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Se lo sconforto è grave, si può sempre cercare sollievo in una trama apocalittica

Mariarosa Mancuso

Vampiri, pandemie, inondazioni: la via del romanzo catastrofico

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Interno. Giorno imprecisato. Il solito dilemma: meglio perdersi in qualcosa che faccia ridere fino alle lacrime, oppure cercare sollievo in qualcosa di catastrofico? Avevamo un amico che nei momenti di grave sconforto leggeva Varlam Salamov, “I racconti della Kolyma”. Anni e anni dentro un campo di lavoro staliniano, in Siberia, a temperature così basse che lo sputo si gelava in aria, cibo scarso e tifo a volontà: pagine così terribili che producevano l’effetto opposto. Si sentiva subito meglio, libero dagli affanni, come i depressi – dato di fatto, non fantasia letteraria – che durante la prima ondata stavano meglio di prima. Almeno, erano in sintonia con il malumore del mondo. Lit Hub è sulla stessa linea, mette in fila 50 romanzi apocalittici. Non tutti a sfondo medico, per fortuna. Troviamo i vampiri di “Io sono leggenda”, scritto da Richard Matheson nel 1954 (il romanzo, non il film con Will Smith che è un qualunque film di zombie, e si perde la spaventosa premessa: cosa succederebbe se tutti al mondo fossero vampiri, tranne un solo uomo). Ci sono le piante semoventi che conquistano la terra nel “Giorno dei Trifidi” di John Wyndham (parliamo sempre del libro, uscito nel 1951, anche questo diventato un film). C’è l’inondazione di “Deserto d’acqua”, il romanzo di James Ballard: solo acqua fangosa, in uno dei romanzi più spaventosi che sia capitato di leggere. C’è “La strada” di Cormac McCarthy, che evita di svelare le ragioni dell’apocalisse: un padre, un figlio, niente da mangiare.

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Interno. Giorno imprecisato. Il solito dilemma: meglio perdersi in qualcosa che faccia ridere fino alle lacrime, oppure cercare sollievo in qualcosa di catastrofico? Avevamo un amico che nei momenti di grave sconforto leggeva Varlam Salamov, “I racconti della Kolyma”. Anni e anni dentro un campo di lavoro staliniano, in Siberia, a temperature così basse che lo sputo si gelava in aria, cibo scarso e tifo a volontà: pagine così terribili che producevano l’effetto opposto. Si sentiva subito meglio, libero dagli affanni, come i depressi – dato di fatto, non fantasia letteraria – che durante la prima ondata stavano meglio di prima. Almeno, erano in sintonia con il malumore del mondo. Lit Hub è sulla stessa linea, mette in fila 50 romanzi apocalittici. Non tutti a sfondo medico, per fortuna. Troviamo i vampiri di “Io sono leggenda”, scritto da Richard Matheson nel 1954 (il romanzo, non il film con Will Smith che è un qualunque film di zombie, e si perde la spaventosa premessa: cosa succederebbe se tutti al mondo fossero vampiri, tranne un solo uomo). Ci sono le piante semoventi che conquistano la terra nel “Giorno dei Trifidi” di John Wyndham (parliamo sempre del libro, uscito nel 1951, anche questo diventato un film). C’è l’inondazione di “Deserto d’acqua”, il romanzo di James Ballard: solo acqua fangosa, in uno dei romanzi più spaventosi che sia capitato di leggere. C’è “La strada” di Cormac McCarthy, che evita di svelare le ragioni dell’apocalisse: un padre, un figlio, niente da mangiare.

 

Più vicino a noi – è uscito nel 2014 - “Station Eleven” di Emily St. John Mandel, canadese che vive a New York. Una “feel-good story” sull’apocalisse non sembrava possibile, e invece la ragazza c’è riuscita. Riassume Lit Hub: la popolazione è decimata da un’influenza letale battezzata “Georgia Flu”. Un gruppo di attori viaggia per le lande deserte recitando William Shakespeare per i sopravvissuti. Feel-good è pure poco, per definirlo, è la posa di chi in questi giorni ha dato fondo alla retorica per ribadire l’importanza della cultura, mica la volete mettere al livello dei ristoranti? Fatto cinquanta, facciamo 51 con “Lockdown” di Peter May (appena uscito da Einaudi Stile Libero). Lo scrittore è scozzese, adesso vive (confinato) in Francia, il romanzo l’aveva scritto nel 2005. Quando gli scienziati pensavano che l’aviaria – tasso di mortalità: 60 per cento – avrebbe potuto ammazzare più gente dell’orribile Spagnola, anno 1918. Fece per bene le sue ricerche, quelle sull’influenza spagnola servirono per il thriller “Snakehead”, ambientato in Cina. Con gli avanzi – uno scrittore professionista non butta via niente – in sei settimane scrisse “Lockdown”: Londra sotto l’assedio di una malattia che costringe tutti in casa. Quarantena e coprifuoco, per essere più precisi. Gli editori a cui aveva mandato il manoscritto gli dissero che era un’idea folle, del tutto irrealistica. Risposta bizzarra, avrebbero potuto spostarlo dalla collana dei thriller con detective – c’è un mucchietto di ossa, in una borsa, su cui indagare – alla collana di fantascienza. Anche in tempi – diciamo così – di pace e tranquillità, un certo gusto per le catastrofi rimane ben saldo nel cuore dei lettori. E invece niente, non se lo filarono. Il romanzo rimase in una cartella di Dropbox. Tirato fuori al tempo della prima ondata e pubblicato giusto in tempo per la seconda. Se invece del romanzo riscaldato la vogliamo buttare sul classico, c’è Mary Shelley, sempre tra i magnifici 50. Dieci anni dopo Frankenstein e la creatura, scrisse “The Last Man”. Gli altri se li era portati via la peste bubbonica.

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