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La fortuna di essere lettori non ha eguali

Leggere il libro di Raffaele La Capria e desiderare di essere lui

Marco Archetti

Essere Raffaele La Capria per averne in dono la visione della vita, lo sguardo panoramico e la salutare antiretorica; per vedersi regalato ciò che costa una vita conquistare. Non poteva capitarci di meglio che leggerlo, e averlo e sentirlo, oggi, come un maestro

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Essere lui. Essere Raffaele La Capria. È questo che si vorrebbe, senza mezzi termini, guardando la sua bella faccia che, in un golfo di penombra e contro uno sfondo di libri, sorride in copertina con eleganza sfuggente, mentre con una mano carezza il cane Guappo. E lo si vorrebbe ancor di più man mano che si procede nella lettura di questo suo ultimo libro, intitolato La vita salvata, conversazioni con Giovanna Stanzione (Mondadori, 157 pp., euro 18), puntata d’amor crepuscolare che prosegue l’ininterrotto dialogo che lo scrittore conduce da anni coi propri lettori.

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Essere lui. Essere Raffaele La Capria. È questo che si vorrebbe, senza mezzi termini, guardando la sua bella faccia che, in un golfo di penombra e contro uno sfondo di libri, sorride in copertina con eleganza sfuggente, mentre con una mano carezza il cane Guappo. E lo si vorrebbe ancor di più man mano che si procede nella lettura di questo suo ultimo libro, intitolato La vita salvata, conversazioni con Giovanna Stanzione (Mondadori, 157 pp., euro 18), puntata d’amor crepuscolare che prosegue l’ininterrotto dialogo che lo scrittore conduce da anni coi propri lettori.

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Essere Raffaele La Capria per averne in dono la visione della vita, lo sguardo panoramico e la salutare antiretorica, quell’antiretorica praticata sempre, brandita mai, men che meno inflitta come valore contundente, vissuta senza clamori e senza che l’autore, della propria appartata circostanza, abbia mai fatto vessillo che garrisce al balcone (quanti appartati di professione conosciamo, che si adornano di segnaletica indicante sempre e solo io io io?). Essere Raffaele La Capria per assorbirne la cristallina lucidità, il senso nobile delle proporzioni, la brezza ironica che rinfresca ogni considerazione, e quell’incoercibile fedeltà al ruolo della Letteratura, quella con la L.

 

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Lui che di scrivere romanzi ha smesso da un po’. Lui che ha pensato di non essere eccelso. Lui che riuscì nel capolavoro di portare la spigola in salotto (fu una sua battuta a proposito del premio Strega vinto con Ferito a morte) e il capolavoro fu non confondere mai l’una con l’altro. Lui che è stato il cantore delle armonie di una Capri perduta e ormai priva di anima, che non è più Capri e si è trasformata, come Roma, come Venezia, in una ripetizione semantica di se stessa. Lui che ci ha portato notizie di una Napoli della guerra e di dopo, una Napoli raccontata senza ricadere nel bozzetto, nel feticcio o nella deliziosa carabattola da salotto delle rime baciate, la Napoli senza napoletaneria e senza napoletanaggine di cui avremmo tutti bisogno e per cui gli saremo sempre grati; la Napoli fuor di folklore, fuor di caricatura poetizzante o spoetizzante.

 

Essere Raffaele La Capria, insomma, per vedersi regalato ciò che costa una vita conquistare: un po’ della sua saggezza politica, cioè dell’intatta capacità di vedere l’intero dal proprio particolare, da una finestra sempre aperta anche su un mercato in cui comprare ostriche, le uniche che – rivela – gli restituiscono ancora il gusto del mare di quando era bambino e il palazzo Donn’Anna era una scuola dei sensi, col “sapore fenico delle patelle mangiate dopo averle staccate dagli scogli”, lo sgretolarsi della pietra di tufo gialla e tenera, lo sciacquio del mare tra gli scogli, memoria immaginativa, deposito di Miti, educazione a una bellezza immediata ed eterna, perché non tutto è nelle parole, e ci vogliono anche tatto e gusto e talento per la vita sensibile perché “la mente, sola, mente solamente”.

 

Essere Raffaele La Capria, infine, per godere della sua sterminata memoria citazionistica, che nulla ha a che vedere con la parafilia per le suppellettili squisite, ma è mappa srotolata e sentimentale, colonna vertebrale di una vita con al centro, sempre, la letteratura. Essere Raffaele La Capria per il continuo presente in cui ha saputo far vivere tutta l’esistenza, pur nella consapevolezza ungarettiana di “quel vento che ti sfiora e mai, mai più, ripasserà”. Voler essere Raffaele La Capria per queste e per mille altre ragioni. Ma continuare a leggere. Entrare nel vivo del libro. E rendersi conto che la fortuna di esserne lettore non ha eguali. Perché, soprattutto oggi, in un tempo in cui la letteratura sta inevitabilmente cambiando e vede, forse, l’autunno dei maestri e l’alba dei mestieranti, leggere La Capria significa accedere al privilegio di una maieutica.

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Essere lettori di La Capria per custodire la traiettoria di un pensiero che negli anni si è fatto sempre più limpido, e il suo stile dell’anatra – che scorre sulla superficie mentre sotto la superficie visibile dell’acqua agita le zampette – sempre più fluido, naturale, alieno agli estetismi e alle ragnatele concettuali, merce rarissima nella letteratura italiana, tutto al servizio di una predisposizione naturale alla felicità come possibilità di comprensione sensoriale della vita: una vita a tutto tondo, in cui La Capria si tuffa e sa ritrovare ogni cosa, perché ogni cosa è perduta, ma ogni cosa è per sempre finché la si può ricreare attraverso il linguaggio.

 

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“L’antitesi della bellezza è la morte”, ci dice Dudù, ancora bello, matricola della vita di novantotto anni che non ha mai immaginato i propri lettori perché, dice, “io ho immaginato il mondo”. E poi l’ha offerto a noi, noi che vorremmo essere La Capria seppur sappiamo che non poteva capitarci di meglio che leggerlo, e averlo e sentirlo, oggi, come un maestro. Uno di quelli che non vorrebbe mai esserlo. Uno che – semmai, se proprio deve, sorridendo – ti incoraggia a fallire.

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