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Il gusto dei ricordi

Il cibo e i suoi sapori. Il racconto di una vita

Gaia Manzini

Ne "Il gusto di una vita" Iaia Caputo racconta la sua infanzia, la giovinezza, la maturità attraverso i sapori che ne hanno segnato le tappe. Un lessico famigliare fatto di odori e sapori. Prima che le cose cambino e il passato sia perso

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Vorrei non dover fare la spesa; riempire e svuotare la lavastoviglie; vorrei non dover apparecchiare e anche mangiare, se sono da sola. E così faccio: il piatto è sempre più piccolo, il pasto veloce, frugale: la giornata costellata di tante piccole fami. Eppure ha ragione Iaia Caputo, che tanto sa di scrittura quanto di cucina: la memoria ha i suoi sapori. E i sapori parlano di condivisione, di accudimento, d’amicizia e d’amore: di tutto quello che in una vita è indimenticabile. Aveva ragione Clara Sereni, che è tanto presente all’autrice; aveva ragione nel dire che nella cucina, come nella vita, c’è come un bisogno di gesti di agio, di un odore di cura. C’è bisogno di “reinventare per non rimasticare, reinventare per non mangiarsi il cuore”.

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Vorrei non dover fare la spesa; riempire e svuotare la lavastoviglie; vorrei non dover apparecchiare e anche mangiare, se sono da sola. E così faccio: il piatto è sempre più piccolo, il pasto veloce, frugale: la giornata costellata di tante piccole fami. Eppure ha ragione Iaia Caputo, che tanto sa di scrittura quanto di cucina: la memoria ha i suoi sapori. E i sapori parlano di condivisione, di accudimento, d’amicizia e d’amore: di tutto quello che in una vita è indimenticabile. Aveva ragione Clara Sereni, che è tanto presente all’autrice; aveva ragione nel dire che nella cucina, come nella vita, c’è come un bisogno di gesti di agio, di un odore di cura. C’è bisogno di “reinventare per non rimasticare, reinventare per non mangiarsi il cuore”.

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Iaia Caputo ne “Il gusto di una vita” (Enrico Damiani Editore) racconta la sua infanzia, la giovinezza, la maturità attraverso i sapori che ne hanno segnato le tappe. Da quella mitologia famigliare che la vede appena nata sputare un frammento di capezzolo di sua madre, a tutto quel lessico famigliare fatto di odori e sapori, ma anche rumori. I pranzi della domenica, infatti, erano così lunghi ed esagerati che poi nessuno parlava più, e in sottofondo c’era solo la voce di Sandro Ciotti che commentava le partite di calcio. È brava Caputo perché ci prende per mano: il suo stile collinare ci porta con movimenti sinuosi a ragionare di giovinezza e maternità, di indipendenza ed emancipazione, passando però dalle papille gustative.

 

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È il panino con pomodori e Philadelphia a dire delle prime sigarette; l’hot-dog dei primi baci sui divanetti delle discoteche (l’hot-dog, come la senape, il wurstel, il ketchup era la cosa più lontana dalla cura casalinga, “era un cibo nostro, era un cubo nuovo”); è il carciofo che racconta ancora di una nonna paterna e di una famiglia così lontana, con il suo dialetto, i modi spicci, non raffinati: il carciofo con il suo “odore ossimorico di cibo che cuoce bruciando” racconta di un distacco, un senso di sofferta non appartenenza, di diversità. Il cibo e le sue tappe. Quando si diventa madri non si è più un’autarchia, è lì che ogni nostra azione ha un riflesso, un riverbero, e bisogna imparare a dosare zucchine e patate, e poi aggiungere altre verdure nel brodo; bisogna scegliere pappe e ingredienti e scoprire che il cibo è cura, è protezione.

 

Il cibo poi consolida le amicizie nel presente e riporta indietro gli amici del passato, come quella donna bellissima e malata, che come ultimo gesto prima di morire si mise il rossetto. Il cibo porta alla memoria i momenti d’eccesso; quelle fami insaziabili che sono una voglia di radicarsi, di ribellarsi alla voglia di andare, di distrarsi, di prendere altre strade, fino a perdersi, come sente di aver fatto l’autrice in molti momenti della propria vita. E poi ci sono le immagini che ritornano, che ci radicano alla nostra storia e tracciano la nostra identità: come il volto di una bambinaia, di Rosa, che la pizza la mangiava piegata in mezzo a un panino, come se fosse una fetta di prosciutto, e si accaniva su quel tripudio di carboidrati, mentre la foga raccontava tutto della sua storia: quel mangiare la propria fame e un’antica miseria; la rabbia di donna sola, non amata, forse sfruttata.

 

Scrive Iaia Caputo che non esiste un’attività più prossima alla scrittura della cucina: entrambe hanno bisogno “di tecnica e immaginazione, di ordine e struttura, di esperienza e talento”. Entrambe sono fatte di parole. Uscire per fare la spesetta racconta di radici famigliari, di uno stile di vita, di un modo di organizzare il tempo. A Napoli in pasticceria entri per portarti via “una guantiera di paste”, ma se poi ti trasferisci a Milano non puoi che chiedere “un vassoio di pasticcini”, altrimenti non ti capirebbe nessuno; e allora vuol dire che è successa una svolta epocale, una rivoluzione: tante cose nel tempo sono cambiate e alla fine qualcosa è definitivamente cambiato anche dentro di te. Ma non la capacità di raccontare, non il talento di mettere in prospettiva un’intera esistenza e restituirne il sapore con tutta la malinconia di questo gesto. La consapevolezza di avere perduto per sempre quel passato rievocato con tanto gusto.

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