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Come amare la bolla

Noi, il Covid e nostre safety bubbles

Maurizio Crippa

Era la parola-virus dei mostri su Facebook. Ora è la metafora, o lo stile di vita, della nostra sicurezza. A scuola o con gli amici. Parole che cambiano, perché tutto è cambiato. Pure noi

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I Flaming Lips sono un gruppo rock sgangherato e post psichedelico americano, ma il frontman Wayne Coyne, uno che aveva iniziato con la musica negli anni Ottanta rubando gli strumenti in una chiesa, ha avuto l’idea dell’anno: fare un concerto in presenza e Covid free mettendo se stessi e il pubblico dentro a bolle gonfiabili a grandezza umana. Ovviamente singole. Sicuri e distanziati. Nella bolla. E hanno fatto un concerto al Criterion  di Oklahoma City, la loro città. Con un plus content di fantasia, per la performance avrebbero potuto provare un titolo ottimista e psichedelico: “Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bolla”. Tra virus, vaccini e (molte) balle, the bubble ci ha già cambiati e forse ci salverà.

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I Flaming Lips sono un gruppo rock sgangherato e post psichedelico americano, ma il frontman Wayne Coyne, uno che aveva iniziato con la musica negli anni Ottanta rubando gli strumenti in una chiesa, ha avuto l’idea dell’anno: fare un concerto in presenza e Covid free mettendo se stessi e il pubblico dentro a bolle gonfiabili a grandezza umana. Ovviamente singole. Sicuri e distanziati. Nella bolla. E hanno fatto un concerto al Criterion  di Oklahoma City, la loro città. Con un plus content di fantasia, per la performance avrebbero potuto provare un titolo ottimista e psichedelico: “Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bolla”. Tra virus, vaccini e (molte) balle, the bubble ci ha già cambiati e forse ci salverà.

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Mentre nell’estate delle cicale l’Italia stava a baloccarsi con i banchi a rotelle e altre sciaguratezze, le linee guida del governo della Gran Bretagna per il rientro a scuola, a luglio, avevano già introdotto la rivoluzione delle “safety bubble”. Le bolle. Gruppi chiusi e ristretti di alunni, al massimo una classe, che convivono (si toccano, si passano la biro, mangiano insieme) e non si incontrano  mai con le altre bolle o classi di bolle, così come sono divisi anche i prof. che entrano in contatto con loro. Se scappa un contagio (a casa, per strada: extra bolla nulla salus) sarà quella bubble a finire in isolamento, le altre potranno continuare. “Se la scuola riesce a organizzare bolle più piccole meglio”, aveva detto il governo. I bambini del Regno, che come tutti i bambini imparano in fretta e si adattano meglio – un giorno li chiameremo i nativi della pandemia? – si sono adeguati, hanno interiorizzato i comportamenti. Che vada tutto bene non si sa, a Manchester i casi di contagio registrati alle scuole sono oltre cinquecento. Ma l’idea forse si rivelerà vincente, meglio dei lockdown a macchia di leopardo e attaccatevi al tram che piacciono ai nostri governatori.


Mentre nell’estate delle cicale stavamo a baloccarci con le discoteche da non chiudere e il Billionaire asintomatico di Briatore, nei paesi anglosassoni, gli Stati Uniti o l’Australia, giovani e adulti e padri e madri di famiglia – soprattutto i giovani: loro ci tengono a vivere – si stavano organizzando con le “social bubble”. Le bolle volontarie, dette anche “quaranteam”. Un concetto semplice: accordarsi per avere solo pochi contatti in una piccola cerchia di persone, e mantenere un distanziamento rigido per tutti gli altri. Un gentleman agreement sanitario, senza strette di mano, tra amici, conoscenti, congiunti. Argomento di discussione presto divenuto topic. Con i consigli di medici e psicologi: a giugno su Abc l’epidemiologa Melissa Hawkins spiegava che le “social bubble sono un approccio cauto, una via di mezzo tra espandere le relazioni sociali e contenere i rischi limitando l’esposizione”. “L’idea è di rompere la catena di trasmissione del virus, ma senza rinunciare a tutti i contatti personali”. E’ diventata una pratica diffusa, fa successo anche su Instagram dove è bello mostrarsi in raduni con gli happy few della propria bubble. Una trovata saggia, un modo persino ironico per   sopravvivere alla Zoom fatigue. Per mettersi in sicurezza senza costringersi all’isolamento volontario, senza costringere lo stato a chiuderci in casa.  O in fondo, la festa d’addio malinconica alla passata libertà. La rinuncia triste a quello che non sei più. L’interiorizzazione di un isolamento che c’è anche quando non ci sarebbe o non sarebbe obbligatorio. E’ l’esperienza che magari inconsciamente facciamo tutti i giorni, nelle nostre vite forse meno organizzate (chi di noi, nell’Italia delle cicale, saprebbe gestire una bolla sociale sicura in cui non ci sia almeno un coglione che poi va a trovare la vecchia zia, l’amante, il portiere della bolla del calcetto, il barista che gli ha messo via le birre fuori orario?). Tendiamo a uscire meno, tutti, Merkel o non Merkel. A frequentare meno, ad andare a cena solo da persone che hanno la casa grande, meglio il terrazzo. Se si può lo smart working, se si riesce meno caffè al bar, un passo di lato sempre verso chi ti viene incontro. Una limitazione volontaria e impaurita senza avere il coraggio di dirselo. E senza più l’entusiasmo da balconi dei primi tempi per pensare “torneremo ad abbracciarci”, “durerà poco”. Invece durerà tanto, e quando usciremo forse sarà passata anche l’èra del baciarsi tutti, tra donne e tra uomini con i peli della barba, ogni volta che ci incontravamo. Lo ha scritto in modo magistrale Mattia Feltri, un paio di settimane fa, nella sua rubrica sulla Stampa: “Ho camminato per la strada e ho pensato a quei piccoli scontri tra pedoni, lo sfiorarsi accidentale, lo spensierato urto di spalla contro spalla, sono ormai pestilenziali e dunque rifuggiti in allerta costante… i colleghi, già amici, le loro braccia, i loro corpi, e ho pensato che in cinque mesi non li ho mai toccati”. E chiudeva: “Sapremo di esserne usciti quando avremo il cuore più lieve, e lo potremo dire con le mani”. Ma per ora, resta nel fondo più fondo dei nostri occhi  un sospettoso o irredimibile senso di distanza. Mitigato da un pensiero furtivo: per fortuna ho la mia bolla sicura. Si può anche buttarla  in arte e ironia. Nella primavera dello spavento un collettivo artistico berlinese (città magica, Berlino: esistono ancora i collettivi artistici) che si chiama Plastique Fantastique ha inventato un casco di plastica trasparente, look da fantascienza anni Cinquanta, che chiunque può realizzare in casa e poi infilarselo per girare in divertita sicurezza. Con la propria bolla personalizzata. Lo hanno chiamato iSphere, “è pop, e appartiene a tutti: è un oggetto divertente e serio che ci stimola ad affrontare questa situazione eccezionale”.


Perché alla fine la bolla è diventata bella. Oltre che buona. Anzi anche simpatica. Per i bambini delle scuole inglesi, che ci si muovono secondo le regole di un immaginario parco giochi; per gli (ex) hipster americani che hanno trasferito la loro sfera di account in un luogo reale ma a posti limitati. Per noi tutti, viaggiatori più o meno rassegnati del restringimento sociale. Una tecnica di sopravvivenza più evoluta, un modello di rilassamento necessario. Per ricominciare a pensare di vivere in un mondo in cui ci si può spostare, incontrare, persino viaggiare senza infettarsi o infettare qualcuno. Come in certi disaster movie con i virus negli aeroporti che (probabilmente) nessuno vorrà più girare per un bel pezzo. Anche se poi il mondo più vasto in cui possiamo viaggiare è un mondo finito, una sorta di Truman show della vacanza. Ma oggi serve anche quello, ed è sempre la bolla a pilotare le idee e soprattutto il business. Ad esempio una settimana fa Hong Kong e Singapore hanno firmato un accordo ufficiale per una “travel bubble” ristretta ai loro hub aeroportuali. I cittadini dell’uno e dell’altro potranno spostarsi “safety”. La travel bubble è un accordo tra paesi che sono in grado di garantire il contenimento del Covid, senza perciò dover ricorrere alla quarantena. Un rischio calcolato, cui anche altri paesi come la Corea del sud stanno pensando, con cautela. Ma, ad esempio, pare che la “travel bubble” costruita una ventina di giorni fa tra Australia e Nuova Zelanda non abbia convinto per nulla i cittadini neozelandesi a imbarcarsi. Le idee innovative necessitano sempre di un periodo di adattamento, questo si sa.

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Del resto le bolle fanno parte di questi sogni infantili e leggeri, ectoplasmatici, che ci aiutano a vivere, a guardare tutto da una prospettiva diversa. Stimolano la fantasia. Un articolo pubblicato da una rivista scientifica qualche tempo fa e la cui eco è giunta fino in Italia ci informa che ricercatori del Japan Advanced Institute of Science and Technology di Nomi hanno utilizzato delle bolle di sapone per trasportare il polline ai fiori di un albero di pere. “Può sembrare fantascientifico – hanno dichiarato – ma le bolle di sapone rappresentano un complemento a bassa tecnologia efficace e sicuro e una possibile strategia da implementare per integrare il lavoro delle api e di tutti gli animali impollinatori”. Messa così sembra la nemesi dei profilattici, ma andrà tutto bene, ne siamo sicuri. Si cita molto di recente, sui siti di cultura up to date, un piccolo racconto di Liu Cixin, il più celebre degli scrittori di fantascienza super tecnologica cinese. Si intitola Le bolle di Yuanyuan, è pubblicato in Italia e promettiamo che lo leggeremo. Racconta di una ragazzina con la passione per le bolle di sapone, che trova il modo per trasformarle in gigantesche bolle di un materiale futuribile e lunghe chilometri, in grado di trasportare l’acqua sopra le città inaridite dalla siccità causata dal progresso inquinatore. Le bolle aiutano a vivere o almeno a sperare.


Tutto questo fa parte, se vogliamo, anche di un grande cambiamento di parole, del loro senso, dei significati  che la pandemia ci ha imposto, in un mutamento che è soltanto incominciato. Fino a poco tempo fa – un anno fa? Come cambia in fretta un’epoca – la “bolla” era il virus. Era il male assoluto. Quella metafora volatile che oggi è per noi il simbolo di un antivirus volontario e virtuoso, in un tempo non tanto distante era la portatrice di una malattia sociale pericolosa. Bolla era l’immagine che indicava coloro che non uscivano mai dal loro spazio mentale e circoscritto. Quelli che su Facebook seguivano soltanto i loro simili e coloro che confermavano i loro pregiudizi, il più delle volte sbagliati. Molti studi erano stati dedicati alle social bubble internettiane, alle mefitiche comunità, che poi diventavano forza d’urto nelle strade o elettorato, che aborrivano ogni confronto, che si abbeveravano delle fake news e che poi sono passati a bere clorochina. Vive nella sua bolla nel linguaggio dei ragazzini significa sfigato, nei linguaggio della politica significava una minaccia aliena, e del resto è ancora così. Ma quello era il tempo in cui molti soloni volevano chiudere l’internet – e chissà come ci saremmo trovati in questi mesi. “Contrastare le fake news è il più grande problema che oggi i politici debbano affrontare nel mondo”, diceva Jim Messina già dieci anni fa, prima del diluvio. Sgonfiare le bolle, questo si diceva. Chissà che fine hanno fatto quelle metafore puntute. Che fine ha fatto Cass R. Sunstein, un pezzo da novanta del mondo giuridico americano, colto e abile nelle immagini suggestive, che tra i possibili limiti al web aveva formulato un sogno,  creare sui social network “i tasti della serendipity”, in modo che da Facebook, con un semplice clic, un algoritmo buono bucasse la bolla e costringesse il recluso a scoprire altri link e altri pensieri diversi. I tasti della serendipity come lo spillone per far scoppiare la bolla. Come il pallone bucato in spiaggia di Nanni Moretti. La serendipity del coronavirus invece ci ha portato altrove. Come le bolle turistiche che promettono di portarci in luoghi incontaminati. La serendipity del coronavirus ci ha portati a un ribaltamento delle idee e anche delle parole. Non solo la bolla che da nefasta è diventata bella. Ci sono un’infinità di parole, abbastanza per farci un cruciverba a schema libero, che hanno mutato il senso. Le sentiamo ripetere in continuazione e quasi non ci accorgiamo che diamo loro un significato nuovo. Gregge? Erano i pecoroni del web, ora è la speranza di una immunità sognata. Influencer? Non ditelo più, significa contagioso, a meno che non specifichiate “ah, ma i Ferragnez”. Restrizione è la condizione che nessuno avrebbe mai voluto né accettato, e adesso è misura necessaria e nobile virtù dell’autocontrollo. Limite, confine? Chi siamo noi (o chi siamo stati per lunghi anni) per poterne accettare. Perché  tutto il resto. A Milano c’è una Rsa che si chiama Nuovo Focolare. Chissà come si sentono. Ci sono persino i dibattiti sui giornali, à la manière della Crusca, se sia meglio dire lockdown o ripescare il desueto italico clausura, che profuma di scelta libera ed edificante. Più geniale, lo scrittore Marco Rossari ha coniato su Twitter “diffidanza: movimento coordinato di allontanamento in pubblico mentre si chiacchiera”. Tanti eufemismi, tanti giochi di parole per resistere alla sorpresa, per esorcizzare la paura. In attesa che un ago di vaccino arrivi a bucare la bolla, e rompere l’incantesimo. Servirebbe un grande regista, per raccontare in immagini tutto questo. Il titolo lo avrebbe già pronto: “Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bolla”.

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