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La libertà malcresciuta esalta il valore del dilettantismo, anche in politica

Antonio Gurrado

I pericoli delle "passioni fredde" oggi dominanti. L'ultimo libro di Massimo Cacciari

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Viviamo nell’èra delle passioni fredde – invidia, odio, risentimento – che Nietzsche ascriveva all’ultimo uomo e che Massimo Cacciari individua oggi come tipicamente “scaricate sulle istituzioni e sui loro rappresentanti”, per mezzo della diffusa denuncia di “corruzione, incompetenza, mancanza di autorità”. Questa constatazione d’attualità assume nuovo senso quando Cacciari (ne Il lavoro dello spirito, Adelphi) la interpreta entro l’affresco della storia delle idee, come momento che ci vede vivere oggi gli ultimi spasmi di un rapporto fra filosofia, politica e scienza durato due secoli e più.

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Viviamo nell’èra delle passioni fredde – invidia, odio, risentimento – che Nietzsche ascriveva all’ultimo uomo e che Massimo Cacciari individua oggi come tipicamente “scaricate sulle istituzioni e sui loro rappresentanti”, per mezzo della diffusa denuncia di “corruzione, incompetenza, mancanza di autorità”. Questa constatazione d’attualità assume nuovo senso quando Cacciari (ne Il lavoro dello spirito, Adelphi) la interpreta entro l’affresco della storia delle idee, come momento che ci vede vivere oggi gli ultimi spasmi di un rapporto fra filosofia, politica e scienza durato due secoli e più.

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Tutto ebbe origine con Fichte, che dal 1794 al 1812 corresse incessantemente il suo Fondamento della dottrina della scienza facendo da allora coincidere il pensiero filosofico dell’occidente col pensiero scientifico: da quel momento, “mondo non è più il kosmos classico, perfettamente in sé armonizzato, né il saecolum cristiano, del cui Fine si ha certa fede; mondo è ciò che la scienza fa”. Quest’azione della scienza/filosofia va identificata con ciò che d’abitudine definiamo “lavoro intellettuale” ma che Cacciari preferisce tradurre “lavoro dello spirito”, con maggior risalto alla radice idealista del Geist, “al suo reale e perenne incarnarsi”. E’ un lavoro libero, “che non tollera giudici sopra di sé” ma che “funziona ormai esclusivamente nella rete del sistema tecnico-economico”. Tale sistema si espleta, genericamente, in una “rete universale di contratti”, che consente sì il mantenimento della società col suo ordine e le sue gerarchie ma, al contempo, “convince l’individuo che l’istanza radicale che lo muove e lo agita non possa comunque venire mai riconosciuta”. Le passioni fredde scagliate contro le istituzioni derivano da questa frustrazione, che molti avvertono senza comprendere; cioè senza pensare che, se esistono le istituzioni e una rete economica, è perché sono frutto dell’incessante lavorio dello spirito nelle generazioni precedenti.

 

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Ciò contro cui oggi la pretesa di libertà spinge a insorgere è il risultato dell’esercizio della stessa libertà fino a ieri. Per questo “la dimensione politica costituisce l’aporia immanente della scienza come professione”: deve far coesistere l’esigenza di libertà del lavoro dello spirito con la rinuncia alla dimensione privata entro cui esso non ha efficacia. Forse, viene da considerare leggendo Cacciari, il velenoso paradosso dell’attualità sta tutto qui. Per funzionare, “il Politico” ha bisogno di “porsi in analogia col lavoro intellettuale scientifico”, poiché “senza apparato tecnico-burocratico, senza organizzazione, privo di competenze, il Politico non è professione, e risulterà perciò necessariamente inefficace a governare un mondo dominato dalle potenze tecnico-scientifiche” e dalla sovrastante rete economica. L’esigenza di libertà intrinseca al lavoro intellettuale, diffuso ormai su vasta scala, si è però tramutata in anelito a fare a meno dell’apparato, dell’organizzazione e delle competenze; a rinnegare la politica come professione. Questa libertà malcresciuta, fomentata dalle passioni fredde, esalta il valore del dilettantismo, “il dilagare dell’idea della possibile identificazione fra governo e pubblica opinione”. Ma, ricorda Cacciari, Fichte diceva che il fine di un governo è rendersi superfluo: considerazione ottimistica, negli anni dopo la Rivoluzione francese e nel pieno delle guerre susseguenti; considerazione che coglie però il paradosso saliente della politica come professione. Cacciari si spinge a concluderne che il Politico “sarà colui che assume come proprio dovere la realizzazione di tutti gli ambiti della vita secondo la forma della razionalità scientifica”, “colui che opera per la progressiva scomparsa di ogni carattere autonomo della propria stessa professione”. L’antipolitico, il dilettante di matrice reazionaria o rivoluzionaria, è invece “disposto ad agire senza conoscenza della realtà, senza calcolo delle conseguenze del suo agire”; sarà “animato da irrazionali convinzioni e responsabile soltanto nei confronti dell’affermazione di queste ultime”. Per questo le passioni fredde che rivolge alla politica diventeranno in realtà il combustibile per renderla fine a sé stessa, bizantinismo e palliativo; per perpetuare il proprio potere e camuffarne l’inutilità.

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