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Il giallo in mostra

Fabiana Giacomotti

Sheridan col trench, Maigret con la pipa, fino alla Sicilia di Montalbano. Le regole di noir e thriller sono sempre uguali. Ma a cambiare siamo noi

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Nostalgiche del trench del tenente Sheridan della nostra infanzia e degli amari Biancosarti che beveva a ogni ora perché gli “mettevano il fuoco nelle vene”, battuta che capimmo molto più tardi, nella prima mattina di sole di questa ottobrata romana atipica come tutto il resto siamo andati al Museo di Trastevere a vedere la mostra sulla storia del thriller televisivo prodotta da Rai Teche. L’esposizione si intitola “Sulle tracce del crimine. Viaggio nel giallo e nero Rai” e ripercorre la storia di un genere che in Italia, per convenzione, prende il via dalla collana dei thriller Mondadori lanciati nel 1929 con la copertina gialla da cui ha tratto la definizione (noi propenderemmo per il pop sentimentale di Carolina Invernizio de “Il bacio della morta” e per tutto il gore di fine Ottocento). Al momento, in Rai, il noir si incarna nel Luca Zingaretti-Commissario Montalbano e infatti lo scopo ultimo e dichiarato dell’esposizione, che a gennaio 2021 verrà ospitata dal Museo Morando di Milano, è quello di mostrare la padronanza del genere da parte di viale Mazzini negli anni in cui la concorrenza di Gomorra ha imposto non solo uno stile, ma perfino un lessico, per respingente che sia. 

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Nostalgiche del trench del tenente Sheridan della nostra infanzia e degli amari Biancosarti che beveva a ogni ora perché gli “mettevano il fuoco nelle vene”, battuta che capimmo molto più tardi, nella prima mattina di sole di questa ottobrata romana atipica come tutto il resto siamo andati al Museo di Trastevere a vedere la mostra sulla storia del thriller televisivo prodotta da Rai Teche. L’esposizione si intitola “Sulle tracce del crimine. Viaggio nel giallo e nero Rai” e ripercorre la storia di un genere che in Italia, per convenzione, prende il via dalla collana dei thriller Mondadori lanciati nel 1929 con la copertina gialla da cui ha tratto la definizione (noi propenderemmo per il pop sentimentale di Carolina Invernizio de “Il bacio della morta” e per tutto il gore di fine Ottocento). Al momento, in Rai, il noir si incarna nel Luca Zingaretti-Commissario Montalbano e infatti lo scopo ultimo e dichiarato dell’esposizione, che a gennaio 2021 verrà ospitata dal Museo Morando di Milano, è quello di mostrare la padronanza del genere da parte di viale Mazzini negli anni in cui la concorrenza di Gomorra ha imposto non solo uno stile, ma perfino un lessico, per respingente che sia. 

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“La tradizione del giallo televisivo Rai meritava un momento di sintesi: pur essendo uno dei generi narrativi più popolari e robusti da un punto vista produttivo è anche il meno studiato, e questo fa il paio con il disinteresse della critica letteraria e accademica rispetto al romanzo giallo, che continua a essere relegato in una zona minore della storia letteraria”, sottolinea il direttore di Rai Teche Maria Pia Ammirati, curatrice della mostra con lo studioso di media Peppino Ortoleva al quale dobbiamo la conturbante scoperta che George Orwell, uno che ci ha inoculato il terrore di finire rinchiusi in una stanza piena di topi e di trasformarci per questo in delatori dei nostri affetti più cari, riteneva che le storie poliziesche contemporanee avessero perso l’eleganza dei tempi di Conan Doyle, quella dei ladri gentiluomini, per “dimostrare una crescente sete di sangue e l’esibizione dei più disgustosi dettagli” (scrive nel 1944, il saggio è “Raffles and Miss Blandish”). Lo sguardo dello spettatore è tutto, anche quando questo conosce ogni trucco e tecnica della suspence (“vai Sergiooo”, ululava Dario Argento davanti ai titoli di testa di “Brutti Sporchi e Cattivi”), e il suo complice ideale è la poltrona. 

 

  
La mostra inaugurata da poco nel cuore della Covida romana ce lo esplicita come una verità rivelata: se in principio è l’omicidio e da quello, biblicamente, non ci scappa, l’elemento imprescindibile per la riuscita di una storia poliziesca è invece il doppio cuscino. Cioè, appunto, lo sguardo dello spettatore nella sua estensione più avvolgente e protettiva, la morbidezza che attutisce tremori e ansie, accoglie i sobbalzi, nasconde le lacrime per la povera vittima e l’esultanza per la punizione del colpevole. Lo sguardo dello spettatore è il punto di vista assoluto, il focus del cinema come ci spiega da molto tempo Francesco Casetti, ma il suo status ideale è comodamente assiso in poltrona, e nessuno più di questa esposizione ce lo dimostra. La poltrona è l’arredo fondamentale, dirimente, per gustarci la morte al massimo delle sue e delle nostre possibilità, per decifrare le mosse del detective, per lambiccarci sulla psicologia dell’assassino e sulle ragioni profonde della sua aggressività, si intende tutte riconducibili alla sua infanzia disgraziata: se Mary Radcliffe o Mary Shelley fossero nate dopo l’affermazione della psicoanalisi come scienza forense, la storia della letteratura romantico-gotica e di quelle storie intrise di soprannaturale e di magico sarebbe stata diversa, e già nel 1945 Umberto Saba notava la stretta parentela tra il metodo indiziario dei gialli e quello della psicoanalisi.

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L’indizio non è solo uno strumento, è un piccolo disordine che rinvia a un disordine più grande, il crimine. Dunque, uno spettatore elisabettiano sotto il palco del Globe Theater si prendeva gli schizzi di sangue finto del Macbeth o di quel caposaldo dello splatter che è il Tito Andronico pensando giusto a divertirsi, dopotutto era un’alternativa all’esecuzione del mariuolo di turno in piazza, mentre i saggi sulla psicologia di Macbeth scritti negli ultimi decenni, innumerevoli,  mirano piuttosto alle tecniche di cura e riabilitazione dell’assassino; esiste addirittura una devianza che da Lady Macbeth ha preso il nome, “the Lady Macbeth effect”, ed è la compulsione degli assassini a lavarsi il corpo. Questo per dire che fra le sale e le salette del piccolo museo romano, dove i guardiani dicono di non aver visto così tanti visitatori dalla retrospettiva di Inge Morath, si ha tempo per riflettere su molte cose, a partire da noi stessi e dalle nostre reazioni di fronte alla violenza e alla morte e alla sua rappresentazione, in quella che Ammirati descrive come una congerie di sentimenti contrastanti: “Se da un lato la narrazione del genere giallo esalta una ricezione emotiva e sensoriale fondata sulla suspense, sul colpo di scena e sull’enigma da sciogliere in un gioco difficile di incastri e di false partenze, dall’altro è inevitabile che ponga una serie di interrogativi sulla natura morale del male”. 

 
Alla base del successo delle storie criminali, nella narrazione fantastica come nell’informazione giornalistica, c’è infatti una contraddizione di fondo: ci parlano di una violenza che rompe nel modo più radicale qualsiasi ordine a cui si aggiungono spesso le violazioni di altri tabù e una dose massiccia di eros, ma lo fanno nella normalità di un consumo abitudinario, in quel quotidiano “accendere il telegiornale” o in quella consuetudine di leggere o di guardare un giallo dopo l’altro che, in una celebre invettiva contro i lettori di Agatha Christie, Edmund Wilson indicò sprezzantemente come un “vizio innocuo”. Sulla pagina, o meglio ancora sullo schermo, i gesti più estremi possono sì lasciare tracce, emozionare e sconvolgere, ma prevedono e anzi impongono la presa di distanza. La poltrona che avvolge e la serialità che dilaziona il carico emotivo, e al tempo stesso favorisce il dibattito, appunto e, al tempo stesso, la possibilità di dilazionare l’azione e l’emozione, una puntata dopo l’altra, grazie alla progressiva fidelizzazione che è propria della serialità e all’empatia suscitata dal personaggio-brand: Sheridan col trench, Maigret con la pipa, il commissario Cattani con lo svolazzo del ciuffo. Tutti sono incarnati, filtrati, sintetizzati e umanizzati nel commissario “Montalbano sono”, che è ormai un marchio editoriale, come James Bond a cui si ispira per la celebre advocatio, e come lui (certo, molto meno dinamicamente di lui), interviene e risolve come il deus ex machina della tradizione narrativa più antica, in quella Sicilia da cartolina, ferma in un tempo indecifrabile, modello Dolce&Gabbana, che infatti ha un clamoroso successo all’estero, prima vera fiction poliziesca da esportazione mondiale dopo “La piovra”, ma con molto più incanto di quella grazie anche al ruolo arcaico che nella risoluzione dei casi Montalbano assegna al destino. Sceneggiature, centinaia di fotografie, commenti musicali: tutto concorre al successo del noir e tutto è stato messo in mostra a Trastevere.

 

Si parte da “Il processo di Mary Dugan” del 1954, che pareva ancora teatro, e si arriva fino alle storie di Vigata con i suoi quattro, cinque milioni di ascolti a puntata, constatando l’evoluzione di un’expertise affinata nel tempo e che si è pure potuta permettere molte divagazioni colte in luogo delle frasi smozzicate di Gomorra e di tutto quel gran fottere in senso proprio e figurato, quello che uno studio pubblicato dall’Università del Salento sulla nuova fiction definisce “il furbesco seriale”. C’è il Commissario Ingravallo di Gadda con il suo linguaggio sperimentale ma la trama che fila a perfezione, accessibile a tutti; c’è la musica di Luigi Tenco che introduceva il Commissario Maigret interpretato da Gino Cervi (“il preferito dallo stesso Simenon”, come titolavano già i giornali dell’epoca, e il protagonista ricambiava con fervore: “con questo poliziotto nato in provincia sento di poter dividere molte cose”), e c’è naturalmente Tino Buazzelli-Nero Wolfe,  l’uomo grazie al quale gli italiani che non avevano letto Proust (quasi tutti, come oggi peraltro) scoprirono la sensualità della cattleya e il giardinaggio come attività intellettuale del maschio sofisticato, oltre a un bel po’ di jazz eseguito benissimo. Passo dopo passo, abbiamo ritrovato anche l’eroina preferita delle signore di allora, che in televisione non cercavano come oggi l’identificazione casalinga ma l’evasione: Lauretta Masiero alias Laura Storm con i capelli taglio Vergottini e i tailleur abbottonati di lato, a imitazione di Mila Schon e del Givenchy di Audrey Hepburn in “Come rubare un milione di dollari e vivere felici?”, ma con tutto l’estro chic della costumista Flora Franceschetti di cui a Napoli, dove si giravano gli episodi, decenni dopo abbiamo cercato senza fortuna i capi originali.

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Nata alla metà degli anni Sessanta con la supervisione produttiva di Andrea Camilleri, nessuno improvvisa niente, Laura Storm è stata la prima detective donna della televisione italiana, decenni prima delle poliziotte scarmigliate ed emotivamente instabili di oggi. La Masiero, a cui un giorno, dopo la riverenza, mostrammo furtive i nostri piedi infantili calzati nelle scarpette di vernice, lei sì che poteva capirci (la mamma ci fulminò con un’occhiata), eseguiva mosse di judo e spianava la rivoltella in faccia ai delinquenti in anni in cui sul piccolo schermo, cioè nella dimensione più trasversale possibile dell’approccio narrativo, le donne potevano ambire giusto al ruolo di vittima o di fantasma, cioè di strega, tipo Carla Gravina ne “Il segno del comando” che vedemmo anni dopo di nascosto, occhieggiando quatte dietro il divano mentre gli adulti sembravano troppo presi dall’azione per badare a noi che non potevamo nemmeno immaginare chi fosse quel Lord Byron che citavano di continuo. 

 
Prese dall’entusiasmo dei ricordi, riattraversato Ponte Sisto verso casa siamo dunque corse a cercare su YouTube qualche episodio delle avventure della giornalista detective di quegli anni forzatamente ingenui e lì ci siamo dette che l’accuratezza scenografica e nel casting negli ultimi decenni devono aver fatto passi da gigante, perché allo spettatore di oggi non basterebbe vedere una bella faccia da gladiatore romano in kimono per identificarlo con un boss della yakuza (noi, oggettivamente, non capivamo a chi si dovesse rivolgere la Masiero che cacciava “il capo della banda giapponese”, semplicemente perché non ne vedevamo uno in scena: abbiamo dovuto calarci anche noi nella parte) e comunque qualcuno griderebbe all’appropriazione culturale. La fiction di oggi è decisamente meno fittizia di quella di ieri, dal punto di vista estetico, e se gli sceneggiatori del Maigret di Gino Cervi sapevano rendere a meraviglia “l’atmosfera grigia e stagnante della provincia, la solitudine, la stanchezza di fronte al male”, come scrive Ortoleva, la cultura social di adesso esige una chiarezza e una trasparenza che agisce in senso opposto, cioè dalla fiction alla realtà. Il passato nazista di Horst Tappert, dopo la sua scomparsa con le testimonianze della sua adesione e il ricordo di quel passato fino ai primi anni Settanta, getta un’ombra sulla figura bonaria dell’ispettore Derrick e il suo orrendo cravattone. La storia non dovrebbe mai essere giudicata secondo la morale del momento, ma la fiction è storia fantastica, dunque proiettiva sul sé, e bisogna andarci cauti. Non a caso, gli attori di Gomorra rilasciano periodicamente interviste in cui enumerano le proprie virtù sociali e Maria Pia Calzone, la spietata Immacolata Savastano della fiction trasmessa da Sky, si è fatta un nome come membro del consiglio direttivo dell’Unione nazionale Interpreti teatro e audiovisivo; i suoi fan dei media, che sono parecchi, sottolineano sempre la sua laurea in Lettere e la specializzazione al Centro sperimentale. La presa di distanza, lo sguardo prospettico, non è solo dello spettatore. Ormai, serve anche all’attore.
 

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