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Il foglio del weekend

Dove sta Zazà

Gaia Manzini

Un inedito di Simone de Beauvoir appena pubblicato e la tragica storia dell’amica ed eroina che la scrittrice cercò per sempre, anche nei sogni

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Quando entrò, indossava una camicetta di seta lilla e una gonna pieghettata, era giovane, con un casco di capelli neri che facevano contrasto con gli occhi chiari dal trucco blu. La signorina de Beauvoir ci parve incredibilmente splendida”. Così Simone de Beauvoir è descritta da una sua studentessa di liceo, Sarah Hirschman. Simone de Beauvoir, faro indiscusso per i movimenti di emancipazione femminile, colei che con la sua vita e le sue opere ha contribuito a innescare una “rivoluzione antropologica”, come da sempre sostiene la saggista e psicanalista Julia Kristeva. Quando Sarah Hirschman la incontra, Simone si è allontanata da tempo dalla sua famiglia, dal suo ambiente, ed è pura luce: emana il chiarore della scelta, la presa di coscienza di ogni passo, di ogni direzione presa.

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Quando entrò, indossava una camicetta di seta lilla e una gonna pieghettata, era giovane, con un casco di capelli neri che facevano contrasto con gli occhi chiari dal trucco blu. La signorina de Beauvoir ci parve incredibilmente splendida”. Così Simone de Beauvoir è descritta da una sua studentessa di liceo, Sarah Hirschman. Simone de Beauvoir, faro indiscusso per i movimenti di emancipazione femminile, colei che con la sua vita e le sue opere ha contribuito a innescare una “rivoluzione antropologica”, come da sempre sostiene la saggista e psicanalista Julia Kristeva. Quando Sarah Hirschman la incontra, Simone si è allontanata da tempo dalla sua famiglia, dal suo ambiente, ed è pura luce: emana il chiarore della scelta, la presa di coscienza di ogni passo, di ogni direzione presa.

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Eppure, fin da bambina, aveva conosciuto il lato acuto dell’esistenza. Si poteva divertire per l’incessante novità delle cose, assaggiare febbrilmente il mondo, e subito dopo finire nel gorgo della rabbia. Gridava, Simone, con violenza inarginabile. Una volta, in Lussemburgo, una anziana sconosciuta cercò di placare la sua disperazione porgendole un bonbon, ma lei la ringraziò con un calcio. “Mi sono spesso domandata quale fosse la ragione e il senso di queste mie rabbie. Credo ch’esse si spieghino in parte con una profonda vitalità, e con un estremismo cui non ho mai rinunciato del tutto… Non potevo accettare con indifferenza la caduta che mi precipitava dalla pienezza la vuoto, dalla beatitudine all’orrore.” Non poteva accettare la sua impotenza di bambina, né di essere manovrata in alcun modo: così racconta nelle Memorie di una ragazza perbene (1958).

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De Beauvoir e quel mondo alto borghese a cui si sentiva di appartenere a distanza; quel padre avvocato, ma smanioso di far parte dell’aristocrazia: con la sua eleganza, la sua capacità di fingere, agghindarsi, truccarsi, in fondo sempre un attore mancato, che lei amava ma metteva a fuoco, nella giusta prospettiva; i giochi e le fantasticherie di bambina che la vedevano sempre donna, mai uomo, ma neanche mai madre; l’orrore per il finale di Piccole donne (il matrimonio di Laurie con la frivola Amy) che le fece scagliare il libro a terra con orrore. E poi Zazà, l’amica modello, ironica e intelligentissima: colei che segna il distacco definitivo dai genitori, l’avviarsi verso la maturità. Terza dei nove fratelli Mabille, Zazà è l’essere eccezionale che entra nella vita di De Beauvoir molto prima di Sartre, trasformandosi in un alter ego inarrivabile.

 

E’ lei l’amica geniale di Simone: esempio di quei sodalizi femminili, di quelle simbiosi e rispecchiamenti vertiginosi, di quelle venerazioni molto simili all’innamoramento che ognuna di noi ha provato in gioventù. Prima che nelle Memorie, Zazà compariva come protagonista assoluta di una novella che De Beauvoir scrisse nel 1954 e, su consiglio di Sartre, non diede mai alle stampe, perché considerata priva di una necessità interiore. L’autrice però non la distrusse come fece con altri scritti di cui non era soddisfatta. Quell’inedito è oggi Le inseparabili (anche se l’originale non aveva titolo), uscito in questi giorni prima in Francia, ora in Italia (l’editore è Ponte alle Grazie, la traduzione di Isabella Mattazzi) e prossimamente in altri sedici paesi. Aveva nove anni Simone. I suoi genitori l’avevano iscritta alla scuola cattolica Adeline Desir di rue Jacob a Saint-Germain-des-Prés: una scelta che non l’aveva mai convinta del tutto, almeno fin quando un giorno era entrata in classe una bambina più grande, i capelli bruni tagliati corti, il viso intelligente, una simpatia innata.

 

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Si chiama Élisabeth Lacoin, detta Zazà, e spicca sul conformismo che le circonda. Il racconto si concentra sulla relazione di amicizia che ha segnato tutta vita di Simone de Beauvoir. E’ commovente questo rapporto formale di fanciulle che si danno del lei, ma si sono battezzate “inseparabili”; commovente il mutamento del cuore di Simone, la sua vulnerabilità di fronte all’amica, la passione e il terrore di deluderla; l’ambiguità candida dell’amicizia che è già un’avventura del cuore. E’ commovente perché noi tutti lo sappiamo già prima di iniziare: Zazà è destinata a un’esistenza breve, morirà a ventidue anni, nel 1929, e Simone tenterà di riportarla in vita più volte: nel romanzo Lo spirituale un tempo e in un passaggio soppresso del romanzo I Mandarini, con cui vinse il Goncourt nel 1954, e ancora nelle Memorie di una ragazza per bene (1958). Nell’Età forte (1960), continuazione ideale delle Memorie, Zazà torna e ritorna: qui De Beauvoir racconta che proprio Sartre progettava di scrivere un romanzo sulla morte di Zazà, ma l’amico Pagniez lo prese in giro e lo dissuase.

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Racconta delle dispute intellettuali con l’amica, la sua fiera difesa della maternità; racconta della sensazione di perdere i propri contorni di fianco a personalità così magnetiche – quella di Sartre e, prima, quella dell’amica perduta per sempre. In De Beauvoir c’è sempre un rapporto sacro con la parola scambiata, la parola che crea un ponte, un’uguaglianza. Il segreto del suo rapporto con Sartre era questo: dialogare incessantemente, come anni prima aveva fatto con Zazà. “Avere con qualcuno un accordo totale è in ogni caso un privilegio immenso, per me, aveva un valore letteralmente infinito. Nel fondo della mia memoria brillavano con dolcezza senza eguale le ore in cui mi rifugiavo con Zazà nello studio del signor Mabille e ci mettevamo a parlare… Certo, le circostanze mi favorirono; avrei potuto non trovare un perfetto accordo con nessuno; ma quando me ne fu data l’occasione, se ne approfittai con tanto trasporto e tanta tenacia, fu perché essa rispondeva a un anelito assai antico. Sartre aveva appena tre anni più di me; era, come Zazà, un mio pari; partivamo insieme alla scoperta del mondo”.

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Questa triangolazione sembra la rappresentazione di quella fraternità tra sessi tanto auspicata. L’amicizia è enigmatica come l’amore, intensa come l’amore; pronta a sconfinare, a smarginare i contorni. “Perché era lui, perché ero io”, scriveva Montaigne a proposito di La Boétie e di sé stesso: e così è per Simone e per Zazà, che qui hanno nomi diversi: sono Sylvie e Andrée. Nel racconto Le inseparbili c’è l’evolversi del loro rapporto e della loro complicità fino agli anni della Sorbona, ma c’è anche la portata tragica del loro distacco, il valore universale del destino di Zazà. Simone de Beauvoir ha sempre ricordato con un certo disappunto una foto di famiglia scattata a Gagnepan, in Nuova Aquitania: ciascuno dei nove bambini Mabille era stato posizionato secondo l’età; le sei bambine indossavano la stessa divisa di taffetà blu e un identico cappello di paglia decorato con dei fiordalisi.

 

Era la dimostrazione di come tutto fosse già deciso e incasellato dalla famiglia. L’amica aveva già il suo posto ad attenderla, il suo posto per l’eternità. Zazà infatti è costantemente coinvolta in doveri famigliari, non si può sottrarre, è divorata da visite, mondanità, commissioni, perfino in estate. Non ha mai tempo per sé, non le è concesso; non ha il diritto della libertà, né può rimanere mai sola, neanche a suonare l’amato violino. Non può scegliere liberamente per la propria vita. Chi sarebbe diventata Zazà se fosse vissuta più a lungo? Forse la Monique di Una donna spezzata, uno dei racconti di De Beauvoir che più parla della solitudine delle donne: la parabola di una casalinga che ha dedicato tutta la sua vita ai doveri famigliari e si ritrova avanti con l’età, tradita dal marito, senza più niente; soprattutto senza la propria identità. Andrée si innamora di Pascal, come Zazà si era innamorata del filosofo Maurice Merleau-Ponty, ma la famiglia osteggia in ogni modo la sua relazione, fino alle estreme conseguenze.

 

Zazà è morta perché ha cercato di essere sé stessa e si è convinta che quella pretesa fosse un male. Zazà, si ripete Simone, è morta perché era eccezionale. Non poteva adattarsi alle regole conformiste della famiglia: quella famiglia che in ogni modo aveva cercato di soffocare la sua individualità. Per Simone de Beauvoir, per il suo pensiero, per l’importanza che i suoi scritti – a partire dal Secondo sesso (1949) – hanno avuto a proposito dell’emancipazione femminile, non poteva esistere crimine più grande. Il valore assoluto della propria soggettività, la possibilità e il dovere di scegliere e determinare il proprio destino: nessuna donna per De Beauvoir dovrebbe mai rinunciare a questo principio. Zazà, che si è sottratta con la morte alle imposizioni del mondo, nell’immaginario di De Beauvoir è come un’eroina. Un’Ofelia contornata dal candore dei fiori. Bellissima e irriducibile.

 

In un’intervista di Madeleine Chapsal, De Beauvoir dice di aver scritto tardissimo il Secondo sesso, e di non essersi accorta fino a quel momento che la femminilità fosse una “situazione”. Aveva cominciato a riflettere su sé stessa e, d’un tratto, si era resa conto che esisteva una “condizione femminile”. Aveva voluto spiegarla e l’aveva fatto con un libro che aveva scandalizzato molti uomini, e molti uomini di sinistra. Avrebbe scritto il Secondo sesso se non ci fosse stata Zazà? Zazà che ritorna in sogno quasi tutte le notti con il suo colorito giallastro e il suo cappellino. Lei che per ribellarsi alla madre e al divieto di frequentare il filosofo aveva trascorso nuda la notte all’addiaccio spegnendosi così per un’encefalite virale, e segnando per sempre la cesura di De Beauvoir nei confronti di una borghesia ipocrita e perbenista. In fondo Zazà si era sottratta alla destino che vuole ridurre la donna a mera biologia (“donna non si nasce, lo si diventa”), che le nega qualsiasi possibilità di trascendere dalla propria immanenza. In fondo, non si era piegata all’inevitabile e all’inessenzialità. Julia Kristeva non ha mai smesso di sottolineare l’importanza del Secondo sesso: prima di quel testo la storia si faceva senza le donne; dopo, non esisterà storia e attivismo politico senza il contributo femminile.

 

Scrive in Simone de Beauvoir, la rivoluzione del femminile: “La coppia come spazio del pensiero, o il pensiero come dialogo tra i due sessi: non è questa l’utopia stessa? L’universale, la fratellanza, tutti i miti di coesione identitaria, autoctona e di gruppo si scindono in due. A pensarci, quanti di noi sono capaci oggi di una stima, di un disaccordo e di una generosità così durevoli?”. Quell’idea di coppia era iniziata prima di Sartre, era iniziata con Zazà. L’edizione delle Inseparabili riporta un’appendice di lettere che le due amiche si sono scambiate durante gli anni della loro frequentazione. “P.S. In questa lettera ho voluto sia manifestarle la mia tenerezza, sia darle una prova della fiducia infinita che ho in lei, rileggendola mi accorgo invece che è piena di reticenze. Con ogni evidenza la parola potrà scioglierle più facilmente della penna. Ma per quanto mi riguarda, non vedo perché non osare mai rilevare a me stessa ciò che so e diffidare di quello che prova il mio cuore? Tu sei un essere straordinario, il solo in cui abbia intuito incomparabile, l’impronta del genio insieme a quella del talento, del successo, dell’intelligenza, il solo che mi trascina al di là della pace, al di là della gioia…”.

 

In questo post scriptum, in quel passare dal lei al tu, c’è tutta la liberazione di un amore dichiarato. La madre di Andée/Zazà manda nel libro un telegramma a Sylvie/Simone. Zazà ha delirato tutta la notte, senza che i dottori siano riusciti a farle scendere la febbre. Invocava il suo violino, lo champagne e l’amica del cuore. In poche ore non c’era più. Simone la ritrova soffocata dal candore dei fiori bianchi che hanno messo sulla sua tomba. “Prima di prendere il treno depositai sopra quei mazzi immacolati tre rose rosse”. Zazà non morirà mai nei pensieri e nell’immaginario di De Beauvoir. Simone sognava tantissimo, lo aveva sempre fatto. Sognava sua madre sulle rive di un lago, rappresentazione di un’inaccessibilità mai risolta. Sognava vestiti orrendi, inutili accozzaglie, abbinamenti improbabili, ma necessari come se nel posto dove stava andando la stesse aspettando un freddo, un freddo implacabile; sognava uova sode infilzate da forchette che la gettavano nella disperazione.

 

E poi sognava spesso Sylvie, prima studentessa poi figlia di De Beuvoir, adottata nel 1980, infine erede delle sue volontà; la stessa Sylvie che firma la postfazione e ha curato l’edizione dell’inedito sulla base di documenti e manoscritti che erano stati donati alla Biblioteca Nazionale di Parigi, e di cui nel libro De Beauvoir porta il nome in una sorta di anticipazione d’intenti. E’ il doppio che mette calma, che placa il suo animo indomito. Certo ha continuato a sognare Zazà, dilaniandosi per il senso di colpa di non essere riuscita a riportarla in vita. Ma si sbagliava. Sì, almeno in questo, Simone de Beauvoir si è sbagliata.

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