PUBBLICITÁ

Se la planimetria è autobiografia: viaggio nelle stanze vuote di quello che era un sogno nazionale, l'Airbnb di cittadinanza

La spoon river dell'affittacamere

Michele Masneri
PUBBLICITÁ

Certo c’è la stanza d’hotel, deserta, che fa impressione, ma è difficile vederla, perché è l’hotel stesso ad essere sbarrato. E ci sono i racconti: c’è l’antico cliente che l’estate si è presentato al glorioso antico albergo di Positano, normalmente da prenotare con un anno di anticipo, e lì, accolto quasi con le lacrime agli occhi dal personale sperso e sfaccendato, dice, “cenavo quasi sempre in camera, ma poi ogni tanto scendevo, mi pareva brutto per loro”. E ci sono i 500 hotel che solo a Roma non hanno mai più aperto (quasi la metà del totale). Insomma è l’olocausto del posto letto, 120 mila letti vuoti nella capitale, orfani dei turisti americani e russi e cinesi, è lì davanti a tutti. E i motel? Chi pensa ai motel, simbolo di solitudine e di clandestinità e piacere? Ci si andrà lo stesso? Con stanze sanificate? E magari confusioni pruriginose tra gel disinfettante e altri tipi di gel, come si legge in qualche cronaca recente?

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Certo c’è la stanza d’hotel, deserta, che fa impressione, ma è difficile vederla, perché è l’hotel stesso ad essere sbarrato. E ci sono i racconti: c’è l’antico cliente che l’estate si è presentato al glorioso antico albergo di Positano, normalmente da prenotare con un anno di anticipo, e lì, accolto quasi con le lacrime agli occhi dal personale sperso e sfaccendato, dice, “cenavo quasi sempre in camera, ma poi ogni tanto scendevo, mi pareva brutto per loro”. E ci sono i 500 hotel che solo a Roma non hanno mai più aperto (quasi la metà del totale). Insomma è l’olocausto del posto letto, 120 mila letti vuoti nella capitale, orfani dei turisti americani e russi e cinesi, è lì davanti a tutti. E i motel? Chi pensa ai motel, simbolo di solitudine e di clandestinità e piacere? Ci si andrà lo stesso? Con stanze sanificate? E magari confusioni pruriginose tra gel disinfettante e altri tipi di gel, come si legge in qualche cronaca recente?

PUBBLICITÁ

La spoon river turistica è però soprattutto quella del bed and breakfast e dell’Airbnb. Basta guardare Immobiliare.it o Idealista o qualunque sito di annunci (ben più frequentati delle varie Youporn, si sa qual è la vera ossessione italiana). E lì, il visitatore si renderà conto di due novità, due incongruenze: da una parte l’enorme offerta di affitti, a prezzi anche incredibilmente bassi. Per dire: bilocale zona piazza di Spagna, a Roma, 900 euro, e chi pensasse a una truffa resterebbe deluso, non è truffa, semplicemente leggendo meglio si nota che l’affitto è per 4-5 mesi, è un “affitto a medio termine”, categoria spuntata fuori dal nulla in questi mesi di post prima ondata. E’ il tentativo disperato di chi cerca di scavallare l’epoca grama del lockdown, per tornare sul mercato a macinare affitti giornalieri quando sarà passato il guaio. Certo ti chiedi chi mai dovrebbe affittare un appartamento per 4/5 mesi, eppure è tutto così, amici che ti chiamano e ti dicono, seriamente: conosci mica qualcuno che vorrebbe affittare quella graziosa casetta che posseggo per 4/5 mesi? E tu pensi con perfida soddisfazione a tutti i soldi che si son fatti in questi anni di Airbnb; e poi però la soddisfazione ti passa perché ti metti nei loro panni: chi mai dovrebbe affittare, appunto, una casa per 4/5 mesi? Uno scrittore estero abbiente? Un regista in cerca di ispirazione? Un marito cacciato di casa? Certo, categorie letterariamente interessanti, ma numericamente marginali a fronte di una mostruosa impennata dell’offerta. L’offerta di affitti, secondo l’osservatorio immobiliare di Immobiliare.it e Mioaffitto.it., è cresciuta infatti enormemente; a Milano, per esempio, del 68,7 per cento negli ultimi sei mesi, mentre la domanda è ferma.

I proprietari che non credono all’affitto a medio termine decidono invece di vendere, e lì ecco questa invasione di ribassi che ti arrivano ogni giorno nella casella di posta elettronica (chi è malato di case ha impostato almeno due o tre ricerche, per zone, per città, e ogni mattina di questi tempi ti arrivano i ribassi, come in un grande saldo del mattone). Meno dieci, meno quindici per cento. Ma poi vai a vedere questa distesa di planimetrie, e lì capisci: sono le raffigurazioni geometriche di un grande amore finito, di un grande recovery plan che gli italiani negli anni passati si son fatti da soli, quello del bed and breakfast e della casa vacanze. La planimetria è autobiografia – testimonia una mutazione architettonica che puoi vedere di persona, se ti capitasse la ventura di andare a visitare uno di questi appartamenti in vendita che sono arrivati sul mercato: sono appartamenti dopati, architetture modificate, volumi esplosi: ecco ingressetti e cucinotti sempre più striminziti, e invece un’abbondanza di camere da letto, anche cinque, sei, e magari senza finestra, e ognuna col suo bagno, tragico, cieco. Sono segni inequivocabili: lì c’era un bed and breakfast. Asciugamani ancora arrotolati sui letti (l’asciugamano arrotolato, sempre bianco, di cotone ruvido, è un triste totem del B&b); e dépliant spiegazzati all’ingresso, di ristoranti amici; e micidiali televisorini sospesi al soffitto. Un senso di malinconia che ti assale mentre chiedi all’agente immobiliare: ma era un bed and breakfast? “Assolutamente no”, risponde l’agente immobiliare (l’agente immobiliare dice sempre “assolutamente”). Perché sul bed and breakfast pesa pure lo stigma. Si fa ma non si dice, evidentemente, eppure oggi dovremmo celebrarlo, essendo stato il più fondamentale ammortizzatore sociale del Dopoguerra. Altro che Mes.  Mentre Franceschini studia la Netflix italiana della cultura, è chiaro che l’Italia era la Silicon Valley dell’affittacamere.

 

PUBBLICITÁ

Perché c’è la storia di Airbnb e poi c’è la storia italiana. La leggenda dell’azienda è nota, due ragazzotti, due architetti a San Francisco in preda al caro-prezzi decisero un decennio fa di dare in affitto un divano nel loro tinello (si chiamava Design Air Bed and Breakfast), poi la cosa decollò, e in questi giorni i fondatori Brian Chesky e Joe Gebbia mettono di tanto in tanto su twitter reperti di quell’epoca gloriosa, i cereali personalizzati (uno con la faccia di Obama e uno con McCain, era il 2008),  e le mail che si scambiavano: “mi è venuta un’idea, perché non affittiamo il divano di casa? Per quel che vale”. Reperti tipo la Numero Uno di zio Paperone (a San Francisco in tanti ancora sono stati su quel divano, però forse alcuni millantano, è come “ho lavorato con Fellini”, a Roma). L’azienda ora è in crisi, ha tagliato un quarto del suo personale. Si quoterà comunque in Borsa, vediamo come andrà. Ma intanto, si pone un dilemma, agli originalisti anti-gentrification, quelli secondo cui Airbnb portava desertificazione e degrado nelle città. Adesso che Airbnb è in ritirata,  le città rivivranno magicamente di vita propria? 

E coi 150 anni di Roma capitale, vien da riflettere. Forse quello dell’affittacamere era il sogno americano applicato all’unica materia di cui son fatti i sogni italiani, il mattone. C’era infatti chi aveva ereditato la magione invendibile, troppo grande per una persona sola, e tirava su un tramezzo. C’era chi finalmente sfruttava il doppio ingresso. A Roma, ci si arrangiava anche nella ristrutturazione minima (detta appunto: la romanella). Confidando che il turista avrebbe visto e ricordato soprattutto gli esterni. Dunque, sconclusionatezza e povertà nell’arredo (mai arrivò l’esotico design): paretine e termosifoncini, archetti, mobili in stile ancora fantozziani, arredi che potrebbero figurare benissimo in uno di quei tanti romanzi a base di affittacamere dell’unità d’Italia: il povero Francesco Sangiorgio, deputato di prima nomina protagonista della “Conquista di Roma” di Matilde Serao, romanzo parlamentare per eccellenza, desidera prendere un appartamentino, un “quartierino”, incappando subito in una sequela di megere che ben prima di Airbnb avevano istituito fitto e subaffitto come core business nella capitale. Ecco dunque prima un quartierino lungo e stretto, inagibile, tipo oggi annuncio di loft “per amatori”; poi salendo di prezzo e standing da una signora segnalata da colleghi, “una piccolina con una vestaglia di casimiro” (cioè cachemire) “azzurro, guarnita di merletto bianco, coi capelli della fronte avvolti nelle cartine, e un profumo grossolano di muschio”. La proprietaria rimpiange un onorevole Gagliardi che “non se ne sarebbe mai più andato, tanto vi si trovava bene, se gli elettori non gli avessero fatto il tiro di non rieleggerlo. Ma la vita politica è fatta di questi dolori!”. La vita dell’affittacamere romano pare molto più grama di quella dei pensionanti nella Berlino di Isherwood, che fa subito “Cabaret”.

Solo Roma, con la sua sciatteria secolare identitaria, è riuscita peraltro a resistere negli anni all’estetica universale dell’Airbnb. Seggioline di plastica, luci al neon, il finto-marmo (quella specie di trinciato di mattonelline sottili effetto marmo grigio che ormai si trova ovunque, a Roma, dalle palestre alle tragiche ristrutturazioni). A Milano, invece, design totale, dal vano scala allo scopino del cesso, Milano era naturalmente in linea con quell’estetica globale fatta di mobili finnici, piatti bianchi, soprammobili chiari e neutri, la sedia degli Eames ormai fuori diritti e il tavolo ovale di Saarinen però IKEA (perché anche a Milano ci si arrangia, ma con stile). Piante, possibilmente rampicanti, no ficus che è troppo impattante. Qualche libro, ma non troppi; tutto era infatti depotenziato e omogeneo nella casa da bed and breakfast ai quattro angoli del globo perché, anche se Airbnb raccomanda il tocco locale, in realtà il turista voleva sentirsi sempre un po’ a casa: un McDonald’s urbanistico.

L’estetica unica dell’Airbnb aveva un grande merito: non ti faceva mai sentire solo; nessuno si ricorda com’era viaggiare prima. Era tutto un dormire in ostelli pittoreschi, col vaso rotto e la TV gracchiante e il copriletto polveroso. E taxi antipatici, alberghetti pulciosi, telefonate proibitive col gettone e la cabina. Adesso, tra videochiamate e camere d’affitto con look magari omologato ma rassicurante, è diventato invece impossibile sentirsi lontani, sentirsi soli.  L’estetica Airbnb è – paradossalmente – la stessa consigliata da e per Zoom (vi ricordate i suggerimenti in cui tutti siamo incappati, durante il primo lockdown e le prime videochiamate? Luce laterale, libreria dietro, niente elementi di disturbo alle spalle, e possibilmente nessuno che si masturbi, come sta accadendo nelle ultime settimane: siamo diventati tutti un po’ scenografi col lockdown. Il paradosso è che quella Airbnb era l’estetica perfetta da lockdown, ideale per videoconferenze e Zoom e Streamyard. Già, peccato che la bella stanza è vuota).

Airbnb, che con le sue “experience” incoraggia usi e costumi locali, in realtà ti faceva vivere sempre nello stesso monolocale, e l’unica avventura era trovare le istruzioni per fare il check-in automatico nella casa che hai scelto perché aveva una valutazione a cinque stelle.  Già, il rating: era il controvalore per la società della fiducia che ci avevano convinto sarebbe durato per sempre: lo sconosciuto non faceva più paura, perché era tracciabile, l’app Airbnb diceva tutto di te, altro che Immuni. Eravamo diventati compilatori di pagelle continue, abituati all’idea del rating perenne, in una società-Black Mirror dove tutti recensiscono tutti. Dare i rating poneva questioni di coscienza. In un viaggio in Sicilia pre Covid, avevo messo per sbaglio 4 stelle alla voce “pulizia”, perché gli asciugamani parevano non freschissimi, ma credevo d’essere nella sezione “messaggio privato al tuo host” – c’è anche questa sezione, perché il rating è complicato, ti fanno un sacco di domande, ci sono messaggi e recensioni che leggerà anche il tuo host e cose che leggerà solo Airbnb, e invece altre cose che leggeranno tutti. Ti vengono poste tantissime domande: c’è il phon? Ci sono barriere architettoniche? E’ un lavoraccio compilare la pagella, ma era un’altra novità dell’economia digitale, dell’epoca dell’affittacamere diffuso: un vecchio lavoro che in altri tempi qualcuno sarebbe stato pagato per fare e oggi fai tu, gratis. Insomma avevo involontariamente abbassato le stelle alla mia padrona di casa, che, sportivamente, mi aveva risposto “e vabbè, ce ne faremo una ragione”. E lì, sensi di colpa.

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Altrove, con host più tecnologici, procedure di “check in” e “check out” completamente automatizzate, già pronte (profetiche?) per epoche di distanziamento sociale; ecco spiegati quei lucchettoni con codice appesi a porte e balaustre, e dentro la chiave, per non aver nessun contatto fisico con chi vi ospita. A Napoli, invece, un host: “ma io posso solo dopo le 18 per il check in. Prima devo faticà”; sarebbe un po’ tardi. “Vabbuò, ma che problema c’è: vi fate un bicchiere di vino sotto casa”.  

 

PUBBLICITÁ

Per l’Italia, con la disoccupazione giovanile al 32 per cento, Airbnb e i suoi derivati sono stati un eccezionale reddito di cittadinanza che andava a sopperire soprattutto al disfacimento della borghesia, quella che aveva zero liquidità ma tanto mattone appesantito dall’Imu, lasciato da nonne e zie. Chi era fortunato, le zie le aveva a Milano o Roma o Venezia, e dunque di questo mattone ci ha fatto una professione, è diventato esperto nel fornire la bottiglia di prosecco e la marmellatina e ha finalmente potuto mettere a frutto, o come si dice oggi, “scaricare a terra”, le lingue faticosamente apprese in costosi licei ed Erasmus, in vista di carriere che poi non si sono verificate. Molti sognavano di farci i miliardi: Vanity Fair raccontò di un host che ogni anno incassa 11.9 milioni di sterline affittando su Airbnb le sue 881 proprietà a Londra. È il primo nella lista di chi fa più soldi affittando case, ma la realtà è più terra terra: in Italia Airbnb è soprattutto un reddito di cittadinanza. Secondo i dati ufficiali, nel 2016 i 5.6 milioni di ospiti hanno portato nelle tasche degli host 621 milioni di euro, con un guadagno medio all’anno di 2,200 euro. E poi dopo la fase iniziale gloriosa, anche prima del Covid il mercato si era un po’ saturato, si pagano soprattutto tutte le tasse. Per i più agguerriti comunque c’è anche un manuale, “Guadagnare con Airbnb”, edito da Feltrinelli, che oggi sembra un po’ surreale, come il manuale entusiastico del ministro Speranza, “Perché guariremo”, sottinteso dal Covid, Feltrinelli pure, annunciato per giovedì scorso e misteriosamente scomparso dagli scaffali.

Tutti si improvvisavano albergatori nell’âge d’or dell’affitto breve; così sono nate carriere, anche. Con specificità locali. A Roma è un business familiare, a Milano invece sono soprattutto single, giovani, spesso del sud, che si occupano dei check in e dei check out per organizzazioni che spesso ne hanno tanti, di “posting” – le case si chiamano posting.  Nella capitale, Airbnb è diventato il più importante ammortizzatore sociale specialmente tra giovani; oltre alla pensione di nonna, c’è la casa di nonna, la stanza in più a casa di nonna, che viene fotografata e messa online. Carlo Verdone quarant’anni fa interpretava Leo, bamboccione non molto reattivo, alle prese in “Un sacco bello” con una spagnola in cerca di alloggio, la celebre Marisol, respinta in varie pensioni. Oggi avrebbe affittato la camera di mamma che sta a Ladispoli, consigliando delle “experience” a chilometro zero, e con questi interscambi sarebbe sicuramente più spigliato.

 

Certo, in tanti hanno pensato di arricchirsi ma non è così facile, a tanti di quelli che hanno comprato appartamentoni tirando su tramezzi e improvvisandosi host poi non è andata bene, perché è, appunto, un lavoro, bisogna esser portati e volonterosi, c’è l’ospite che arriva in ritardo all’aeroporto e devi stare su ad aspettarlo, c’è quello che perde le chiavi. Però si era innescato un meccanismo keynesiano: altre professionalità in crisi erano rinate. I fotografi, categoria generalmente destinata all’estinzione causa iPhone, vi avevano trovato uno sbocco imprevisto, chiamati a partecipare alla candida estetica universale di Airbnb, allargata e sbiancata da grandangoli mostruosi e sovraesposizioni boreali. Era nata una categoria misteriosa e irraggiungibile, i fotografi convenzionati, che conoscevano complicate tecniche per far sembrare il vostro monolocale a Ostia un arioso loft finlandese. Ma adesso cosa faranno? sulla pagina Community di Airbnb Italia, botta e risposta tra utenti: un Roberto832:  “Buongiorno, vorrei sapere se e come è possibile entrare a far parte dei fotografi che operano per Airbnb”. “Devi chiedere all’azienda”, risponde un Giancarlo10, “(vecchio e navigato musicista, fine psicologo e consumato detective, casualmente SuperHost in Napoli”. Perché appunto Airbnb era diventato un magnifico secondo o primo lavoro anche per soggettoni che mai ne avevano sentito la necessità, ma a un certo punto un bel giorno guardandosi allo specchio s’erano detti: in fondo perché non monetizzare una buona volta ciò per cui siamo famosi, l’ospitalità? Alcuni erano veramente ospitali, e ne era nato il dreamjob, il lavoro dei sogni, finalmente sapevano dove scaricare tutta quell’ospitalità italiana.

Non solo potevi comprarti una casa che non potevi permetterti, e affittare una stanza, che avrebbe ripagato il mutuo. Quando Airbnb introdusse le “experience” cioè degli indigeni che ti facevano da guida turistica, o insegnavano a fare le orecchiette, o a fare tour tra i trulli, sembrò l’uovo di colombo, una specie di risarcimento postumo per tutto il vivere all’Italiana, cioè stare in una italian piazza, bere un italian spritz, non fare un cazzo: attività colpevolizzanti che secondo alcuni avevano solo aumentato il debito pubblico, e invece finalmente venivano considerate come qualcosa di etico, e monetizzabile. I più fortunati, e abili, diventavano superhost, aristocrazia degli affittacamere. Altri cadevano in un clamoroso auto-inganno, non essendo veramente ospitali, anzi magari proprio misantropi, non avendo mai accolto amici o parenti o fidanzate e adesso buttandosi inopinatamente sull’accoglienza.

In qualche modo il grande esperimento sociale di un paese “tutto su Airbnb” dava comunque un’illusione: che la vita fosse meglio di quella che era. Che ci fosse una possibilità. Quando sono andato a stare all’estero per un po’ ho messo anch’io casa mia in affitto su Airbnb. La coppia che me la gestiva ha fatto alcune modifiche che riteneva necessarie: intanto le foto professionali candide; poi dei vasi di cristallo con delle pigne dentro; e infine dei cuscinoni écru. In quelle foto non è veramente casa mia, è molto più bella che nella realtà (a parte le pigne). Enorme, luminosa, è come la rappresentazione Instagram che vorremmo dare di noi. E’ una tragica finzione, ma vogliamo disperatamente crederci (l’annuncio me lo vado a rivedere ogni tanto, soprattutto quando sono proprio giù di morale, è talmente bella che mi verrebbe voglia di cliccarci sopra e prenotarla: se non ci abitassi già).

 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ