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Il foglio del weekend

Sinfonia mafiosa

Riccardo Lo Verso

I capimafia si sono fatti impresari, a volte persino talent scout di cantanti neomelodici di seconda fila. Celebrano un potere che non gli appartiene più

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Da molt’anni sono morti i mandolini e le chitarre ma questa notte girano le serenate tanto è antica la luna e battono gli sportelli a gli androni e risplendono i vetri all’alte balconate”, scriveva il siciliano Lucio Piccolo nei primi anni del Novecento. Serenate che, nella Sicilia del 2020, e chissà cosa avrebbe da dire in merito il poeta di Calanovella, sono diventate neomelodiche e mafiose. Che si farebbe bene a sbarrare le finestre per non udirle. “Pinuzzo non può cantare”, sentenziò una manciata di mesi fa il nuovo mammasantissima di Borgo Vecchio, dedalo di viuzze a pochi passi dalla centralissima via Libertà, la strada palermitana delle ville Liberty che la mafia di un tempo ha risparmiato dalla demolizione negli anni del sacco edilizio, dei platani secolari e delle vetrine dello shopping. Che mafia è questa che, così emerge dalle recenti indagini, tiene sotto scacco i quartieri popolari di Palermo? Siamo allo stadio neomelodico di Cosa Nostra, alla sub cultura della sub cultura mafiosa. I picciotti di malavita si atteggiano a boss nella tronfia manifestazione di potere con la quale impongono sul palco delle feste di borgata un cantante piuttosto che un altro.

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Da molt’anni sono morti i mandolini e le chitarre ma questa notte girano le serenate tanto è antica la luna e battono gli sportelli a gli androni e risplendono i vetri all’alte balconate”, scriveva il siciliano Lucio Piccolo nei primi anni del Novecento. Serenate che, nella Sicilia del 2020, e chissà cosa avrebbe da dire in merito il poeta di Calanovella, sono diventate neomelodiche e mafiose. Che si farebbe bene a sbarrare le finestre per non udirle. “Pinuzzo non può cantare”, sentenziò una manciata di mesi fa il nuovo mammasantissima di Borgo Vecchio, dedalo di viuzze a pochi passi dalla centralissima via Libertà, la strada palermitana delle ville Liberty che la mafia di un tempo ha risparmiato dalla demolizione negli anni del sacco edilizio, dei platani secolari e delle vetrine dello shopping. Che mafia è questa che, così emerge dalle recenti indagini, tiene sotto scacco i quartieri popolari di Palermo? Siamo allo stadio neomelodico di Cosa Nostra, alla sub cultura della sub cultura mafiosa. I picciotti di malavita si atteggiano a boss nella tronfia manifestazione di potere con la quale impongono sul palco delle feste di borgata un cantante piuttosto che un altro.

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Ve li immaginate i boss infrattati negli angoli bui della città per non farsi vedere e sentire dagli sbirri, indaffarati in segretissime riunioni per scegliere l’artista – “questo sì, questo no” – mentre sfogliano l’album con nomi d’arte improponibili? Smettete di immaginare, perché è ciò che avviene. I capimafia si sono fatti impresari, a volte persino talent scout. Un giorno siedono al tavolo della nuova cupola di Cosa Nostra, quella del dopo Totò Riina, convocata nel tentativo disperato di serrare i ranghi di una mafia azzoppata dalle inchieste, e all’indomani decidono la scaletta dei concerti delle feste in onore di Santi e Madonne. Provano persino invidia nei confronti di chi “prende il cd, viene, canta e guadagna 3 mila euro”. Così, senza neppure la band al seguito ma la sola base musicale, mentre loro, i boss, devono consumare le suole delle scarpe per racimolare i soldi del pizzo. Prendete Gregorio Di Giovanni, che potente boss lo è stato davvero tanto da guadagnarsi l’appellativo di reuccio di Porta Nuova, il mandamento che fu di Pippo Calò e Masino Buscetta e che ingloba anche la famiglia di Borgo Vecchio. Di Giovanni ha autorizzato il monopolio di un impresario che piazza gli artisti della sua scuderia in ogni festa di quartiere.

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E chi mai volete che si opponga. Perché mai Pinuzzo subì l’ostracismo mafioso? Perché si era permesso di fare circolare la voce che si stava meglio quando si stava peggio, e cioè nella stagione in cui a Borgo Vecchio comandavano i fratelli Tantillo, di cui uno è diventato collaboratore di giustizia. Un collaboratore sui generis, che non resiste al richiamo dei social e lancia offese ai parenti-serpenti in diretta Facebook in uno slang incomprensibile ai più. Una cosa è avere un parente ammazzato in famiglia, un’altra un familiare pentito. A fare la voce grossa nel popolare quartiere sarebbe stato, per ultimo, Jari Massimiliano Ingarao che nel 2007 pianse il padre, allora reggente del mandamento, trucidato per volere di Salvatore Lo Piccolo, boss di San Lorenzo. Erano i giorni in cui Totuccio il barone si era messo in testa di creare un unico mandamento che inglobasse l’intera mafia palermitana. Altri tempi, altra mafia.

 

Dal suo arresto, datato 2007, è stato un susseguirsi di blitz. In carcere sono finiti anche coloro che attesero Ingarao all’uscita del commissariato dove si recava ogni giorno per firmare il registro dei sorvegliati speciali e lo crivellarono di colpi. Da allora le terze e quarte leve si sono fatte avanti. Non gli sembra vero di detenere il bastone del comando e di potere organizzare le serate canore. Una, due, tre giornate che manco il festival di Sanremo L’attivissimo Ingarao jr, alla cui autorità osavano preferire quella di un infame come Tantillo, ne ha fatto una questione d’onore. “Mi devo mettere la divisa se canta Pinuzzo”, ripeteva sfidando tutto e tutti. Che poi l’artista in questione è un artigiano della canzone neomelodica e si accontenta di un cachet basso. E se fosse quest’ultima la sua vera colpa? Pochi soldi, poco onore. Per Sant’Anna, patrona del rione, non si deve badare a spese, nonostante le casse dell’organizzazione siano in profondo rosso. E così oltre a sfogliare l’album dei cantanti i mafiosi-impresari organizzano pure la riffa per pagarli.

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Una grande estrazione con un premio finale a cui i commercianti della zona devono contribuire comprando i biglietti e sponsorizzando la manifestazione canora. I boss di seconda e terza generazione fanno la colletta e i soldi che mancano per allestire gli spettacoli li raccolgono regolando il traffico dei venditori ambulanti. In base alla mercanzia esposta sulle bancarelle abusive si paga un tot di pizzo. Birra, pane ca meusa, calia e semenza, panelle e crocchè, zucchero filato, caramelle e torrone: il tariffario del racket segue le tabelle enogastronomiche. E le tabelle enogastronomiche, così come i testi delle canzoni neomelodiche, finiscono nelle informative degli investigatori, che nei luoghi delle riunioni, meglio usare la parola summit che fa più mafia, hanno piazzato le microspie. Sanno già chi domanda e chi comanderà ancor prima che vengano scarcerati. Ed è in onore di chi comanda che le feste devono essere sfavillanti. La partecipazione religiosa, quella autentica, fa da schermo a un sottobosco dove l’unità di misura della mafiosità è il puzzo di fritto che ammorba l’aria.

 

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Il folklore chiassoso scherma l’illegalità diffusa, che non ha neppure bisogno di nascondersi. Le feste di quartiere sono una zona franca. Le transenne demarcano un luogo dove chi sta al di qua è autorizzato a violare ogni regola perché chi sta al di là ha deciso di farsene una ragione. Il giorno della festa coincide con la consacrazione pubblica del nuovo capo. Accadde così qualche anno fa alla Noce, un tempo feudo dei fratelli Ganci “nati per uccidere” e fedeli alleati dei corleonesi. La graziosa e baroccheggiante ragazza nel suo abito di lustrini e paillette, dandosi un tono da presentatrice di festival, salutava dal palco “l’amico mio Giovanni del terzo piano”. E Giovanni, dalla sua postazione dominante sulla piazza alzava la mano destra per salutare e benedire la folla. A fotografare questo mondo meglio di altri, con il cinismo artistico che lo contraddistingue, ci ha pensato Franco Maresco nel film “La mafia non è più quella di una volta”, pellicola che ha vinto il premio speciale della Giuria alla Mostra del cinema di Venezia.

 

Ha ragione Maresco quando dice di avere avuto la sensazione di essersi spinto in un territorio in cui la distinzione tra bene e male, tra mafia e antimafia, si è azzerata e tutto, ormai, è precipitato in uno spettacolo senza fine e senza alcun senso. Andando a sbattere contro storie come quella di Borgo Vecchio ci si chiede se non sia la realtà a inseguire la finzione cinematografica e non viceversa. Il regista si interroga su cosa sia rimasto degli ideali di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Fa emergere, attraverso le parole della fotografa Letizia Battaglia, che la mafia di un tempo l’ha raccontata, le manipolazioni delle commemorazioni di Falcone e Borsellino, passerelle a buon mercato. Affida al personaggio di Ciccio Mira, impresario di concerti neomelodici, il ruolo di destabilizzatore. Da fervente difensore di mafiosi come si era mostrato nel precedente film “Belluscone”, l’impresario si spinge a organizzare un concerto in onore di Falcone e Borsellino. Destabilizzante è la convivenza nel personaggio della mafia stracciona e neomelodica e dell’antimafia da avanspettacolo.

 

Qualche mese dopo l’uscita del film la realtà supera la fantasia e finisce per dare alla pellicola di Maresco un valore documentaristico, più che narrativo. Mafia e antimafia di maniera si incrociano nel dialogo intercettato fra il nuovo boss e il cantante catanese Niko Pandetta, uno che riempie le piazze e scatena polemiche. Prima ha dedicato una canzone allo zio, il boss catanese Turi Cappello, “purtroppo al 41 bis”, e poi ha rincarato la dose in Tv, nel corso della trasmissione Realiti di Rai2. Il Comune di Bollate, centro della cintura metropolitana milanese mica la più meridionale delle città, gli ha vietato di esibirsi. Pandetta l’ha fatta grossa. Da qui il consiglio del mafioso, impresario e pure consulente per l’immagine: tatuarsi i volti di Falcone e Borsellino per rifarsi una verginità. Né più né meno di chi tira fuori il santino dei martiri della lotta alla mafia alle celebrazioni. Servirebbe un approccio meno confessionale sui fatti di Palermo per dare il giusto peso alle cose, anche a costo di rinunciare alle prime pagine, e raccontare che i nuovi boss sono dei malacarne, precipitati nella scala gerarchica delle notizie.

 

La storia del rione Borgo Vecchio fa emergere con nitidezza le due facce di una stessa medaglia. Da una parte l’efficienza dello Stato che ha messo la mafia all’angolo, obbligandola a selezionare gli artisti neomelodici per mantenere il consenso sociale. Dall’altra, lo stesso Stato mostra l’incapacità di andare oltre la repressione. Se la mafia, questa mafia, regola ancora la vita misera delle borgate vuol dire che le manette non bastano. E non bastano le strette di mano, come quella che il premier Giuseppe Conte, pandemia permettendo, ha promesso di riservare ai commercianti palermitani che hanno denunciato gli esattori del racket dando il là all’ultimo blitz. Alcune associazioni di uomini e donne armate di tanta buona volontà hanno preso carta e penna per chiedere al gentile presidente chi si occupa di ricostruire, chi colma i vuoti su cui sono proprio mafie e criminalità a prosperare, quali alternative e opportunità costruiamo per i giovani e le giovani che in questi quartieri sono nati e cresciuti?

 

Vorrebbero vedere in strada un esercito di educatori, insegnanti, dirigenti e funzionari dei comuni e dello Stato a garantire diritti, a costruire alternative e opportunità. Ed invece l’onda del blitz, una volta ritiratasi, sul campo ha lasciato le macerie sociali di sempre. Stanno lì, prendono forma nelle cataste di spazzatura che si accumulano nei vicoli della borgata, nei piccoli e grandi illeciti quotidiani. Questa è Palermo, anche se molti si impegnano in un lavoro instancabile per non mostrarne il volto meno chic, come si fa con la polvere sotto il tappeto. “Da molt’anni sono morti i mandolini e le chitarre”, scriveva Lucio Piccolo. Da queste parti è morta anche la dignità.

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