalla pubblicazione sin dal settembre 1939. Il libro vive di centocinquantotto disegni ordinati alfabeticamente dalla A alla P e la stampa si conclude il 17 febbraio 1943 a opera del giovane editore parigino Martin Fabian, da Matisse designato suo agente “in prova” nel 1941.

 
Aragon ancora c’illumina sul senso del lavoro di questi anni e di quest’opera: “Nell’ora più buia della notte, si dirà, egli disegnava quei disegni chiari”.
E’ la volta, tra il 1941-42 del “Florilège des Amours de Ronsard” definita “un’antologia o bouquet dei più bei fiori (raccolti, per così dire, a mano) del corpus poetico di uno dei più celebrati poeti del canone francese”. Matisse gioca una doppia partita con questo straordinario “compulsivo amante delle donne”, la passione sessuale che sprigiona da quei versi ha un perfetto controcanto nei tratti irrequieti delle forme matissiane, un gioco quasi segreto fatto d’infatuazioni romantiche, di relazioni tormentate, di segni di matita e carbone ammiccanti e dai rimandi continui. E’ ancora Albert Skira che emozionato, dopo l’incontro in cui riceve l’assenso dell’artista alla realizzazione del lavoro, scrive: “Quando lasciai Cimiez un grande pittore e amico mi aveva, ancora una volta, onorato della sua fiducia e della sua confidenza”.

 

  
In una lettera del gennaio 1943 Rouveyre scrive all’amico Matisse: “Siamo qui alla più profonda espressione della forza, della grazia e delle radici della Francia”. Grande album di fogli di carta pesante ripiegati ospitano quaranta poesie trascritte in inchiostro nero e tutte – come scrive Lalaurie – “incorniciate da cartigli disegnati a pastello… con meditati accostamenti di colori: verde pino e blu notte, zafferano, foglia di te e aubergine”. Sono i “Poèmes” di Charles d’Orléans, secondogenito del re Carlo V di Francia che riuscì a infondere nelle sue ballate e canzoni quel senso di malinconia e ironia. Parla dell’amore perduto, della vecchiaia, del tempo andato memore della sua lunga prigionia inglese. Il libro ebbe una gestazione lunga e difficile e fu stampato soltanto nel 1950 e rimane l’ultimo “libro di guerra di Matisse”.

 


Giusto un paio di settimane prima dello sbarco del D-day, venne stampato a Parigi il 20 maggio 1944 il libro “Pasiphaé: Chant de Minos”. Si tratta di due lunghi poemi in prosa di Henry de Montherlant, un monologo e una tragedia greca ispirata al mito della nascita del Minotauro. Questa volta Matisse adotta la linoleografia, quella tecnica diretta, che non ammette errori ed incisa dall’artista scavando con le sgorbie porzioni di linoleum. Grandi campiture nere scintillanti colme però di guizzi bianchi, tratti precisi e sinuosi per narrare il mito di Pasifae figlia del dio solare greco Elio e della ninfa oceanica Perseide, figlia a sua volta del titano Oceano con la sorella Teti. Una storia che si colora di erotismo e che culmina con il fantasioso accoppiamento del bianco e sacro toro inviato da Poseidone dopo aver condannato Pasifae ad accoppiarsi con l’animale. Minosse costruì una vacca di legno dentro la quale si nascose la donna per l’accoppiamento da cui nacque il Minotauro. Quel mito affascinò sempre Matisse e il dramma di Montherlant incentrato sulla volupté per lui rivestiva un significato del tutto speciale.

 

  
Chissà perché Matisse per le trentuno poesie dei “Les Fleurs du Mal” di Baudelaire si è servito soltanto di teste e visi di donne? Le sue modelle preferite erano già pronte a posare: “Una vicina e amica haitiana, Carmen Lahens, una studentessa d’arte olandese Annelies Nelck, Lydia Delectorskaya, assistente e compagna di Matisse, e l’ispanica Nénette Palomarés”. Conviene ricordare le parole di Baudelaire in una lettera alla madre nel 1857: “Questo libro il cui titolo dice tutto, è rivestito di una bellezza sinistra e fredda”. La sua idea era quella di “extraire la beauté du Mal”. Le immagini matissiane celebrano piuttosto la bellezza notturna, il mistero femminile ma anche “l’ebbrezza dei paesaggi e dei climi tropicali”. Sono disegni messi in opera al colmo del conflitto bellico, l’anno in cui egli stenta ad avere notizie della moglie Amélie e della figlia Marguerite arrestate e imprigionate a Rennes, dopo esser state catturate per le loro attività nella Resistenza.

 
Mariana Alcoforado, giovanissima monaca reclusa dal padre nel convento della guarnigione portoghese di Beja, è l’autrice delle “Lettres Portugaises” che divenne un libro di grande successo, un vero fenomeno editoriale del Diciassettesimo secolo. Solo negli anni intorno al 1920 le lettere vennero studiate e pubblicate con grande successo tra il 1934 e il 1943. Matisse ritrovava nel testo le medesime turbe sentimentali e politiche che lo angosciavano. La Francia ancora nel vortice tragico lasciato dalla guerra, le ansie per moglie e figlia imprigionate dai nazisti e la scoperta delle torture cui eran state sottoposte convinsero l’artista a dedicarsi – insieme all’editore Tériade – a ripercorrere con testi e immagini le vicende della sventurata e incompresa Mariana. Un libro prezioso, tirato in 250 copie su carta Vélin d’Arches, fatto forse anche per curare – proprio come Mariana – le ferite dell’incomprensione e delle critiche dell’establishment e del pubblico.

 
“Après tout je me fiche des autres”. “Jazz” deve esser considerato il libro di Matisse come il vero capostipite del rovesciamento dell’idea tradizionale del libro d’artista. Una vera opera d’arte che segna anche il passaggio rivoluzionario dalla pittura all’epoca dei papiers découpés, straordinarie opere di carte ritagliate e colorate a gouache.

 
Nasce quell’idea di “dessiner avec les ciseaux” in un’opera dove la parte testuale è scritta a mano dall’artista e riveste la medesima qualità e importanza delle parti figurate, a patto che qualcuno abbia la pazienza di leggerle e l’artista si augura che lo faccia “con l’indulgenza che si accorda in generale agli scritti dei pittori”. Quei testi specchiano la spiritualità, i concetti estetici, il pensiero più autentico dell’autore. La critica in quegli anni risultò sorpresa e impreparata a una novità tanto radicale, lamentava lo scarso collegamento tra testo e immagini e solo tardivamente si rese conto di essere davvero di fronte a un’opera che aveva traghettato la tradizione del libro d’artista in quella del libro-opera.
Matisse sente però di vivere una “specie di crisi di coscienza”, ma poi, costretto da tempo a letto, scrive: “L’unica mia distrazione, le variazioni stagionali nella vita di un ciliegio fuori dalla finestra”.

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