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Very nice!

Borat e la galleria delle distorsioni che non fa più arrabbiare il Kazakistan

I kazaki, le caricature e il saper ridere di ciò che non si è

Micol Flammini

Questa volta è Donald Trump ad arrabbiarsi con Sacha Baron Cohen, mentre l'ex repubblica sovietica è cambiata, non si sente più offesa e anzi, con il nuovo film ci ha fatto uno spot

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Per Donald Trump, Sacha Baron Choen è “un verme”, sostiene che abbia cercato di raggirarlo, “è un impostore” che il presidente americano non trova affatto divertente. Sono trascorsi quattordici anni dal primo al secondo viaggio di Borat negli Stati Uniti  e in questi quattordici anni è cambiato di tutto: noi, gli Stati Uniti, Borat, Sacha Baron Cohen. E’ cambiato anche il Kazakistan, la “nazione gloriosa” che quattordici anni fa si era molto arrabbiata per essere stata rappresentata come una terra piena di stereotipi, antisemita, retrograda, maschilista, sporca. Il Kazakistan era nei baffoni di Borat, nei suoi calzini, nel suo inglese, in ogni figuraccia e ai kazaki non era piaciuto affatto che la loro nazione venisse rappresentata a quel modo, così il film venne bandito e cercarono  di fare causa a Cohen. Comprarono anche spazi sui giornali internazionali per dire che il paese ex sovietico non era così sporco, maschilista e retrogrado. Non era nemmeno antisemita, e Cohen si era anche scusato, era intervenuto per precisare che non c’era nulla di vero sul Kazakistan nel film, ma che aveva voluto scegliere una nazione poco conosciuta e lui voleva parlare  d’altro: dell’America. Le parole non erano riuscite a convincere il paese che, alla notizia di un ritorno del film, aveva deciso di lasciar correre, far finta di nulla, non rispondere. Tanto più che il secondo Borat inizia proprio mostrando il protagonista ai lavori forzati: la sua missione nel 2006 era quella di fare uno “studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan” e il giornalista televisivo kazako aveva soltanto ridicolizzato la sua nazione. Ma nel 2020 viene liberato e mandato, di nuovo, negli Stati Uniti per donare la scimmia ministro della Cultura al presidente americano, che è Donald Trump. Gli stereotipi e le provocazioni non mancano, tuttavia dal 2006 sono trascorsi quattordici anni e questa volta i kazaki non soltanto hanno deciso di non prendersela, ma anzi se ne sono approfittati e hanno pensato: siamo piccoli, poco conosciuti, qualcuno parla di noi, usiamo la fama prima che la gente smetta di parlare del Kazakistan. E così la nazione ha deciso di adottare il borattiano “very nice” e di farci uno spot per il turismo.

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Per Donald Trump, Sacha Baron Choen è “un verme”, sostiene che abbia cercato di raggirarlo, “è un impostore” che il presidente americano non trova affatto divertente. Sono trascorsi quattordici anni dal primo al secondo viaggio di Borat negli Stati Uniti  e in questi quattordici anni è cambiato di tutto: noi, gli Stati Uniti, Borat, Sacha Baron Cohen. E’ cambiato anche il Kazakistan, la “nazione gloriosa” che quattordici anni fa si era molto arrabbiata per essere stata rappresentata come una terra piena di stereotipi, antisemita, retrograda, maschilista, sporca. Il Kazakistan era nei baffoni di Borat, nei suoi calzini, nel suo inglese, in ogni figuraccia e ai kazaki non era piaciuto affatto che la loro nazione venisse rappresentata a quel modo, così il film venne bandito e cercarono  di fare causa a Cohen. Comprarono anche spazi sui giornali internazionali per dire che il paese ex sovietico non era così sporco, maschilista e retrogrado. Non era nemmeno antisemita, e Cohen si era anche scusato, era intervenuto per precisare che non c’era nulla di vero sul Kazakistan nel film, ma che aveva voluto scegliere una nazione poco conosciuta e lui voleva parlare  d’altro: dell’America. Le parole non erano riuscite a convincere il paese che, alla notizia di un ritorno del film, aveva deciso di lasciar correre, far finta di nulla, non rispondere. Tanto più che il secondo Borat inizia proprio mostrando il protagonista ai lavori forzati: la sua missione nel 2006 era quella di fare uno “studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan” e il giornalista televisivo kazako aveva soltanto ridicolizzato la sua nazione. Ma nel 2020 viene liberato e mandato, di nuovo, negli Stati Uniti per donare la scimmia ministro della Cultura al presidente americano, che è Donald Trump. Gli stereotipi e le provocazioni non mancano, tuttavia dal 2006 sono trascorsi quattordici anni e questa volta i kazaki non soltanto hanno deciso di non prendersela, ma anzi se ne sono approfittati e hanno pensato: siamo piccoli, poco conosciuti, qualcuno parla di noi, usiamo la fama prima che la gente smetta di parlare del Kazakistan. E così la nazione ha deciso di adottare il borattiano “very nice” e di farci uno spot per il turismo.

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L’idea è di un americano, che si definisce una specie di Borat di Los Angeles in Kazakistan – una storia di specchi capovolti – che si è trasferito ad Almaty, dove organizza dei tour per turisti. Quando ha saputo che Borat stava tornando, si è subito messo a lavoro e ha raccontato al New York Times che ha appena avuto un bambino e “quando crescerà, non voglio che si vergogni di Borat. Voglio che dica: ‘E’ grazie a quel film che  mio padre ha iniziato questo divertente progetto’“. Andy Keen si è messo a lavoro assieme a un amico kazako e ha presentato dei video, mini spot, al ministero del Turismo, che ha capito quanto Borat rappresentasse più un’occasione per il Kazakistan che un insulto. Gli spot si occupano anche di correggere qualche stereotipo – mostrano che i kazaki non bevono urina di cavallo ma latte di cavallo – e  forse gli abitanti dell’ex nazione sovietica hanno anche imparato a non prendersela e, come spiega anche  Keen, c’è una nuova generazione che capisce il mondo, è curiosa, sa muoversi e sa anche approfittarne. Ha imparato a ridere di sé e di un giornalista baffuto, spettinato e retrogrado, perché sa di non assomigliargli. Qualche settimana fa era montata una grande polemica per un’altra nazione che si era sentita offesa per una serie: erano i francesi arrabbiati con “Emily in Paris”. La serie americana ritraeva i parigini come pensosi e permalosi, pigri e maschilisti. Gli abitanti della capitale erano finiti in una spirale di cliché e i quotidiani francesi, accusando la serie e affrettandosi a smentire i luoghi comuni, hanno finito per confermarli, soprattutto quelli sulla permalosità. Quando invece la serie, tra le più viste su Netflix, è un grande spot, superficiale e colorato, in dieci puntate a Parigi tra baschetti e pain au chocolat ovviamente profumatissimi.  

 
Borat è una caricatura che distorce tutto, il Kazakistan, gli uomini, le donne, il potere, e in questa galleria delle distorsioni c’è anche l’America,  molto distorta ma ben poco caricaturizzata. Sacha Baron Cohen la presenta come quella che è, quattordici anni dopo: trumpiana. E il presidente, come i kazaki nel 2006, non ha reagito bene. 

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