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La sindrome delle élite, sempre più ripiegate nella bolla del loro narcisismo

Sergio Belardinelli

La realtà è diventata un pretesto per esercitare tifo, autoproduzione, autocensura e autoreferenzialità: è il virus che ha contagiato il discorso pubblico. Politici, magistrati, alti burocrati, giornalisti e intellettuali non sono immuni. 

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Quali sono oggi gli argomenti di conversazione preferiti dagli italiani? La domanda sarebbe interessante, se non fosse del tutto pleonastica. La pandemia infatti, e non poteva essere diversamente, ha inciso in profondità anche su questo aspetto della nostra vita. Se ieri eravamo interessati soprattutto al calcio, oggi parliamo soprattutto di coronavirus e di politica. Sembra che persino la vittoria del Milan nel derby sia passata pressoché inosservata ai suoi tifosi. Tuttavia il tifo ritorna sotto forma di tifo politico-informativo. Fino a ieri eravamo tutti allenatori della Nazionale, oggi siamo diventati tutti esperti virologi e statisti. La particolare natura del coronavirus, la sua carica virale, il Recovery fund, il Mes, la crisi economica, l’insipienza e la lungimiranza del governo eccitano così anche le persone più tranquille, spingendole spesso fino alla rissa. Per quanto sia comprensibile, c’è qualcosa di surreale in tutto questo, specialmente se pensiamo alla sproporzione tra la portata dei problemi che ci stanno venendo addosso e la qualità dei nostri discorsi sia privati sia pubblici.

 

 

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La realtà sembra essere diventata un semplice pretesto per esercitare il nostro tifo, spesso persino a danno dei nostri interessi. Di qui il moltiplicarsi di tante bolle all’interno delle quali il partito preso costituisce il criterio fondamentale di tutto ciò che si dice. Naturale che in questa sceneggiata tutti gli attori siano mediocri. Ma il risveglio sarà tragico. E quando arriverà scopriremo non soltanto di aver giocato con le nostre vite come con le figurine dei calciatori, ma anche di aver bruciato in questo gioco gran parte delle nostre già esigue ricchezze materiali e culturali. Nella conversazione civile del nostro paese si percepisce una sorta di essiccamento di energia intellettuale e morale che colpisce un po’ tutti, ma specialmente le nostre élite, sempre più ripiegate sul loro narcisismo. Per il semplice fatto di saper fare qualcosa (non sempre!), ormai ognuno si sente in grado di fare tutto, pronto a fare qualsiasi cosa, ad assumere qualsiasi incarico, purché serva a dare prestigio e visibilità. Non si tratta ovviamente del naturale desiderio di essere riconosciuti, il quale costituisce spesso la principale molla che spinge a far bene ciò che facciamo, quanto piuttosto di una sostanziale mancanza di rispetto per se stessi e per gli altri che, pur di ottenere riconoscimento, spinge a fare qualsiasi cosa.

 

Ridotti il senso del proprio dovere e la responsabilità a puri artifici retorici, l’autopromozione e l’autocensura sembrano essere diventate la regola aurea di chiunque appartenga a vario titolo alle cosiddette élite. Uomini politici, alti burocrati, magistrati, professori, giornalisti, intellettuali, tutti sembrano affetti dalla stessa sindrome. Non a caso per tutti esiste ormai un apposito festival: festival della politica, della letteratura, della storia, del diritto, della filosofia, dell’economia, della sociologia e altri ancora, tutti affollati per lo più di gladiatori desiderosi di scambiarsi soltanto garbati segni di approvazione (dicevamo le bolle). Altro che coraggio critico. Con la stessa serietà e forza espressiva del cappello di cui parla Flaubert all’inizio di “Madame Bovary”, questi festival, che pure hanno il merito di portare al grande pubblico temi un tempo riservati soltanto a pochi privilegiati, danno spesso l’impressione di incanalare quei temi in un binario che ne depotenzia la sostanza, riducendola a spettacolo per un pubblico che applaude “a prescindere”, dopo aver ascoltato ciò che si aspettava di ascoltare.

 

Non intendo ovviamente sminuire il loro successo, il quale ci dice quanto meno che gli italiani hanno voglia di allargare l’ambito dei loro interessi, di ritrovarsi in qualcosa che possa avere anche positive ricadute civili. Ma evidentemente, se commisuriamo questo successo alla qualità del nostro discorso pubblico, c’è qualcosa che non torna. E’ un po’ come se anche nel dibattito colto si siano insinuati gli stessi vizi che riscontriamo nei dibattiti televisivi e sui social. C’è forse meno risentimento e più autocompiacimento, ma la stessa autoreferenzialità. Eppure, ciononostante, il paese continua fortunatamente ad andare avanti. Segno evidente di un’Italia laboriosa, decisa a non mollare, per lo più trascurata dall’opinione pubblica, che però non smette di farsi carico dei propri doveri; un’Italia che esiste sia tra le élite, sia soprattutto tra coloro che faticano ogni giorno per provvedere a se stessi e alle proprie famiglie. Speriamo che duri.

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